Federico Fubini, Corriere della Sera 24/02/2013, 24 febbraio 2013
IL TERMOMETRO (ELETTORALE) DEI BTP
Aprile è il mese più lungo di un altro anno che si annuncia interessante per la navigazione dell’Italia fra gli scogli dei mercati e della politica. Ad aprile il prossimo governo si metterà (presumibilmente) al lavoro, un nuovo presidente della Repubblica si accomoderà in un Palazzo sul colle che fu dei Papi e un nuovo Papa fara’ altrettanto sull’altra sponda del fiume. Nel frattempo, la Repubblica italiana dovrà rimborsare titoli per quasi 30 miliardi di euro in soli trenta giorni: circa 17 miliardi in Btp e il resto in Ctz, titoli senza cedola.
Aprile è il mese più pesante per le scadenze sul debito pubblico italiano, in un anno peraltro non difficile tecnicamente come quello appena trascorso. L’anno scorso le scadenze, esclusi i Bot della durata di non oltre un anno, valevano circa 200 miliardi. Quest’anno ne arriveranno per oltre 40 miliardi in meno, rendendo così meno oneroso il calendario delle emissioni di bond. A fine anno probabilmente il Tesoro dovrà affrontare i mercati per circa 50 o 60 miliardi in meno rispetto a quanto fece nel 2012.
Ma la sovrapposizione dei tempi non poteva essere più beffarda: la fase di maggiore impegno finanziario per il governo coinciderà con quella più sperimentale per un nuovo Parlamento che appena allora inizia a riunirsi. Servisse una conferma di quanto delicato sia per i mercati il passaggio delle elezioni di oggi e domani, il calendario si è incaricato di fornirla.
Ma qualunque sia il responso dalle urne di domani, anche negli scenari più ingarbugliati, è improbabile che il mercato torni subito a reagire come nel novembre 2011 o nel luglio 2012. Allora gli spread sui titoli decennali tedeschi salirono ben sopra i 500 punti, persino i Btp a cinque anni arrivarono a rendere il 6,5% e oltre. Oggi la natura delle reazioni di mercato è stata trasformata dalla Banca centrale europea. Il nuovo programma della Bce, che ora è in grado di comprare titoli di Stato illimitatamente se un Paese accetta certe condizioni, ha cambiato le percezioni: gli investitori (in questa fase) non pensano più che ci sia un rischio di rottura dell’euro, dunque non fanno pagare all’Italia, alla Spagna o alla Grecia l’ipotesi che i loro rimborsi un giorno avvengano in una moneta nazionale svalutata.
L’Eurotower ha reso i movimenti dei titoli di Stato fondamentalmente diversi da prima. Paul De Grauwe e Yuemei Ji, della London School of Economics e dell’Università di Lovanio, mostrano come il crollo degli spread negli ultimi sei mesi non sia stato proporzionale alla dose di austerità perseguita dai vari Paesi. Piuttosto, Paese per Paese, risulta di dimensioni uguali e contrarie al disallineamento di prima. La Grecia, che aveva i tassi più alti, è quella che ha avuto la convergenza maggiore, e così via: è semplicemente la reazione alla fine dei timori sulla rottura imminente dell’euro.
Niente di tutto questo significa però che il mercato non farà pagare all’Italia un esito elettorale che produce ingovernabilità o un addio alle riforme. Piuttosto di un balzo enorme degli interessi da lunedì in caso di risultati che non piacciono agli investitori, tuttavia, è prevedibile una dinamica più sottile. Una morsa progressiva della sfiducia, più che una fase di panico improvviso e una corsa verso l’uscita dai titoli italiani. Quest’ultimo scenario è ipotizzabile sono se prevalessero alle elezioni forze chiaramente incompatibili con la tenuta dell’Italia nell’euro.
Ma Federico Ghizzoni, amministratore delegato di Unicredit, ha già osservato negli ultimi giorni che a suo avviso anche l’attuale livello ridotto degli spread — fra 260 e 290 punti sul Bund tedesco nei decennali — è insostenibile. Gli interessi che continua a pagare l’intero sistema sono troppo alti per la forza dell’economia e la sua capacità di crescita. Il debito totale delle istituzioni finanziarie in Italia è di circa il 110% del Pil, quello delle famiglie del 45%, quello delle imprese di circa l’80% (esclusi i derivati). Non c’è solo un debito pubblico diretto verso quota 128% del Pil. L’intera economia è gravata da debiti, che nella recessione stanno producendo incagli e sofferenze per le banche che vi sono esposte.
Per questo la posta del voto e del dopo-voto e così alta. Un aumento anche lento degli interessi per il Paese, dettato dalla sfiducia verso le politiche del prossimo governo e non dai timori per una vicina rottura dell’euro, porterebbe l’economia verso una progressiva carenza di ossigeno. Gli investitori internazionali hanno capito che queste elezioni italiane sono un evento determinante per i mercati globali nel 2013. Ma se non reagiranno con un enorme crollo lunedì pomeriggio, o se registreranno un gran balzo verso l’alto, non vorrà dire che i partiti in corsa hanno passato l’esame. Nell’Europa del dopo-svolta Bce, ogni giorno è una prova nel merito di quanto vale davvero ciascun Paese con le sue forze.
Federico Fubini