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 2013  febbraio 24 Domenica calendario

«GOOGLE NON E’ ETERNO. LA TECNOLOGIA MIGLIORE SCACCIA LA PEGGIORE» - C’è

una caratteristica che ritorna in tutte le start-up editoriali di successo: l’amore per il giornalismo. Contenuti originali, reportage, inchieste che richiedono tempo, soldi ed energia. Accade anche al 126 della Fifth Avenue di Manhattan, New York, l’indirizzo dove ha sede, ancora per pochi giorni, la redazione di «The Verge», il sito fondato nel novembre del 2011 dall’enfant terrible della tecnologia Joshua Topolsky. L’ufficio, popolato da giovani hipster con MacBook Air sulla scrivania e capelli in disordine, è un via vai di nastri adesivi e pacchi imballati. Nulla a che vedere con gli scatoloni della crisi, le foto-simbolo degli impiegati di Lehman Brothers che lasciavano i posti di lavoro: il trasferimento a Midtown per «The Verge» è simbolo di vittoria, la prova di un prodotto di successo che — con 12 milioni di visitatori unici al mese e uno staff di 60 giornalisti — veicola il nuovo sogno americano in formato web.

«Volevo portare "The Verge" in un luogo adatto ai nostri contenuti — spiega Topolsky mentre sorseggia caffè nero —. La bellezza deve tornare a essere un valore sia per chi legge sia per chi produce le notizie». C’è molta cura nel design del sito. Ogni aspetto, dai caratteri ai video, è selezionato dal direttore con la stessa vanità con cui sceglie gli abiti: scarpe italiane, pantaloni a sigaretta, cravatta colorata, gilet di cashmere, occhiali neri rettangolari. Quando nel 2011 ha lasciato «Engadget», il superblog di tecnologia di Aol, insieme a un gruppo di colleghi, aveva un obiettivo: liberare la tecnologia dalla prigione del prodotto in cui è stata relegata per decenni. «Volevo creare una piattaforma capace di raccontare anche la relazione tra new media e cultura, economia, politica, società», racconta ispirato.
Per farlo occorreva muoversi nella direzione opposta a quella del giornalismo online, «fondato su velocità, superficialità e scarso investimento economico». «The Verge» — giurava Topolsky — avrebbe raccontato «le grandi storie del presente in tempo reale». Non c’è spocchia nuovista nelle sue parole ma la capacità di non perdere di vista quella che in inglese si chiama Big Picture: «Il valore di un giornale come il "New York Times" è incalcolabile: le nuove testate devono lavorare per avere la stessa credibilità — afferma — ma, a differenza dell’editoria tradizionale, devono essere flessibili: se domani dovesse tornare competitiva la carta, ad esempio, bisognerebbe avere una struttura pronta ad accogliere il cambiamento». Sembra una boutade, ma nasconde un progetto: Vox Media, la media company con base a Washington proprietaria di «The Verge», sta pensando a un’edizione cartacea del sito. Topolsky non si sbottona: «Penso a una pubblicazione periodica che raccolga il meglio dei nostri articoli più alcuni contenuti originali e reportage fotografici». Il giornalista, 35 anni di cui dieci trascorsi a New York, dichiara di avere una passione per l’editoria cartacea: «Riviste come "The Face" (magazine inglese che ha interrotto le pubblicazioni nel 2004, ndr), il "New York Magazine" o "Anthology" per me hanno un valore unico».

Come per quelle prestigiose e sofferenti testate, anche i ricavi di «The Verge» si basano sulla pubblicità: «Abbiamo scelto una forma di finanziamento "tradizionale", e l’abbiamo fatto perché online funziona». Come i colleghi concittadini di «BuzzFeed», il sito di Ben Smith, anche «The Verge» ha uno staff dedicato alla progettazione di contenuti pubblicitari, a dimostrazione che l’advertising sul web è un settore tutto da esplorare: «Nessun cane a tre teste o banner orribili: offriamo ai lettori pubblicità in linea con servizi di qualità».
La passione per la tecnologia è cresciuta negli anni insieme a quella per la musica: Topolsky è batterista, produttore musicale (con una predilezione per la scena indie punk americana, come i californiani Chk Chk Chk) e anche dj, conosciuto nei club di Brooklyn come Joshua Ryan. Rappresentante degno di una nuova generazione di nerd americani che, a differenza dei fratelli maggiori, non disprezzano socialità e coolness: «Ero un ragazzino strano con un’unica passione: assemblare cose. A sei anni ho ricevuto in dono il primo computer e ho scoperto che potevo anche comporre musica».
Il ragazzo è cresciuto. Occuparsi delle conseguenze della tecnologia, invece che di assemblaggio, significa lavorare in quella zona grigia dove le aziende vedono gli utenti come un insieme di dati da vendere al migliore offerente: «Esiste un livello accettabile di tracciabilità online. Il punto è che compagnie come Google e Facebook non hanno limiti. E non solo per motivi economici. L’esercito di ingegneri che lavora per loro non si preoccupa di cose come la privacy: le persone sono insiemi di dati e il loro obiettivo è raccoglierne e analizzarne il più possibile». Ancora una volta è una questione di business model: «L’unico che funziona davvero su Internet è quello dei dati, per questo nessuno si sforza di trovare meccanismi più sostenibili». Come tutelarsi allora? «Devono esserci alternative chiare e trasparenti per la navigazione online».
Da buon americano che crede nel libero mercato, Topolsky è convinto che le regole non debbano arrivare dalla politica: «I governanti non capiscono niente di Internet. Quando la politica ha provato a regolare il web si è rischiato il disastro: pensiamo alla proposta di legge presentata lo scorso anno, lo Stop Online Piracy Act (Sopa)».
La soluzione sta nella collaborazione tra governo, aziende produttrici e utenti, nella costruzione partecipata di regole. «Al momento — sottolinea — c’è un divario profondo tra chi fa le cose e chi le usa». Le azioni preventive servono a poco: «Bisogna stare attenti a non lasciare spazio al terrorismo della privacy: sulla strada dell’innovazione gli errori sono inevitabili. Occorre sistemarli quando si presentano, non illudersi di prevenirli». A chi paventa un possibile monopolio di Google nella ricerca o di Facebook nel mondo dei social network, Topolsky ricorda che la difesa naturale della tecnologia sta nella sua natura democratica: «Se arriva un sistema di ricerca migliore di quello di Google, gli utenti migreranno e dimenticheranno in fretta Mountain View. Pensiamo ai browser per navigare online: qualche anno fa sembrava che l’unico fosse Internet Explorer. Poi è arrivato Firefox, poi Safari, e adesso c’è Chrome». Stesso discorso per l’iPhone: «Sembrava lo smartphone migliore del mondo, poi è arrivato il sistema Android a mescolare le carte». O ancora il BlackBerry: «Cinque anni fa un uomo di successo doveva avere il BlackBerry, oggi vale il contrario».
Se non c’è alternativa a Google, dunque, è perché nessuno è più bravo nella ricerca. «Microsoft (proprietaria del motore di ricerca Bing, ndr) si difende dicendo che Mountain View blocca l’accesso dei competitor ai database: ridicolo. Il problema è che Bing è, semplicemente, peggiore».
Secondo il direttore di «The Verge», l’errore di Microsoft è stato quello di non vedere, quindici anni fa, l’emergere di Google: «All’epoca l’azienda di Bill Gates regnava indisturbata ma ha imparato a sue spese la lezione: la migliore tecnologia spazza via la peggiore, sempre».
È passata un’ora e mezza, Topolsky è a suo agio, e — finalmente — azzarda una previsione: «Io dico che un sistema come Siri potrebbe essere il futuro della ricerca online». Siri è l’assistente vocale dell’iPhone che svolge le funzioni richieste a voce dall’utente, come comporre un numero di telefono o segnare un appuntamento sull’agenda: «In cinque anni potrebbe essere il modello di ricerca imperante». Non concede lo stesso entusiasmo alla graph search di Facebook, il nuovo sistema — in fase di sperimentazione negli Stati Uniti — che permette di fare ricerche filtrate tra i propri contatti: «Bisogna vedere quale sarà la risposta del pubblico: gli utenti non usano gli strumenti perché sono nuovi e cool, ma solo se funzionano e sono semplici». Alla fine, nonostante le illusioni delle aziende, sono loro a decidere: gli utenti.
Serena Danna