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 2013  febbraio 23 Sabato calendario

MANON THE MOON

[Quando Galileo usò il telescopio come un iPhone] –
Galileo e Shakespeare nacquero nello stesso anno, il 1564 (ci stiamo avvicinando quindi al quattrocentocinquantesimo compleanno di entrambi), ma Shakespeare non scrisse mai una commedia sul suo coevo scienziato. (Saggiamente il Bardo di Stratford-on-Avon evitò sempre di scrivere commedie su persone ancora vive per protestare.) Il fondatore della scienza moderna ha dovuto aspettare tre secoli per avere un’opera teatrale in suo onore, ma quando finalmente è arrivata non è stata cosa da poco: il Galileo di Bertolt Brecht, la pièce più shakespeariana dell’era moderna, la più vivida e profondamente ambivalente. Il grande commediografo tedesco la produsse insieme a Charles Laughton nel 1947, durante l’esilio hollywoodiano, e il ritratto di Galileo come un uomo sensuale pieno di ironia e amante dei piaceri della vita è difficilmente superabile e difficilmente dimenticabile. Il Galileo di Brecht ruba l’idea del telescopio agli olandesi, blandisce i Medici per convincerli a concedergli una sinecura, crea due scienze nuove basandosi solo sulla sua intelligenza e il suo buonsenso; e poi, minacciato di tortura dalla Chiesa perché coltivava opinioni sbagliate sul posto dell’uomo nell’universo, tracolla, abiura e prosegue la sua vita in un crepuscolo di vergogna.
Si potrebbe dire che Brecht, che prima si prostrò di fronte alla Commissione di inchiesta sulle attività antiamericane — «Le mie attività […] sono sempre state esclusivamente attività letterarie di natura rigorosamente indipendente» — e poi trascorse il segmento successivo della sua esistenza post-Hollywood come accessorio del governo stalinista della Ddr, era l’ultima persona al mondo che potesse puntare il dito su qualcuno per aver svenduto l’onestà in nome del quieto vivere. Ma l’ultima persona che dovrebbe puntare il dito è sempre quella che lo punta. [...] In vista dell’anniversario della sua nascita sono usciti diversi libri, fra cui una bella e corposa biografia — Galileo (Oxford University Press) — di John Heilbron, professore di storia della scienza a Berkeley, e nuovi studi frutto di ricerche inedite negli archivi della Santa Inquisizione. Gli studiosi moderni sono attratti come da una calamita dai burocrati antichi — basta tenere traccia di tutto, anche della vostra crudeltà, e la storia vi adorerà — e le nuove ricerche offrono un quadro leggermente (ma sensibilmente) diverso dei nemici di Galileo. La nuova teoria (gradita alla Chiesa, come immaginabile) è che Galileo si mise nei guai da solo comportandosi in modo inopportuno, e che nel contesto dell’epoca sarebbe stato difficile per la Chiesa agire diversamente da come agì. La Chiesa, al pari degli odierni propugnatori della tesi del «disegno intelligente », voleva essere libera di «insegnare la controversia», cioè presentare la visione copernicana e quella aristotelica come due teorie contrapposte, entrambe plausibili ed entrambe indimostrate. Galileo non doveva far altro che dare una possibilità alla Chiesa e dire che la cosa, volendo, si poteva vedere anche in quel-l’altro modo. Non lo fece. Sembra la classica lamentela del torturatore: perché ci costringi a farti questo? Ma la risposta è la storia della sua vita. ...] Nel 1609 Galileo sentì parlare di un congegno olandese che permetteva di vedere da vicino navi ed edifici distanti. Dopo che un amico gli ebbe spedito le dimensioni e lo schema di base — due lenti in un tubo di 120 centimetri — si mise al lavoro e nel giro di qualche settimana realizzò il suo telescopio. Una sera di dicembre lo indirizzò verso la Luna e vide quello che nessun uomo aveva mai visto prima. O meglio, dato che quei congegni olandesi ormai erano in parecchi a possederli, e tutti i possessori erano provvisti di occhi, comprese quello che stava vedendo come nessun uomo della sua epoca aveva compreso prima, e cioè che le ombre di alcune delle chiazze della Luna erano crateri, e altre montagne. La Luna non era una sfera dura e pura: era geologica.
Poche settimane dopo puntò il suo congegno su Giove. Alcuni dei suoi appunti, vergati sul retro di una busta, esistono ancora e sono qui a New York, alla Morgan Library. Galileo rimase sorpreso vedendo quattro piccoli astri nei pressi del pianeta. In un episodio della storia del pensiero umano che ancora fa venire i brividi per l’emozione, notò che questi corpi celesti, notte dopo notte, danzavano avanti e indietro nelle vicinanze del grande pianeta: prima a sinistra, poi a destra, senza mai togliersi di torno, come se il pianeta fosse appiccicoso e volessero restargli vicino. Un lampo di intuizione gli fece capire tutto: le nuove stelle vicino a Giove in realtà erano delle lune che gli orbitavano intorno, come la nostra Luna orbita intorno a noi. E la loro luce poteva essere luce riflessa, come quella della nostra Luna. La luce lunare forse non era nient’altro che luce solare, che rimbalzava in una sala di specchi celesti. E — cosa ancora più importante — lì nel cielo c’era un sistema copernicano in miniatura, visibile all’occhio con l’ausilio del telescopio.
L’importanza del telescopio per l’immagine di Galileo è indiscutibile. Fu il suo emblema e la sua icona, il primo grande progresso, l’antenato della lampadina di Edison e dell’iPhone di Steve Jobs. Toscano opportunista fino al midollo, Galileo si affrettò a spedire lettere al duca di Firenze, lasciando intendere che in cambio di un lavoro avrebbe battezzato le nuove stelle in onore dei Medici. Voleva tornare a Firenze anche allo scopo, sembra, di persuadere gli intelligenti e colti gesuiti, numerosi nella città toscana, ad accettare la sua visione del mondo. Se riuscirò a convincere i potenti gesuiti della fondatezza della Nuova Scienza, pensava, non dovrò preoccuparmi dell’Inquisizione o del papa. Galileo avvertiva già la pressione delle autorità religiose, al punto di usare regolarmente un codice quando parlava delle sue scoperte nelle lettere a Keplero. [...] Due nuovi libri dello storico Thomas Mayer raccontano accuratamente che cosa successe a Galileo: The Trial of Galileo (Toronto University Press) parla specificamente della persecuzione dello scienziato pisano da parte dell’Inquisizione, mentre l’altro, molto più lungo e intitolato The Roman Inquisition: A Papal Bureaucracy and Its Laws in the Age of Galileo (University of Pennsylvania Press), scava nel contesto sociale e intellettuale dell’Inquisizione. Mayer critica la visione convenzionale, definita, citando un altro studioso, «ammantata di miti e malintesi ». Ma a leggere tutti i documenti raccolti da Mayer il mito non appare così lontano dalla realtà: Galileo scrisse un libro sul mondo in cui diceva che la Terra gira intorno al Sole e la Chiesa minacciò di farlo torturare o uccidere se non avesse smesso di dirlo; e lui smise di dirlo. Mayer è convinto che se Galileo fosse stato meno battagliero le cose sarebbero andate meglio per la scienza, ma sembra uno di quegli esercizi tanto amati dagli storici contemporanei, formulabile più o meno in questi termini: «Se si contestualizza la faccenda, minacciare qualcuno di torture orrende per convincerlo a non esporre pubblicamente le sue idee era semplicemente una delle prassi in uso all’epoca».
Certo, il processo di Galileo fu un pasticcio burocratico, dove le responsabilità si intersecavano, e lasciò proficuamente irrisolta la questione se fossero state dichiarate eretiche le teorie copernicane oppure se fosse semplicemente stato condannato Galileo come individuo, per aver seguitato a propugnarle nonostante avesse promesso di non farlo. Ma quello che è certo è che nel 1633 Galileo fu minacciato di tortura, costretto a inginocchiarsi per abiurare le sue convinzioni e il suo libro e poi tenuto agli arresti domiciliari e sotto stretta sorveglianza per il resto della sua vita. (Non così stretta, a dire il vero: John Milton venne a fargli visita e l’immagine dello scienziato imprigionato compare nella sua perorazione in favore della libertà di espressione, l’Aeropagitica.) Le parole di Galileo, a leggerle in un certo modo, non erano sprovviste di ironia: «Io non tengo né ho tenuta questa opinione del Copernico, dopo che mi fu intimato con precetto che io dovessi lasciarla ». Si noti che non dice di non averla mai tenuta, o che non continuerebbe a tenerla se non fosse costretto a lasciarla.
Avrebbe potuto fare diversamente, come forse avrebbe voluto Brecht, agire in modo più eroico? Il Galileo di Milton era un uomo libero imprigionato dall’intolleranza. Viene da chiedersi come sarebbe stato il Galileo di Shakespeare, se Shakespeare lo avesse scritto. Ma in un certo senso lo ha scritto, sotto le sembianze di Falstaff, l’uomo di arguzia e di appetito delle Comari di Windsor, che vede con chiarezza il gioco dell’onore e della fedeltà. Il mito di Galileo non è diverso da quello del grasso cavaliere, la storia di un’etica medievale di coraggio e onore soppiantata dall’etica moderna di astuzia, intelligenza e coscienza di sé. Il martirio è la prova della fede, ma la prova della verità è la verità. Una volta pubblicato il libro, che importanza avevano le palesi bugie che Galileo era costretto a dire per aver salva la vita? La ragione migliore per credere nei miracoli è il miracolo che ci sia qualcuno pronto a morire per essi. Ma la migliore ragione per credere nelle lune di Giove è che nessuno debba essere pronto a morire perché esse siano reali.
E allora lo scienziato può alzare le spalle davanti al torturatore e dire: «Qualunque cosa vuoi che dica, la dirò. Sei tu che hai le tenaglie. Ma le stelle restano comunque là». Forse non è per caso che tanti grandi scienziati di fatto hanno seguito l’esempio di Galileo, schivando le conseguenze di quello che avevano scoperto. Nella rosa dei geni, l’evasione dalle responsabilità terrene sembra praticamente un tema fisso: Newton sfuggì al mondo attraverso la pazzia, Darwin attraverso cortesie elaborate ed evasive, e appaltando a Huxley la politica; l’incertezza di Heisenberg era politica — fece ricerche sulla fissione nucleare per Hitler — oltre che meccanico-quantistica. La scienza esige menti eroiche, ma non morali eroiche. È una delle cose che la fanno muovere.