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 2013  febbraio 24 Domenica calendario

BEN JOHNSON, LA COLPA DEL VENTO

Sono passati vent’anni anni esatti e lui, Ben Johnson, è come se non fosse mai esistito. Il suo nome non c’è più, non risulta, non figura. Grattato via. Cancellato. Strappato. Andate a leggervi i testi sacri dell’atletica. Andate e toccate con mano. Mondiali di Roma 1987: niente. Olimpiade di Seul 1988: niente. Albo d’oro dei record: niente. Al massimo, un asterisco piccolo piccolo che rimanda a tre parole nelle quali è sintetizzata la sua parabola di Grande Peccatore: radiato per doping.
Cinque marzo 1993, due decenni fa: sulla testa di Ben Johnson, l’uomo più veloce del mondo, il Bolt degli anni Ottanta, piomba la seconda, definitiva condanna della giustizia sportiva. Qualche settimana prima, il velocista canadese è stato trovato positivo al test dopo una gara di secondo livello a Montreal. Sta cercando un improbabile rientro sulle piste. È recidivo. Sciocco. Irrecuperabile. La sentenza è una condanna senza appello. Da quel giorno, Johnson diventa qualcuno che non è mai esistito. Da quel giorno, l’atletica intraprende un percorso catartico che comincia con la consegna della vittima perfetta all’indignazione del mondo. Ciò che è accaduto dopo, nell’atletica e in tante altre discipline, ciclismo in testa — da Marion Jones e Tim Montgomery al nostro Schwazer, su su fino a Lance Armstrong —, è la dimostrazione che quel rito pagano non fu purificazione, bensì il punto di partenza di una deriva morale e psicologica che ha cambiato il modo di fare e intendere lo sport ad alto livello.
La storia di Ben Johnson è curiosamente organizzata in scadenze quinquennali. Il 24 settembre 1988, un sabato, cinque anni prima della definitiva defenestrazione, quel ragazzo di colore che viene dalla Giamaica — famiglia povera e numerosa, scuole irregolari, balbuziente e complessato — correva uno dei più fantastici 100 metri della storia. All’epoca, il più rapido di sempre: 9"79 il tempo, quasi 37 chilometri all’ora la media, 43 la punta massima, 132 millesimi il tempo di reazione, 5"52 il passaggio ai 50 metri. A Seul erano l’una e trentatré del pomeriggio, le cinque e trentatré del mattino italiano, temperatura di 25 gradi, ottantamila gli spettatori presenti sulle tribune dello stadio Olimpico per la finale più attesa. I 100 metri sono la gara regina dell’atletica. Non la più bella, certo la più emozionante: uno sparo nel silenzio irreale di uno stadio che trattiene il respiro e nove corpi che in un amen bruciano nervi e muscoli. Come un fiume in piena, Ben Johnson riempì le pagine dei giornali e i notiziari tv di tutto il mondo. Il fenomeno era tra noi, l’uomo-pallottola, l’uragano, il marziano. Gli avversari? Distrutti, annientati, annichiliti. Specie quell’americano splendido e altero, l’odiato nemico Carl Lewis, lo specchio in cui rimirarsi senza vedersi: da una parte il brutto anatroccolo che vuole spiccare il volo definitivo; dall’altro l’inarrivabile figlio del vento, classe pura contro classe operaia, un predestinato al successo. Ma il miracolo accadde: cioè, a Seul, in quel tiepido giorno di settembre, accadde ciò che molti, sul momento, sfogliarono come una pagina romantica dello sport moderno. Davide che umilia Golia, il povero che scavalca il ricco: la perfetta quadratura del cerchio che i Giochi in Corea del Sud, voluti per dimenticare le divisioni e i boicottaggi di Mosca e Los Angeles, aspettavano. Questo per dire che di quell’impresa, di quel momento, restano tracce clamorose, evidenti, documentate. Bastarono due giorni per rivoltare la storia, ricominciarla dal basso, dal fango in cui Ben precipitò nello spazio di poche ore, tra lo sgomento di un’Olimpiade che scoprì all’improvviso di aver perso — altro che riconciliazione — la propria verginità. Trovato positivo per smodato uso di steroidi anabolizzanti e subito squalificato, il velocista fu privato della medaglia d’oro poco prima della fuga dalla Corea — nella notte e furtivo come un ladro beccato con le mani nella cassaforte —, mentre la parte nobile dello specchio, arrivata seconda a cinque metri di distacco, un’enormità, veniva insignita della vittoria olimpica con una cerimonia semiclandestina nello scantinato dello stadio.
Nell’interrogatorio davanti al giudice canadese Charles Dubin, che lo aveva inchiodato in un umiliante e severo processo pubblico, Johnson confessò che le pratiche dopanti erano cominciate nel 1981. Cinque pastiglie al giorno di Dianabol, dieci nei momenti più intensi della «cura». Iniezioni intramuscolari di Furazabol, quindi di Winstrol, roba pesante usata nell’ippica per mettere le ali ai cavalli. L’epo ancora non esisteva: quanta ne avrebbe presa, Ben Johnson? Corsi e ricorsi: in certe prescrizioni mediche circolate in queste ultime settimane pare di rivedere quella spaventosa posologia dell’inganno chimico. Fu così che dal 10"25 dei primi anni 80, risultato medio-buono, Ben Johnson era arrivato al fantastico 9"79 di Seul. Fino al 1984, quando conquistò a Los Angeles due bronzi olimpici nei 100 e in staffetta, Johnson incassava 300 dollari a ingaggio. Dopo, non sarebbe sceso da quota 70 mila. Arrivò a guadagnare anche due milioni di dollari a stagione. Viveva in una magione a Unionville, periferia-bene di Toronto. Nel suo garage erano parcheggiate due Corvette, una Toyota Supra, una Porsche 928 e una Ferrari Testarossa. Gli piaceva girare il mondo, essere coccolato dalle donne, portare rumorose catene d’oro, chiedere tutto e averlo subito. Quando i nodi vennero al pettine, nessuno ebbe pietà di lui: non la Federatletica mondiale, che cancellò vittorie e record; non gli sponsor, che stracciarono i contratti; non l’opinione pubblica, che trasformò le ovazioni in fischi. Ben diventò un uomo invisibile.
L’ultimo suo record fu un 10.3 che il quotidiano sportivo «L’Equipe», con la feroce ironia di cui sono capaci i francesi, evidenziò in un titolo a piena pagina. L’articolo riguardava la squalifica a vita, e quel 10.3 era il rapporto fra testosterone e ipotestosterone dopo l’analisi della provetta di liquido organico prelevata a Johnson al termine della gara meno importante della carriera. Di record, in effetti, si trattava: il livello di una persona normale è 1.1 (il 90% dell’umanità, dicono le statistiche), il limite tollerato dai laboratori antidoping era, all’epoca, 6.1 (una persona su 10 mila). Corsi e ricorsi: steroidi, ormoni, eritropoietina e sangue contraffatto punteggiano ancora le vicende sportive di oggi. Non è cambiato nulla, o quasi. Ben Johnson è un cinquantenne un po’ pingue che non ha smesso di balbettare. È sempre più convinto di essere stato vittima di un complotto. Invisibile più che mai: è rimasto l’unico, ormai, a rincorrere il suo passato.
Claudio Colombo