Eugenio Occorsio, Affari&Finanza, la Repubblica 25/2/2013, 25 febbraio 2013
L’ULTIMO ASSALTO AI PARADISI FISCALI L’OCSE TENTA LA MANOVRA A TENAGLIA
[Supera i 20 trilioni il tesoro custodito nei forzieri dei Caraibi o del Lussemburgo: il “club” di Parigi vuole che sia le finanziarie locali che le società internazionali rendano trasparenti i conti] –
Ugland House è un palazzetto in stile coloniale circondato di palme nel centro di George Town, capitale delle Cayman Islands. Barack Obama l’ha definito durante la sua ultima campagna elettorale «o il più grande edificio del mondo o il più grande scandalo finanziario del pianeta». Di certo non è il più grande palazzo del mondo perché non ha più di quattro piani: in compenso, è sede di 18.857 società offshore. Nessuna ha attività produttive nelle Cayman e di pochissime si conoscono i veri soci. Il mese scorso, come simbolo di bravery proprio a Ugland House si è tenuta l’assemblea dell’Ifc Forum, un’agguerrita associazione di avvocati che difende l’immagine e la sostanza delle Cayman. Ifc sta per International Finance Center. «Vogliono aggredirci mentre noi siamo il tessuto connettivo che regge l’economia del pianeta», ha tuonato Grant Stein dello studio Walkers. I presenti hanno applaudito vigorosamente. Il “tessuto” è oggi fatto di 2 milioni di società fra le Cayman e una cinquantina di altri paradisi fiscali. Il tesoro che gelosamente custodiscono cresce inesorabile: è arrivato secondo il Tax Justice Network a 21mila miliardi di dollari. Un terzo, calcola McKinsey, sono soldi illegali. La guerra per smantellare i paradisi fiscali, «la spina nel fianco dell’intero sistema finanziario globale» come dice l’economista Rainer Masera, sembra appena cominciata malgrado
siano passati 38 anni dalla sua dichiarazione nel 1975, quando l’Economist Intelligence Unit pubblicò il rapporto Tax Havens and Their Uses. A l totale di 21 trilioniil “Network” (un’associazione indipendente di professionisti e accademici creata sotto l’egida del Parlamento britannico nel 2003) è giunto partendo dagli 11,8 trilioni di dollari già calcolati dal Boston Consulting Group come ammontare dei conti individuali detenuti nei paradisi. Questi da soli equivalgono a 250 miliardi annui di mancate tasse nei Paesi d’origine (assumendo il 3% di capital gain e il 30% di tassazione media), cioè cinque volte quanto la Banca Mondiale ha calcolato che servirebbe per porre fine alla povertà mondiale entro il 2015. I fondi ascrivibili ai plutocrati africani che scelgono paradisi vicini come la new entryMauritius, che arrivano a quanto si legge nel sito del Network a 850 miliardi, hanno superato l’anno scorso il totale delle donazioni per lo sviluppo del continente. Aggiungendo alle disponibilità liquide l’insieme di attività come yacht, ville, tenute, si arriva al totale dei 21 trilioni, e qui le tasse evase sfuggono a qualsiasi calcolo. E’ un mare di denaro in continuo allargamento: con riferimento ai soli flussi finanziari provenienti da attività illecite - corruzione, evasione fiscale, rapine, pirateria, mafie, spaccio et similia la World Bank calcola che si parli di 1-1,6 trilioni l’anno. Per sferrare l’attacco decisivo contro tutto questo disastro, la principale testa d’ariete è l’Ocse. Il “club” dei 34 principali Paesi industrializzati è stato investito di questa missione già da qualche anno, ma è stato solo nel summit del G-20 di Los Cabos in Messico a metà giugno del 2012, che ha avuto il compito di promuovere il salto di qualità estendendo e rafforzando la manovra di isolamento dei paradisi fiscali. Il tutto per far sì che le tasse vengano pagate nel Paese in cui si produce il profitto, e parallelamente indurre la collaborazione di questi Paesi e/o colonie perché finalmente facciano uno sforzo di trasparenza. «Abbiamo allora preparato un nuovo documento in cui chiediamo una più forte cooperazione internazionale soprattutto sul fronte delle tasse delle imprese», spiega Pier Carlo Padoan, che dell’Ocse è vice segretario generale nonché capo economista. «Abbiamo riscontrato che diverse multinazionali riescono con la loro rete ad attribuire i profitti non al luogo in cui sono prodotti ma a qualche altra filiazione dove le tasse sono più favorevoli, e questo luogo è sempre più spesso un paradiso fiscale. Così pagano in media il 5% di tasse mentre i loro concorrenti più piccoli e meno fortunati pagano il 30 quando non molto di più perché sono forzati su una base locale. Il problema sta estendendosi perché sempre più aziende diventano multinazionali e quindi colgono le tante occasioni ancora disponibili sullo scacchiere mondiale». Il rapporto è stato presentato alla riunione dei ministri finanziari del G-20 il 14 e 15 febbraio a Mosca, che hanno chiesto all’Ocse un ulteriore e decisivo impegno: rendere operative le misure necessarie. «Siamo perfettamente in grado di farlo, è il nostro mestiere », assicura Padoan. «Ora stiamo distillando le norme precise, nazionali e sovranazionali, che dovranno indurre i comportamenti adeguati ed essere coerenti fra di loro». Un primo risultato c’è già stato il 19 febbraio, quando il Parlamento europeo ha chiesto che le banche europee rendano noto, in occasione dei passi verso l’unione bancaria, il breakdown dei loro risultati, cioè l’attribuzione puntuale Paese per Paese dei profitti. Evidentemente ben altro servirà. «Molti strumenti normativi anche interni ai Paesi industrializzati devono ancora essere modificati, però mi sento di dire che il trend a questo punto è favorevole», commenta comunque Marco Magenta, tax partnerdella Ernst & Young. «L’Italia, per parlare del nostro Paese, sta facendo molto, e non da ieri. Risale al 1991 la prima legge che rende molto più costoso e complesso avere rapporti con le società dei paradisi fiscali, identificati con una blacklist continuamente aggiornata. Per esempio, si limita la deducibilità fiscale dei costi ai casi in cui la società offshoresvolge una vera attività commerciale o le operazioni hanno un effettivo interesse economico». E’ una legge, avverte peraltro Magenta, «da maneggiare con cura, perché nel dedalo delle triangolazioni mondiali può succedere che un fornitore estero transiti attraverso un “paradiso” e si incassi lui tutto il vantaggio. All’importatore italiano resta solo l’onere di fronteggiare l’accertamento fiscale e di spiegare che di “sconti” in realtà non ne ha avuti anche se ha trattato con una società di un posto esentasse». L’inversione dell’onere della prova, con l’obbligo di dimostrare che lo scopo di certe operazioni non era l’elusione o peggio l’evasione fiscale, rischia anche di «instradare la legislazione italiana su piano di rigidità che può allontanare gli investitori esteri», nota Gianluca Santilli, avvocato societarista internazionale, managing partnerdello studio LS LexJus Sinacta. «Intendiamoci, il problema esiste ed è gravissimo. Ma per cominciare, si dovrebbe una buona volta omogeneizzare le legislazioni fiscali almeno all’interno dell’Unione europea. Invece si va nella direzione opposta: dumping e concorrenza fiscale per attrarre investimenti e capitali. Dopo il Lussemburgo, Cipro tanto apprezzata dai russi, il Liechtenstein, ormai anche la Gran Bretagna sta abbassando talmente le tasse da essere diventata quasi un paradiso fiscale, per di più con la porta aperta ai veri paradisi del Commonwealth caraibico». Una via che si sta faticosamente percorrendo è quella degli accordi bilaterali. La stessa Ocse ha lanciato fin dal 2000, ma la sta attivamente spingendo solo da pochi anni, l’iniziativa Global forum on Trasparency per promuovere lo scambio di informazioni fiscali e bancarie fra Paesi. Ultimamente si è sviluppato un cospicuo numero di trattati bilaterali, sottoscritti sotto l’egida dell’Ocse, che si riserva di verificare se i contraenti rispondono agli standard e sono intenzionati davvero ad aprire le porte dei rispettivi santuari finanziari. L’Italia ha firmato gli ultimi trattati con Hong Kong il 24 gennaio 2013 e con le Cayman il 3 dicembre 2012, ma ancora non sono operativi. L’efficacia insomma è da verificare. Un punto debole, ricorda Nicholas Shaxson, l’economista inglese autore di Treasure Islands, «è che è previsto che un Paese, quando il sistema andrà a regime, potrà sì chiedere alle autorità del “paradiso” informazioni su un certo conto, ma solo quando avrà saputo esattamente su chi e su quale conto occorre indagare. Una specie di Comma 22 che rischia di essere inestricabile». Senza contare che, aggiunge Shaxson, «è sufficiente che un Paese firmi 12 trattati per uscire dalla black-list dell’Ocse, e allora i “paradisi” si sono affrettati a firmare una fitta serie di trattati fra di loro che non valgono assolutamente nulla». In questo diabolico gioco di guardie e ladri, insomma, le prime sembrano inesorabilmente in svantaggio. «Parliamoci chiaro, il problema si sta estendendo anziché ridursi», taglia corto Paolo Guerrieri, docente di economia internazionale alla Sapienza. «L’obiettivo dell’Ocse e degli altri “combattenti” contro questa piaga sarebbe di stringere sempre più la morsa, fra controlli e minacce di isolamento internazionale, sperando che alla fine i paradisi allentino la loro “riservatezza”. Insomma, i rischi per chi va ad investirvi diventano troppo forti rispetto ai benefici. Ma in molti casi si va nella direzione opposta. Prendiamo la Svizzera, un paradiso un po’ demodè ma comunque ancora granitico: il rifiuto opposto proprio l’altro giorno all’accordo fiscale con l’Italia (quello su cui contava Berlusconi per restituire l’Imu, ndr) dimostra quando lontani si sia da un idem sentire internazionale». La Svizzera sarà anche demodè, e infatti è uno dei pochissimi in cui l’ammontare dei depositi è in ribasso ( vedere grafici), ma il problema è che sempre nuovi stati e staterelli imbracciano la via della convenienza fiscale come risorsa da integrare col turismo. Le ultime arrivate nel “club” sono le isole Vanuatu (le ex Nuove Ebridi) e sul loro esempio stanno andando anche gli altri atolli del Pacifico meridionale. Ma sembra anche che, incredibili dictu, il neocostituito South Sudan sia tentato da un qualche status privilegiato pur di finanziare il suo sviluppo.