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 2013  febbraio 24 Domenica calendario

CARLO CECCHI UNO DEI RE DELLA SCENA SI RACCONTA E RICORDA I TANTI AMICI SPECIALI

I camerini dei teatri non hanno niente di appariscente. Neppure l’effetto della mescalina, come diceva Aldous Huxley, li farebbe scoprire nella improbabile bellezza di alcuni dettagli. Un’anonima monotonia ne regola lo spazio ed è qui – in uno del Teatro Argentina di Roma – che mi attende Carlo Cecchi. Il prossimo anno compirà 75 anni e si porta addosso le tracce evidenti di una bellezza malandrina, di un’energia potente che gli consente di recitare con efficacia
La serata a Colono,
un dramma di un’ora e mezza circa, scritto da Elsa Morante e che Mario Martone ha messo in scena. Cecchi recita con incredibile tensione. L’ho visto una sera: sdraiato su una barella, legato con cinghie di contenzione, bendato. Gli sbruffi di sangue sotto i ciechi occhi. Un Edipo derelitto. Mirabile nella sua distruzione fisica, nel suo tormento mentale, nel suo essere discarica divina. E penso che se la lingua possa conservare ricordi ed esperienze è anche perché l’attore, quando è tale, ne è il tramite evocativo.
È stato amico della Morante e di Cesare Garboli. Ed incuriosisce sapere cosa ci sia di speciale in questo animale nato per la scena.
Sulla consolle della specchiera, in evidenza, un libro appena acquistato, è una biografia di Franz Fanon: «Una mia passione giovanile. Arrivai a lui attraverso Jean-Paul Sartre che scrisse un bellissimo testo a
I dannati della terra.
Che libro magnifico. E mi viene di pensare al suo lavoro di psichiatra in Algeria, al suo impegno anticoloniale, alla sua morte giunta troppo presto. Le dispiace se continuo a fumare? Lo so, per la voce le sigarette sono dannose».
A proposito di voce mi ha incuriosito la sua recitazione da sdraiato in
Serata a Colono.
Tecnicamente come avviene?
«Non avrei potuto recitare il testo senza l’esperienza di Shakespeare. Senza il verso in endecasillabi. Quando si recita
Essere o non essere di
solito l’attore è come se mettesse la frase tra parentesi, in realtà è un lungo monologo dove il punto fermo arriva dopo 22 versi. Ci vuole un respiro che copra quel percorso. Se lo interrompi non si capisce più nulla».
Quanto è importante la musicalità?
«Molto. Quasi sempre uso una voce diaframmatica, quindi profonda, come i cantanti. Lo stesso Eduardo De Filippo, che era il massimo della stilizzazione, ma anche della naturalezza, aveva le intonazioni vicine al canto».
Ha conosciuto De Filippo?
«Abbastanza profondamente. L’ho frequentato e ho lavorato nella sua compagnia. Fui stupito quando mi offrì il ruolo che era stato di suo padre, quello di Felice Sciosciammocca ».
Perché stupito?
«Non ero napoletano anche se conoscevo benissimo quel teatro. Agli inizi degli anni Sessanta avevo fatto l’università a Napoli e allora c’era una tale quantità di teatri popolari, di sceneggiate con attori meravigliosi, che mi venne spontanea l’identificazione con quel mondo.
Eduardo percepì questo amore».
Non era un uomo facile.
«Non lo era, è vero. Userei per lui la parola schizzogeno. Poteva comportarsi con te come se fossi la persona più importante e cara e tre giorni dopo guardarti come uno che dice: ma questo chi è? Che vuole?».
Bipolare.
«Spesso i geni sono un po’ bipolari. Ma vederlo in scena ogni sera fu una grandissima esperienza. Non aveva nessuna inclinazione didattica. Però quando, eseguiva un piccolo gesto – e ti diceva: o vedi come si fa? – capivi la forza della sua essenzialità. Non mi raccontino balle: il Piccolo di Milano, Strehler. No, decisamente. Il grande teatro della seconda meta del Novecento in Italia e in Europa è stato quello di Eduardo».
Si dice che il solo che abbia retto il confronto sia stato Carmelo Bene.
«È sempre difficile fare paragoni. In un certo senso, Carmelo era l’opposto. Era la parodia del grande attore ottocentesco. La parodia feroce, quella che in Antonin Artaud si manifestò con il “teatro della crudeltà”».
Possiamo tradurre “crudeltà” con provocazione verso il pubblico?
«Per un verso sì. Era scagliarsi contro un pubblico sedato, scuoterlo dal torpore, anche pedagogico in cui era finito. Dall’altro però la crudeltà era una forma di sacrificio, un modo di immolarsi sulla scena. A un certo punto Bene passò alla parodia del grande regista. Faceva tutto lui, con le voci registrate, dentro un apparato perfetto, controllato fino all’ultimo dettaglio. Con quel corpo – che era passato dall’esplosione violenta delle prime esperienze a una sorta di immobilità – dava la sensazione di un sacrificio tardivo ed estremo».
«Credo che il suo modo di recitare mostrasse che già negli anni Sessanta il teatro non si poteva più prendere sul serio. O almeno non nella maniera desiderata da Strehler e Grassi. Il loro brechtismo, in quegli anni vincente, tanto che io stesso ne rimasi contagiato, fu un tentativo di risolvere la crisi del linguaggio convenzionale».
«Il teatro dialettico che fa riflettere, non quello che commuove
o fa ridere. Lo storicismo di sinistra volto a catechizzare le masse. L’idea del progresso, questo mi dava fastidio. Poi è arrivato Beckett e ha fatto piazza pulita di tutto
Gli anni Sessanta sono anche quelli del teatro di avanguardia.
«Venivo fuori dall’Accademia nazionale di arte drammatica – da quel teatro che oggi uno potrebbe perfino rimpiangere – e poi da Brecht e da un certo tipo di teatro politico da cui in seguito mi distaccai. E fu allora che presi sul serio il disordine di quegli anni. L’incontro con il Living Theatre lo vissi come uno shock, alimentato dall’uso delle droghe ».
Che tipo di esperienza fu quella delle droghe?
«Sto parlando di un periodo in cui ero molto giovane.
Erano gli anni lisergici. Questo richiedeva una certa attenzione per evitare che la cosa degenerasse nella moda del Lsd esplosa in America. Ma sono certo che non sarei diventato quell’attore che oggi sono senza quelle sperimentazioni sul mio corpo».
Una forma di crudeltà applicata su se stessi?
«Una crudeltà nel senso in cui la intendeva Artaud, come sacrificio di sé. Il teatro è una forma di sacrificio, abolisce la distanza che il privato tende a interporre».
Mi sono sempre chiesto se in un attore esiste una vera vita privata.
«Esiste nel senso che c’è una vita. Ma poi cosa rappresenta? Fin da ragazzo ho sofferto di noia. Pensi che Elsa Morante mi diceva: sai perché ti annoi? Perché sei noioso. La verità è che la noia per me è un vizio congenito. Un peso che sento ogni qualvolta mi accorgo che la vita è ripetizione. Alzarsi e fare le stesse cose è per me spaventoso».
Qualche esperto potrebbe chiamarla depressione.
«No, è la noia nel senso in cui la intendeva Baudelaire. Tanto è vero che cessa quando entro in teatro».
Accennava alla Morante, come l’ha conosciuta?
«In relazione al Living Theatre di cui entrambi eravamo grandi ammiratori. Era il 1965. Mi telefonò un giorno sottoponendomi un problema legato al Living e mi invitò a casa sua. Abitava a Roma in via dell’Oca e quando la vidi fui colpito dall’inaspettata bellezza. Elsa, allora, aveva più di 50 anni, ma ne dimostrava 15 di meno. Con naturalezza mi chiese se avevo fame. Ero molto magro. Le dissi che un caffè bastava. Eravamo nella veranda, inondata di luce, con la terrazza piena di fiori e a vista le cupole di piazza del Popolo. Più tardi mi colpì il contrasto con il buio del suo studio. Era come se si passasse da un mondo a un altro».
Le due anime di una grande scrittrice.
«Per scrivere aveva bisogno di isolarsi. Era rigorosissima. Pranzava alle dodici e trenta e poi nel pomeriggio si chiudeva nello studio, staccava il telefono ed entrava nel suo mondo. Nello stesso tempo – come dimostrano le lettere che Einaudi ha da poco pubblicato – intratteneva una quantità enorme di rapporti. Diceva: sai Carlo qual è la più grande felicità? La solitudine. E la maggiore infelicità? La solitudine ».
Dalle Lettere si ricava una certa predisposizione all’innamoramento, come fu per Visconti.
«Fu proprio amore, forte, terribile e infelicissimo perché non corrisposto. Una volta le dissi: Elsa ho l’impressione che ti innamori delle persone in fuga, come appunto Visconti. Mi guardò con sospetto e aggiunse: tu dici?».
Che tipo di relazione è stata la vostra?
«Di grande coinvolgimento. E c’entra molto il teatro. Elsa intuitivamente mi riconobbe un talento, senza avermi mai visto sulla scena. Era tipico di lei. Mi spinse ripetutamente, dicendomi che il solo modo perché io manifestassi quel talento era nel fare il mio teatro, senza aspettare o dipendere da alcunché».
Anche Cesare Garboli è stato vicino al suo teatro.
«È vero ci conoscemmo nel 1968. Ma l’amicizia con Cesare nacque quando, dopo un pranzo con Elsa, lo accompagnai verso casa, allora abitava in via Borgognona. Mi parlò a lungo di Molière e delle traduzioni che stava facendo. Era un uomo a suo modo fantastico. C’era in lui una vocazione di attore fortissima che aveva represso. O meglio, in qualche modo, rifusa nelle bellissime traduzioni».
Cosa le manca di queste due figure?
«In modi diversi sono stati un inno alla provocazione intelligente, al gusto culturale e allo stile tra classicità e stravaganza. Erano dotati di un’energia insolita».
Nella Morante quell’energia alla fine si spense.
«Fu terribile il disastro cui andò incontro. Scrivendo
Il mondo salvato dai ragazzini Elsa
si era non dico identificata, perché era troppo intelligente, ma aveva creduto fortemente che quella generazione del Sessantotto avrebbe cambiato le cose. E lo slancio le durò fino a quando ha scritto
In seguito, le polemiche che la investirono l’amareggiarono. Ma anche il paese – con gli attentati terroristici – era cambiato. Soffriva. E non riuscì più a fare niente».
Anche la malattia alla testa immagino contribuì a questo stato di cose.
«Senza dubbio. Fu verso la fine degli anni Settanta che si manifestò una forma idrocefalica che impediva la circolazione tra i lobi. Lei intuiva che c’era qualcosa di grave ma era una maestra nell’inventarsi altri sintomi. Nessun medico seppe diagnosticare nulla di certo. Il suo carattere cambiò. Era stata una donna meravigliosa. Mi diceva: Carlo, sono felice quando tu arrivi, ma non sono infelice quando te ne vai. Era il suo modo di sentirsi libera. L’età forse non aiuta a sentirsi più liberi».
Cos’è l’età per un attore?
«La vecchiaia restringe il campo delle possibilità, ci sono tanti ruoli che invecchiando non si possono più fare. Non posso più fare
Amletoo Ivanov.
Non posso più fare tante cose. Ma la verità è che il conto si presenta solo quando fisicamente non ce la fai più. Ma poi sarà vero? L’attore, penso, è un essere immaginario. Una fantasia del cielo o dell’inferno. Gettato per caso sulla terra».