Walter Siti, la Repubblica 23/2/2013, 23 febbraio 2013
TENNESSEE WILLIAMS
[Uno scrittore chiamato desiderio] –
Anthony Burns è il protagonista di un racconto breve di Tennessee Williams, Il desiderio e il massaggiatore negro.
Pallido impiegato con gli occhiali, Burns soffre di cervicale e nel «corridoio frusciante di tende bianche» di un bagno turco incontra per l’appunto un massaggiatore nero, una montagna d’uomo che lo tratta piuttosto brutalmente; Burns ha inopinatamente un orgasmo e da quel momento frequenta il centro massaggi sempre più spesso, fin che il massaggiatore non gli spezza una gamba ed entrambi vengono cacciati dal direttore inorridito. Il massaggiatore se lo porta a casa e lì il gioco sadomaso continua sempre più intenso finché un giorno, mentre nella chiesa vicina il predicatore parla di Cristo sanguinante sulla croce e una casa dei dintorni va a fuoco senza che i pompieri riescano a «prevalere contro la purezza della fiamma divoratrice», il massaggiatore adempie finalmente al desiderio profondo di Burns uccidendolo e mangiandone il corpo, «fin che le ossa rimasero pulite».
To burn significa bruciare e burnt offering è l’offerta in olocausto. Fin dall’inizio Williams ci aveva detto che in Burns c’era «una tendenza istintiva a far parte di cose che lo inghiottivano» e che aveva una passione irragionevole per il cinema: «Il cinema gli leccava il cervello, l’oscurità lo riassorbiva come una particella di cibo che si scioglie in una grande bocca calda».
Il racconto, oltre a riassumere il bene e il male di Tennessee Williams, ci fornisce la chiave per spiegare un destino beffardo; perché questo scrittore, che si è sempre considerato un poeta e un drammaturgo e che ha odiato quasi tutti i film tratti dalle sue opere, sia invece entrato nell’immaginario universale attraverso il cinema. Bastano alcuni titoli (Un tram che si chiama Desiderio, La gatta sul tetto che scotta, Baby Doll, Improvvisamente l’estate scorsa, La dolce ala della giovinezza, La notte dell’iguana, La rosa tatuata) e i nomi di alcuni attori che hanno recitato a partire dai suoi testi: da Liz Taylor a Marlon Brando, da Paul Newman ad Anna Magnani, e Katharine Hepburn e Geraldine Page e Ava Gardner e Deborah Kerr e Vivien Leigh, poi Charles Bronson, Robert Redford, Richard Burton, John Malkovich, Montgomery Clift, Burt Lancaster, Warren Beatty e si potrebbe continuare. La reciproca fatale attrazione tra lui e il cinema non è soltanto un frutto del sistema hollywoodiano: mentre i suoi drammi odorano spesso di intellettualismo, il cinema è abbastanza onirico per incarnare le sue ossessioni e dal cinema Williams si lascia divorare, superficialmente deplorandolo ma desiderando in profondità che le sue opere ne vengano stuprate e fagocitate.
Odia i registi anche quando si chiamano Kazan o Mankiewicz o Pollack o Lumet (tranne Losey, di cui dichiara di apprezzare La scogliera dei desideri) perché li accusa di banalizzare le sue trame, ma adora i corpi degli attori. Quel che Pasolini ha tematizzato, per Williams è rimasto un non-detto, una molla inconscia che ha vivificato e orientato il suo lavoro; nei corpi degli attori (e delle attrici) proietta se stesso come ostia sacrificale, o viceversa li vede come tigri selvagge da cui farsi mangiare.
Williams non è consigliabile ai gay militanti: omofobo come spesso gli omosessuali ritrosi, con punte di razzismo nei confronti dei macho neri o messicani o siciliani, idealizza l’amore etero “sano” e carica ogni trasgressione di insopportabili sensi di colpa (la bocca divoratrice è anche la bocca dell’inferno). A parte le censure che Hollywood impone ai suoi testi, ci pensa già lui a far morire gli omosessuali prima che il testo cominci (così il marito di Blanche nel Tram, così Skipper nella Gatta, così Sebastian in Improvvisamente).
La scena primaria è quella della donna ai confini della follia che perde la testa per lo stallone violento.
Mentre nei racconti brevi sa anche essere delicato, con reticenze cechoviane, nei drammi ci va giù pesante e i suoi simboli sono spesso grossolani: la fragilità di una ragazza timida e chiusa è adombrata nella sua collezione di animali di vetro, la cruda sensualità di Stanley nel
Tram viene rappresentata dal fagotto di bistecche sanguinolente che getta in braccio alla moglie (senza parlare del nome stesso del tram e della strada dove il dramma si svolge, nientemeno che via dei Campi Elisi). La volgarità di Williams è perfino troppo facile da dimostrare: trame perennemente febbrili, dialoghi sopra le righe, sociologia approssimativa, catarsi grandguignolesche. Con un sospetto di autoparodia, come in quei versi in cui parla di «spiedini di cuore come
piatto del giorno». Il suo modo di superare il naturalismo teatrale è spesso meccanico, l’aspirazione alla tragedia greca è velleitaria. Le sue cose migliori, a teatro, sono quelle in cui il realismo serve da freno e il dettaglio vero è un accettabile trampolino verso gli archetipi.
La sua immagine pubblica, di nevrastenico alcolizzato e di ricco viziato, non gli giovò; nei non rari soggiorni europei, tra Cocteau e Visconti faceva la figura dell’americano che parla troppo e con troppo oro addosso. Al momento della sua morte, dovuta ufficialmente a soffocamento per aver inghiottito la capsula di una boccetta di psicofarmaco (più probabilmente perché il mix di droga e alcol aveva rallentato i riflessi vitali), l’ombra era scesa sulla sua fama. Ora, a trent’anni esatti di distanza, sembra sia in atto una rivalutazione; molti teatranti lo rimettono in scena, il suo Tram è entrato dal 2011 nel repertorio della Comédie Française, Scarlett Johansson ha recitato nella Gatta a Broadway, dal 20 al 24 marzo a New Orleans si svolge il Tennessee Williams Literary Festival. È venuto il suo momento di entrare nella ristretta cerchia dei classici.
Come si fa per i classici, è giusto guardare a quel che resta al di là delle mode e dei manierismi. Qualche simbolo resiste, è più forte di tutto assurgendo al rango di mito personale: per esempio la rosa. La rosa tatuata sul petto del marito di Serafina, ma anche il corpo di Cristo come rosa, e il corpo straziato e cannibalizzato di Sebastian visto come «un gran mazzo di rose avvolto in una carta bianca». O, sul piano della nuda biografia, il tumore che uccise a ventisei anni il suo primo amore (raccontato come una “rosa segreta” nelle
Memorie di un vecchio coccodrillo) fino all’amatissima sorella maggiore, finita pazza e lobotomizzata, che si chiamava Rose. Opera dispersiva quella di Williams, spesso pletorica ed esibizionista; ma anche una rete dove tutto si tiene, un’opera-gorgo stretta intorno al nucleo centrale e astorico del desiderio “divorante”, che non teme di sfidare l’eccesso e il ridicolo.
Il nonno materno era un pastore anglicano: l’abitudine alla sincerità e alla repressione deriva per i rami. Sincerità nei testi meno esposti, come nel racconto intitolato I misteri del Joy Rio e dedicato ai vecchi froci che battono al cinema; repressione (non meno autentica) nelle opere pensate per il successo, dove la verità va a nascondersi nei corpi altrui. Nei toraci trionfanti di Brando e di Newman, nei grandi seni materni della Gardner e della Magnani, nei sorrisi forzati delle dive fané, alter ego di Tennessee diva per sempre.