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 2013  febbraio 24 Domenica calendario

DA SUPERCATTIVI A EROI. GLI AGENTI DELLA CIA SI RISCATTANO DEI FILM —

Da «Argo» di Ben Afflek a «Zero Dark Thirty» con l’eliminazione di Bin Laden e le scene che ritraggono, e in parte giustificano, alcune forme di tortura: nella notte degli Oscar, Hollywood celebra anche il suo cambio di rotta sulla Cia. Che, ritratta nei film di alcuni anni fa come una macchina oscura, talvolta manovrata da poteri «deviati», ora diventa un’organizzazione patriottica zeppa di eroi che si sacrificano in silenzio, come nella pellicola di Kathryn Bigelow. Opere nelle quali anche chi fa scelte discutibili è dilaniato dai dubbi etici ed è animato solo dalla volontà di garantire la sicurezza del suo Paese.
Come si è arrivati ad una svolta così netta? C’è chi tira in ballo la raffinata strategia di comunicazione adottata negli ultimi anni dalla Central Intelligence Agency che, dopo essere stata dipinta come un covo di killer amorali da film come «I tre giorni del condor», ha reagito e nel 1996 ha addirittura istituito l’Entertainment Liaison Office: un ufficio per i rapporti col mondo dello spettacolo affidato a Chase Brandon, un agente con 25 anni di esperienza nelle attività clandestine della Cia, cugino di Tommy Lee Jones. Una presenza divenuta da allora abituale sui set dei film di spionaggio: Brandon ha collaborato alle riprese di molte pellicole, da quelle basate sui romanzi di Tom Clancy come «La grande fuga dell’Ottobre Rosso» alla serie televisiva «Alias». E nel 2002 aprì le porte del quartier generale Cia di Langley a Ben Affleck, star che proprio allora stava girando «La somma di tutte le paure», una spy story che diventerà campione d’incassi.
Secondo altri Hollywood, come del resto tutta la sinistra liberal, rimane sotto il fascino di Obama la cui decisione di usare i droni — gli aerei senza pilota della Cia — per scatenare attacchi micidiali ed eliminare presunti terroristi, raramente viene contestata in modo deciso. Come sarebbe invece avvenuto se al suo posto ci fosse stato ancora George Bush.
C’è del vero in tutte e due le tesi, ma sul cambio di atteggiamento dei progressisti — cineasti e non — ha inciso soprattutto un evento spartiacque come l’attacco di Al Qaeda dell’11 settembre 2001. Anche prima di quella data la Cia aveva corteggiato assiduamente i progressisti. I primi interventi sul mondo del cinema — ha ricostruito Tricia Jenkins, una professoressa della Texas University, nel suo saggio «The Cia in Hollywood» — risalgono addirittura agli anni 50 quando la Cia costituì un think tank per combattere l’ideologia comunista sul grande schermo, arrivando a negoziare l’acquisto dei diritti cinematografici della Fattoria degli Animali di George Orwell.
Ma questo non aveva mai impedito ai progressisti di guardare con molta diffidenza al lavoro dell’Agenzia di spionaggio e, in modo particolare, alle sue attività clandestine.
Tutto è cambiato dopo l’attacco alle Torri gemelle. E lo sdoganamento della Cia da parte dei liberal è andato molto al di là del cinema. Il nome simbolo di questo processo è In-Q-Tel: la società di venture capital dell’agenzia di spionaggio che una decina d’anni fa ha cominciato a investire nelle start up dell’economia digitale alla ricerca di innovazioni tecnologiche utili per la sua attività. Anziché tirarsi indietro davanti a queste offerte di partnership, molte aziende della Silicon Valley, quasi sempre guidate da imprenditori libertari e liberal, hanno considerato patriottico aprire le loro porte alla Cia.
Qualcosa di simile è avvenuto anche nel mondo dello spettacolo: il tema centrale è diventato la difesa dell’America Paese ferito, tanto più che quella da combattere non era più la minaccia — ideologica oltre che militare — di un comunismo che aveva affascinato molti nel mondo del cinema, ma l’oscurantismo di terroristi alfieri dei movimenti islamici più violenti e integralisti. Anche nello scorso decennio, comunque, Hollywood non ha rinunciato ad analisi dure e crude come Syriana, il film di George Clooney uscito nel 2005, in piena era Bush.
Le cose sono cambiate con Obama per almeno due motivi, oltre alla maggior fiducia riposta dai cineasti in un leader democratico: il ripudio della tortura da parte di un presidente che non è riuscito a chiudere il «campo di concentramento» di Guantanamo, come aveva promesso, ma ha proibito il waterboarding e altre tecniche «estreme» di interrogatorio ammesse quando alla Casa Bianca c’erano Bush e Cheney. E poi un uso duro, spesso letale degli strumenti antiterrorismo della Cia, a cominciare dai suoi droni che, però, non è aggiuntivo, ma sostitutivo delle occupazioni militari e degli attacchi condotti dalle forze del Pentagono.
Per i liberal che da anni chiedono al governo di Washington di smettere di fare il gendarme del mondo, gli attacchi dei droni-killer, benché difficili da accettare e assai dubbi sotto il profilo della legalità internazionale, possono rappresentare il minore dei mali. Idee che ben presto potrebbero mostrare la corda. Ma a rendersene conto (cercando di correre ai ripari) prima ancora degli intellettuali della sinistra, sono gli stessi uomini della Casa Bianca. Che, negli appunti che accompagnano i tentativi di definire un protocollo legale per questi attacchi, mostrano di vedere rischi di proliferazione (sono ormai decine i Paesi che stanno cercando di dotarsi di droni come quelli della Cia) e si chiedono come verranno usati questi robot-killer quando alla Casa Bianca non ci sarà più il «saggio» Obama.
Massimo Gaggi