Franco Cordelli, la Lettura (Corriere della Sera) 24/02/2013, 24 febbraio 2013
«CICATRICI» E’ UN CAPOLAVORO
Un tassello importante di quel mosaico (o puzzle) che è la letteratura mondiale in Italia viene alla luce solo ora. Un primo frammento apparve nel 1994, il romanzo s’intitolava L’arcano (El antenado) e lo aveva pubblicato Giunti. Il secondo frammento è del 2006, il titolo era L’indagine, l’editore Einaudi. L’anno dopo Nottetempo pubblicò Luogo, che era del 2000. Ed ecco Cicatrici: un romanzo scritto nel 1967 e pubblicato nel 1969. Sono parti di un’opera che l’autore, l’argentino Juan José Saer, nato nel 1937 e morto a Parigi nel 2005, definì unitaria: ogni testo un testo a sé, autonomo; ma ognuno da porsi in relazione agli altri. Non era detto tanto per dire. Leggendo i quattro libri ci si accorge di come le variazioni (formali e, almeno in parte, degli stessi contenuti) e le ripetizioni si facciano da specchio l’un l’altra. Provo a riassumere questi libri, o meglio a descriverli. L’indagine frastornò i primi lettori. Fu forse giudicato nel contesto (nella poetica) di un boom, quello del romanzo poliziesco — accostamento fuorviante, o irrilevante.
In realtà è la storia in cui la sempre latente matrice Borges è di maggior spicco. Vi è una trama che dapprima sembra pretestuosa, che poi di colpo si aggroviglia, e che quando si scioglie, un attimo dopo, si aggroviglia di nuovo, ossia si rovescia in modo tanto sottile quanto burlesco-plateale. Rispetto ai precedenti romanzi il tema vi si delinea in modo più nitido: è il tema del doppio. Con tutta diversa invenzione, si potrebbe dire che tale tema sia il fondamento anche de L’arcano. Ne ho citato il titolo originale perché quello italiano è non meno pertinente: più preciso El antenado, più suggestivo L’arcano. In questo romanzo, se tale è, i due significati tendono a sovrapporsi. Narrata in prima persona da un uomo anziano, è la storia della sua sopravvivenza a una strage di marinai. Caduti nell’agguato di una tribù di indios, i compagni di viaggio del narratore vengono squartati, arrostiti e divorati. Nel libro non vi è una vera storia, vi è la descrizione degli usi e costumi degli indios — dal cannibalistico banchetto all’orgia che ne segue; dallo stordimento alla ripresa lenta e graduale; dalla serena convivenza della vita quotidiana (dieci anni con loro, lasciato tranquillo o riverito come un feticcio) alla nuova, periodica più che rituale, esplosione di selvaggia vitalità.
L’arcano si può leggere come un’estrema sintesi di tutto ciò che sappiamo sull’antico continente. Ma questo romanzo non è, appunto, che una parte dell’opera di Saer. Minuscole scaglie, frammenti di frammenti, lo sono anche i ventuno racconti di Luogo. Vi ricorrono i temi delle opere maggiori, e anche le figure e gli stessi personaggi: in particolare Tomatis, uno scrittore che vive in Argentina, il coetaneo Garay, che vive a Parigi, e il giovane Soldi, che ha il merito di aver scoperto un prezioso manoscritto, Nelle tende greche. Su questo manoscritto di 850 pagine e di autore ignoto si discute e ci si accapiglia, in specie perché la proprietaria della casa in cui giace non lo vuole rendere pubblico. Noi lettori di Saer ne ritroviamo le tracce sparse qua e là; e sono tutte allusioni, come è evidente, dell’autore a sé e alla sua propria opera — così come i personaggi lo rappresentano quale figura cangiante: disiecta membra. L’arcano è sicuramente un grande libro, d’una potenza incomparabile: non per come ci parla del rapporto tra europei e indigeni; ma, per ancora citare il suo pensiero, perché per Saer «la letteratura è una sorta di antropologia speculativa, una riflessione sensibile sulla strana singolarità dell’uomo e del mondo».
Lo stesso accade in Cicatrici, un romanzo scritto nel pieno della scoperta, in Argentina, del modernismo europeo e americano — da James a Kafka, da Faulkner al nouveau roman e alla nouvelle vague. Ma se L’arcano è un grande libro, Cicatrici è un capolavoro. In esso tutto è perfetto, d’una precisione assoluta. Tanto il romanzo appare scritto nella conformità di dettati altrui quanto ciascuno d’essi gravita verso un centro (e là poi si dissolve, o s’irradia) che appartiene solo a Saer. Il giovane scrittore intendeva rappresentare un sentimento (non un’opinione), quello della circolarità del tempo. Comincia dunque dalla fine, ma noi fino alla fine non lo sappiamo. La storia, che non è una storia, che storia non è affatto, ce la racconta il giovane reporter Angelito. Egli ci parla di sé, della sua pazza madre, del suo lavoro al giornale, della sua passione per il biliardo, dei suoi vagabondaggi nella città, della sua amicizia con il giudice Ernesto, della sua mania per Chandler — che Saer in quegli anni condivideva con un altro scrittore argentino di poco più giovane, Osvaldo Soriano.
Il tempo del racconto si sposta in avanti rimanendo immobile. L’avvocato Sergio ha la passione del gioco, la cronaca di questo vizio dostoevskijano tocca livelli parossistici, il rapporto che Sergio ha con la sua giovanissima cameriera Delicia non è meno lancinante di quello che Angelito ha con la madre. Invece non ci sono donne nella giornata dell’arci-misantropo giudice Ernesto: per lui gli uomini non sono che esseri primitivi, li guarda come il narratore de L’arcano ricorda i suoi indios. Per Ernesto vi è (altra ossessione) il compito che s’è assegnato di tradurre Oscar Wilde, vi sono le telefonate anonime d’insulti e minacce, vi sono le strade di notte e un’eterna pioggerella autunnale. Vi sarà infine un assassino: mentre lo interroga, costui si getta dalla finestra. Lo avevamo incontrato nel racconto di Angelito, che era lì per caso. E solo nel racconto delle ore che precedono assassinio (della moglie) e suicidio dell’operaio Luis Fiore ciò che ci era apparso misterioso risulterà familiare, a tutti comune. Il mistero non esiste. Non c’è che ciò che non sappiamo. Ciò che non sappiamo va dalle stelle e dagli evi remoti a quanto accade nel momento in cui l’evento, che era silenzioso ed è ora clamoroso, si realizza come destino.
Franco Cordelli