Carlo Blengino, http://www.ilpost.it/carloblengino/2013/02/23/leffetto-bandwagon/, 24 febbraio 2013
La ragione per cui da 15 giorni nulla dobbiamo sapere dei sondaggi elettorali di cui beneficiano invece banche, politici e grandi gruppi imprenditoriali e finanziari (così che possano speculare e organizzarsi) starebbe nel rischio del cosìdetto “bandwagon effect”: l’effetto carrozzone
La ragione per cui da 15 giorni nulla dobbiamo sapere dei sondaggi elettorali di cui beneficiano invece banche, politici e grandi gruppi imprenditoriali e finanziari (così che possano speculare e organizzarsi) starebbe nel rischio del cosìdetto “bandwagon effect”: l’effetto carrozzone. Il debole gregge degli elettori potrebbe esser indotto a votare per il vincente se sa in anticipo chi sarà tale, indipendentemente dalle proprie convinzioni, falsando i risultati della competizione. L’ origine dell’espressione “effetto bandwagon”, letteralmente “carro della banda” racconta una storia per certi versi a noi familiare. Siamo in America, nella metà dell’ottocento, ed il protagonista si chiama Dan Rice, al secolo Daniel McLaren, “l’uomo più famoso di cui non avete mai sentito parlare”: questo il titolo della sua biografia scritta nel 2000 da David Carlyon. E’ quel signore che compare nel mitico manifesto I want You dello Zio Sam. Dan Rice nei panni di Zio Sam Fu un personaggio geniale, un grande comico e uomo di spettacolo che dopo esser divenuto famoso in tutto lo Stato con i suoi spettacoli circensi (iniziò come clown), scese (o salì) in politica, e si candidò al Senato, al Congresso e financo alla Presidenza degli Stati Uniti. Fece in tutte le occasioni un’efficace ed innovativa campagna elettorale girando per il paese con il suo carro circense, il bandwagon appunto, ed ottenne nelle piazze un tale successo che i vari candidati del suo partito, i repubblicani, chiesero di poter salire anche loro sul suo carrozzone. L’espressione “salir sul carro vincente” nasce la lì. Dan Rice perse sempre, in tutte le campagne che con successo fece. Oggi i sondaggi per il più attuale comico dicon altro, ma non si posson diffondere. In realtà l’effetto bandwagon non è affatto provato. La divulgazione dei sondaggi, come di qualsiasi informazione, ovviamente può modificare i risultati di una competizione elettorale, ma non è detto che le pecorelle elettrici reagiscano uniformemente alle rilevazioni ed alle proiezioni statistiche. Se l’effetto carrozzone parrebbe agevolare la parte data vincente, l’effetto “underdog” (letteralmente: perdente) può mobilitare gli indecisi verso il presunto sconfitto, così come l’effetto “ghigliottina” può spostare il voto sulla seconda scelta, là dove sia noto che il piccolo partito che aggrada non raggiungerà la soglia di eleggibilità. Ed ancora l’effetto bandwagon può esser neutralizzato nei risultati dall’effetto “lethargy”: non c’è bisogno del mio voto tanto vince (o tanto perde). La verità è che l’inusitato periodo di blackout dai sondaggi elettorali previsto in Italia, 15 giorni, che ci accomuna a pochissimi paesi nel mondo – Angola, Mozambico, Paraguay, Honduras,in parte il Marocco ed in Europa la Bielorussia– è una delle intollerabili scemenze della legge sulla par-condicio che con la scusa di protegger il popolo bue avvantaggia chi i sondaggi può commissionarli. Poiché non è vietato farli, ma solo divulgarli. Per capire come siam finiti lì e da dove nasce le nostra inusuale legge sulla par condicio bisogna tornare all’anno 2000: un tempo in cui l’informazione viaggiava solo sugli stretti binari delle frequenze radiotelevisive e sulla tradizionale carta stampata. Roba da secolo scorso, appunto. In quell’anno, non avendo la sinistra affrontato il problema del conflitto di interessi che nel settore televisivo e dei media determinava una situazione patologica e paradossale, il Governo D’Alema si trova a dover fronteggiare in vista delle elezioni la potenza di fuoco mediatico dell’avversario, temibile teleimbonitore di cui a distanza di 13 anni ancora tocchiamo con mano le capacità affabulatorie e la forza mediatica. Il parlamento partorisce così una legge assurda che non si limita, come in tutte le democrazie evolute, a prescrivere misure per garantire la parità di accesso delle diverse forze politiche ai media tradizionali, ma si avventura nell’arduo compito di “governare” l’informazione, per impedire che la politica possa esser oggetto di libera comunicazione. Questo sul presupposto, in parte corretto, che l’informazione, almeno quella televisiva, in Italia libera non fosse. Invece di curar le cause (il macroscopico conflitto di interessi), si tentò di governarne un effetto. Ovviamente la cosa non ha mai funzionato ma, con l’avvento del web, quella legge ci ha regalato in questa campagna elettorale uno scenario surreale con il principale protagonista che, girando per le piazze con il suo bandwagon e rifiutando ogni contatto proprio con i media regolamentati è riuscito a monopolizzare l’informazione, relegando i concorrenti all’indegno teatrino delle interviste cronometrate. A contorno l’AGCOM che alle 10 di sera twitta improbabili quanto inutili ordini di riequilibrio. Per fortuna adesso è finita, speriamo per sempre.