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 2013  febbraio 24 Domenica calendario

QUELLA LETTURA POLITICA CHE SFIGURA LA CHIESA

Solo dopo il volo spettacolare dell’elicottero (scena filmica, davvero, che aprirà i telegiornali del mondo intero), solo dopo quel volo che il prossimo 28 febbraio, quando sarà buio il cielo sopra Roma, porterà il già Benedetto XVI verso il nascondimento e il silenzio, sapremo quale intenzione prevarrà tra i 117 «Grandi Elettori». Sapremo, dunque, quale sarà il calendario del Conclave, se una modifica in extremis del Papa uscente permetterà di modificarlo.
Da un lato, i cardinali titolari di una diocesi (non dunque di stanza a Roma, a servizio della Curia) hanno urgenza di celebrare il Conclave per tornare alle rispettive sedi, a seguire le loro comunità nel Tempo Pasquale, il più importante e complesso del Ciclo Liturgico. Lo si dimentica spesso, complice la trasformazione del Natale in una rutilante «Festa planetaria di Papà Inverno»: la maggior ricorrenza cristiana, quella da cui tutte le altre derivano è, di gran lunga, la ricorrenza della Resurrezione del Cristo, non quella della sua Nascita. Da qui, l’opportunità della presenza in sede del vescovo, anche se rivestito della porpora cardinalizia.
Dall’altro lato, molti tra quei 117 si conoscono solo di sfuggita o, in qualche caso, non si conoscono affatto; dunque, è opportuno dar loro il tempo di saggiarsi a vicenda, di scambiarsi opinioni, confidenze, propositi. Molti, poi, vorranno cercare di sapere che stia succedendo in una Curia agitata da gaffes, errori, se non scandali. Un taglio del periodo di sede vacante potrebbe compromettere questa necessaria preparazione. Solo un corpo elettorale compatto ed affiatato può pensare di raggiungere in tempi ragionevoli quella maggioranza dei due terzi dei voti che (modificando la riforma di Giovanni Paolo II) è ritornata necessaria per l’elezione del nuovo Papa. Il gruppo cardinalizio — unico al mondo e composto da uomini del mondo intero — ha bisogno di tempo per orizzontarsi e confrontarsi sulle scelte da fare nella Cappella Sistina, accanto alla celeberrima stufa dove bruceranno le schede.
Lo confesso: avevo già scritto tutto questo articolo e stavo per inviarlo al giornale, quando è uscito il severo comunicato della Segreteria di Stato che denuncia come i Media sembrino avere preso il posto delle Potenze di un tempo nel cercare di stravolgere o, almeno, di condizionare il Conclave. E che ricorda come in quei Media non ci sia alcuna consapevolezza del carattere spirituale dell’evento, tutto essendo filtrato da una gabbia di interpretazioni del tutto profane. È una nota che, ovviamente, mi ha rallegrato, visto che conferma autorevolmente quanto cercavo di dire e che non mi costringe ad alcun ritocco per sfumare quanto già avevo scritto. Continuo qui, dunque, con ciò che era già pronto per la pubblicazione, senza un aggiornamento dell’ultima ora che non pare davvero necessario.
Dicevo, dunque, che fanno sorridere opinionisti e sedicenti esperti di tutto il mondo che in queste settimane, con l’aria di chi la sa lunga, disegnano sui loro media cordate, denunciano accordi, indicano strategie più o meno occulte tra gli elettori. L’approccio di simili articoli e comparsate televisive è saccente e ammiccante. Chi scrive o parla sembra strizzare l’occhio, per far capire che occorre farsi furbi e che sarà lui, lui a conoscenza dei retroscena occulti, a rivelare come stanno davvero le cose: tutta questione di potere e di soldi, altro che di religione! Sono, molte di quelle presunte analisi, vaniloqui risibili: secondo un vizio inestirpabile si applicano categorie improprie per interpretare una realtà del tutto diversa. È la deformazione ossessiva, si direbbe maniacale, di chi pretende di interpretare anche la realtà religiosa usando le solite categorie politiche, le noiose e logore (e, in questo caso, del tutto fuorvianti) distinzioni fa destra-sinistra, conservatori-progressisti, passatisti-modernisti, dialoganti-integristi.
Il risultato è l’incomprensione totale della vita ecclesiale, è l’idiozia deformante offerta come disamina acuta e brillante. «Ogni ente», ammonisce Tommaso d’Aquino riecheggiando Aristotele «va compreso e interpretato secondo enti della stessa natura». Che cosa può comprendere delle intenzioni profonde di uomini di fede, al vertice della Chiesa di Cristo, consapevoli che di fronte a Lui dovranno apparire per essere giudicati; che cosa può comprendere, chi vorrebbe interpretare questi anziani sacerdoti — spesso dalle biografie eroiche, da perseguitati a causa della fede — come fossero personaggi di una qualunque Montecitorio del mondo o come membri del consiglio di amministrazione di una qualunque multinazionale? Se usiamo termini forti per questi artefici della disinformazione che allignano — oggi come sempre — in tutto il media-system mondiale, è per adeguarci allo stile tagliente usato, una volta tanto, anche dal pur mite e misurato Benedetto XVI. Il quale — nell’ultimo saluto al clero della sua diocesi, Roma — ci ha dato un testo straordinario; forse anche perché non aveva avuto il tempo e le forze per scriverlo (come ha precisato a quei preti) e, dunque, ha parlato «a braccio». Il tema era comunque ben definito e chiaro: il Concilio Vaticano II, dove il giovane teologo, il professorino Joseph Ratzinger, sessione dopo sessione, si distinse come perito al punto che, anni dopo, Paolo VI lo strappò all’università e lo mise a capo della più importante comunità cattolica tedesca: Monaco di Baviera. Parlando con evidente nostalgia di quella splendida esperienza conciliare, Benedetto XVI ha rievocato il fervore, le speranze, l’impegno, la lealtà, il coraggio e insieme la doverosa prudenza della maggiore assise convocata dalla Chiesa nella sua storia. Tutti, in effetti, erano consapevoli di essere chiamati a rinnovare il volto della Chiesa di Cristo per un rilancio della evangelizzazione: non nova sed nove, non cose nuove ma offerte in modi nuovi, sembrava essere il motto di tutti. Un grande lavoro, ma anche una festa gioiosa, alla luce della fede; e di quella soltanto.
Se «invece della attesa primavera, venne un imprevisto e rigido inverno» (parole di un accasciato Paolo VI tra le rovine degli anni Settanta) gran parte della responsabilità grava sul fatto che, al Concilio della Chiesa, si affiancò e poi si sovrappose il Concilio dei Media. Così la denuncia di Benedetto XVI. Che ha ricordato come alla gente, compresa quella cattolica, non siano arrivati i documenti autentici, ma la loro interpretazione tendenziosa fatta da giornalisti, opinionisti, scrittori, nonché da faziosi specialisti ed esperti clericali. Ingiusto, in effetti, fare il solito vittimismo, come se la deformazione del Concilio sia stata opera di qualche complotto esterno: in realtà (Ratzinger stesso lo ha spesso ricordato) buona parte del guasto, anzi il più pernicioso, fu fatto da uomini di Chiesa. Al mondo intero e allo stesso Popolo di Dio non giunse lo slancio religioso dei Padri, il fervore dell’apostolato, il loro guardare al Vangelo di sempre e di oggi; bensì, giunse la cupa, angusta, settaria lettura «politica». Quelle complesse, sapienti cattedrali teologiche in miniatura che erano, e sono, i documenti autentici del Vaticano II furono costrette nella camicia di forza di un presunto scontro senza esclusione di colpi tra progressisti e conservatori, tra l’oscura reazione in agguato e il luminoso sol dell’avvenir invocato dai gauchistes allora ancora in tonaca ma, presto, in eskimo.
In questo suo paterno, caldo discorso al clero romano, papa Ratzinger non ha esitato ad usare parole di dura condanna («fu una calamità, ha creato tante miserie») per l’intrusione dei media, guidati da chi tutto pretendeva dividere tra «destra» e «sinistra», tutto voleva ridurre a una questione di lobby che si affrontavano tra loro per difendere o per conquistare il potere. Benedetto XVI ha narrato, per la prima volta in pubblico, un aneddoto altamente significativo. Egli, come neoprofessore di teologia, era al seguito di Joseph Frings, cardinale arcivescovo di Colonia, presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, uomo di grande fedeltà a Roma e al contempo uno dei leader più influenti di coloro che volevano un rinnovamento profondo della Chiesa. Un porporato «di sinistra», dunque, secondo lo schematismo degli ideologi. Si deve anche a lui, tra l’altro, la clamorosa svolta iniziale del Vaticano II, con l’accantonamento dei testi già preparati dal Sant’Uffizio e che i Padri avrebbero dovuto, più che discutere, votare per alzata di mano, possibilmente all’unanimità. Ebbene, a Concilio già in corso e già consumata la «rivoluzione» nei confronti dei progetti della Curia romana, a Frings fu chiesta una conferenza sulle prospettive della grande assise che ora si avventurava in mare aperto, senza più una rotta segnata dalla nomenklatura vaticana. Ma dove fu invitato a parlare? Nientemeno che a Genova, feudo inattaccabile del grande (quale che sia il giudizio) cardinal Giuseppe Siri, riconosciuto leader di coloro che lo stesso schematismo di cui dicevamo definisce «di destra». Il cardinale di Colonia — affetto da disturbi alla vista che lo porteranno alla cecità — incaricò il suo esperto, Ratzinger, di scrivere lo schema della conferenza che poi egli stesso avrebbe rivisto. Il presunto «progressista» Frings andò dunque nella tana del lupo del presunto «reazionario» Siri: lesse la conferenza, che il cardinale di Genova non solo non contestò ma della quale fu talmente soddisfatto da passarne il testo, con grandi elogi, all’amicissimo papa Roncalli. Il quale era il primo tra coloro che il «partito tedesco», di cui il cardinale di Colonia era un leader, aveva sfidato, costringendolo a cestinare tutto il materiale preparato dalla Curia e da lui approvato con convinzione. Dunque, quando a Frings giunse una convocazione dal Papa, pensò a un rimbrotto o almeno a un ammonimento, a un invito a un maggior rispetto della linea unanimista prevista e auspicata da Roncalli che voleva un Concilio breve, celebrato nell’entusiasmo, senza troppe discussioni. Invece, Frings trovò il Papa che gli veniva incontro con in mano il testo redatto da Ratzinger, letto da Frings e inviato a Roma da Siri. Giovanni XXIII lo abbracciò e gli disse: «Lei, cara Eminenza, ha detto le cose che io stesso avrei voluto dire, ma non riuscivo a trovare le parole adatte». Aneddoto esemplare, dicevo: in esso, in effetti, esce chiara quale fosse la fraternità, l’amore comune per la Chiesa, la preoccupazione per l’ortodossia della fede tra chi (stando alle letture dei dottrinari) avrebbe fatto parte di due fazioni inconciliabili, in lotta l’una per la reazione, l’altra per il progresso.
È una manipolazione che — si badi! — agì sia per chi in tutto il lavoro conciliare e, soprattutto, nella interpretazione che ne diede la Chiesa docente vide un fiancheggiamento all’odiato capitalismo; sia per chi in tutto sospettò un cavallo di Troia dell’altrettanto odiato comunismo per alcuni, massoneria per altri. Noi, invece, ha ricordato il testimone diretto Ratzinger, «noi ci muovevamo solo all’interno della fede, cercavamo di interpretare i segni di Dio per il nostro tempo, ciò che interessava a tutti noi era approfondire il rapporto tra ragione e credere, tra Vangelo e mondo ma nella continuità con tutto il passato della Chiesa».
Naturalmente, le stesse analisi tanto ingannevoli quanto presuntuose si ripetono ora, prima davanti alla rinuncia al pontificato e poi nell’attesa del Conclave. E ne leggeremo e sentiremo ancora molte altre nei commenti dopo l’elezione del nuovo Papa. In realtà, chi dentro la Chiesa vive — e non per stanca appartenenza sociologica ma per il dono vivo, e gratuito, della fede — constata la miseria e l’impotenza degli schemi che vorrebbero ridurre a prospettive solo trivialmente umane la complessa e ricca esperienza religiosa. Il credente sa che i cosiddetti schieramenti dei conclavisti, che pur esistono, non si spiegano — se non forse, in alcuni, marginalmente — con le categorie valide per la dialettica politica. Certo, anche quello politico è un aspetto importante dell’umano e la Chiesa e i suoi uomini sbaglierebbero se non lo mettessero in conto. L’errore è tentare di misurare con quel metro una realtà «altra» come la Chiesa stessa. Recita il numero 351 del Codice canonico: «Ad essere promossi cardinali vengono scelti liberamente dal Romano Pontefice uomini che siano costituiti almeno nell’ordine del presbiterato (che siano, cioè, già sacerdoti, ndr), distinti in modo eminente per dottrina, costumi, pietà e prudenza». Il fatto è che, grazie a Dio, almeno da due secoli, sembra proprio che avvenga così. Si tratta di uomini con, ovviamente, limiti e carenze ma che, in ogni caso, hanno donato a Dio tutta la loro vita; e che, ogni volta che lasciano cadere una scheda nell’urna della Sistina, ad alta voce invocano solennemente la Trinità perché testimoni come il loro voto sia dato solo secondo coscienza, dopo lunga preghiera e unicamente per il bene della Chiesa. Sono, in maggioranza, uomini di età avanzata, uomini consapevoli che non è lontano il redde rationem nell’aldilà, uomini che sanno bene che (parola di Vangelo) «molto sarà chiesto a chi molto è stato dato». Soprattutto se quel «molto» è stato dato per essere strumenti in una Chiesa che non è loro ma del Cristo, il quale chiederà conto del suo, secondo giustizia. Che può comprendere di questa prospettiva eterna e illimitata colui che non ne partecipa e magari si fa vanto di questa estraneità, spacciandola per garanzia di oggettività?
Vittorio Messori