Beppe Severgnini, la Lettura (Corriere della Sera) 24/02/2013, 24 febbraio 2013
ELOGIO DELLA BREVITA’
Ho scoperto la sintesi una mattina d’inverno del 1970, nella stanza d’angolo di un palazzo d’epoca di Crema, affittato dal liceo-ginnasio Alessandro Racchetti per alloggiare quattro classi di movimentati adolescenti. Il nostro movimento non era politico, bensì sportivo; e rivendicava i propri diritti. Nell’intervallo giocavamo a calcio in cortile e avevamo ottenuto, in caso di parità al suono della campanella, di poter disputare i supplementari.
Mi piaceva giocare a calcio, almeno quanto scrivere. Avevo strane idee in materia: ero convinto che la qualità dipendesse dalla quantità e dalla complessità. Arrivare alla quarta facciata del foglio di protocollo, nei compiti in classe, era una sfida. Sceglievo ogni polisillabo che mi avvicinasse all’obiettivo. La mattina, prima di uscire di casa, aprivo a caso il vocabolario e sceglievo tre parole insolite — per esempio «palese», «criptico» e «allegorico» — e le includevo nel componimento. Il tema assegnato era irrilevante. Il progresso? «È palese il collegamento tra progresso e istruzione. Può sembrare criptico solo a chi rifiuta il valore allegorico di alcuni personaggi letterari». La famiglia? «Il ruolo del padre è allegorico. Un riferimento palese e costante per i figli, un ruolo criptico per l’interessato». Un quattordicenne che scrive in questo modo va affidato subito a uno specialista. Ma erano tempi confusi, e molti insegnanti amavano lasciarsi ingannare.
Non la mia professoressa d’italiano, Paola Cazzaniga Milani (veniva da Milano, cosa che a tredici anni mi appariva interamente logica). Ricordo ancora quel compito in classe. Un lungo tema sulla libertà, che avevo farcito di inutili roboanti vocaboli, mi fruttò un misero 6. Un compagno di classe di notevole intelligenza e scarso impegno — alle medie producevamo insieme fumetti ciclostilati e costringevamo i parenti all’acquisto — scrisse solo una frase: «Libertà è il cielo azzurro qui fuori, incorniciato dalla finestra. Fa male guardarlo, chiuso in quest’aula. Meglio convincersi che è una fotografia». Voto 9, lettura in classe.
Non provavo invidia (è un sentimento di cui non sono mai stato capace). Ero sconvolto. La professoressa Milani lo capì e mi chiese di restare dopo la lezione. Disse soltanto: «Ricorda: meno è meglio». Da quel giorno, nei miei temi, solo avverbi svelti, un aggettivo alla volta, mai due «che» nella stessa frase. Mai superare la seconda facciata, per nessun motivo. Ancora oggi scrivo — spero di scrivere — nello stesso modo.
La sintesi è una spremuta di pensiero: fa bene alla salute mentale. Aiuta a capire e a far capire. È un lavoro che facciamo per qualcun altro: ce ne sarà riconoscente. Nella scrittura — in tutte le forme di comunicazione — le parole superflue non sono inutili: sono dannose.
Non condivido, perciò, le preoccupazioni di Carlo Bordoni che recentemente, qui su «la Lettura», ha scritto: «Abbiamo inventato la logica binaria per far funzionare i computer e ora quella stessa logica inflessibile e stringata nella sua meccanicità ci insegna e ci governa». Non capisco perché autori di qualità — Massimo Gramellini e Michele Serra, Francesco Piccolo e Jonathan Franzen — si siano scagliati contro la sensuale costrizione dei 140 caratteri. Twitter non è un’alternativa ad altre forme di espressione. È uno strumento nuovo. Un decespugliatore del pensiero.
Nel corso dei secoli la sintesi ha avuto molti appassionati sostenitori. Anche quello avevo capito, al ginnasio e al liceo, dopo aver imparato a scrivere temi decorosi. Orazio, per esempio, confessava di voler essere rapido, e si dispiaceva quando non ci riusciva: «Brevis esse laboro / obscurus fio» («Cerco di essere conciso, e risulto oscuro», Ars Poetica, 25-6). Gli epigrammi di Marziale, scriveva Concetto Marchesi, «avevano resistenza e vigore nella bocca del popolo» anche perché brevi e memorabili.
Et delator es et calumniator,
et fraudator es et negotiator,
et fellator es et lanista. Miror
quare non habeas, Vacerra, nummos.
E spione e calunniatore,
Imbroglione, trafficone,
Succhiacazzi, commissario tecnico
Di gladiatori. Vacerra, non capisco
Come mai tu non sia ricco.
Epigrammi LXVI, libro XI trad. Guido Ceronetti
Il mio preferito, però, era Tacito. Mi vergognavo un po’ a dirlo: a sedici anni, per trovare la ragazza, era meglio parlare di Neil Young. Tutt’e due, a pensarci bene, preferivano frasi concise che spezzavano volutamente la simmetria del discorso. Maria Elena Zanini — laureata in lettere classiche, studentessa di giornalismo al master Walter Tobagi dell’università Statale di Milano — mi ha scritto: «Tacito sembra complesso e difficile per noi moderni, ma era invece molto letto e apprezzato dai contemporanei. Evidentemente ne condividevano la rapidità, l’intelligenza e la costruzione sintattica»:
Opus adgredior opimum casibus, atrox proeliis, discors seditionibus, ipsa etiam pace saevom. Quattuor principes ferro interempti; trina bella civilia, plura externa ac plerumque permixta; prosperae in Oriente, adversae in Occidente res; turbatum Illyricum, Galliae nutantes, perdomita Britannia et statim missa...
(Affronto una storia densa di vicende, terribile per battaglie, torbida di sedizioni, tragica anche nella pace: quattro prìncipi uccisi per spada, tre guerre civili, più numerose quelle esterne e per lo più concomitanti; successi in Oriente, sconfitte in Occidente; sconvolto l’Illirico, instabili le Gallie, la Britannia domata e subito abbandonata...).
Historiae I, 2
«Tacito rocks!», direbbero in America.
Non c’erano solo gli autori latini e greci (Tucidide!), nella mia formazione sintetica. A diciott’anni avevo già letto tutto Cesare Pavese, in vista di una tesina per la maturità; e me ne ero innamorato. Ricordo d’aver prestato per l’estate la mia copia di Feria d’agosto alla ragazzina bruna che mi piaceva; lei me la restituì a settembre, macchiata di crema solare. L’avevo considerato un segno d’attenzione; quando invece, probabilmente, Rosaria non aveva mai tolto il libro dalla borsa da spiaggia. L’autore imbrattato avrebbe sorriso. Le donne, lo sappiamo, gli hanno combinato di peggio.
Cesare Pavese non ha forse aiutato le mie strategie sentimentali; ma è stato un’illuminazione. Negli anni del fascismo retorico e pomposo, aveva letto, digerito e tradotto autori americani che di asciuttezza erano maestri, da Sherwood Anderson a John Steinbeck: e si vedeva. Nel Mestiere di vivere — la nota è del 1942 — s’impone di «disporre tutto il racconto, fin la prima parola e le virgole, in modo che nulla vi sia di superfluo». Scrive Elisabetta Saletti (Appunti sulla sintassi di Pavese): «Pensate alle generiche, scorciate formule d’avvio: "Com’è che", "Sarà che", "Fatto sta che" (...), a cui corrispondono le altrettante scorciate formule riassuntive finali, del tipo "Basta", e le clausole orali: "Questo sì", "Accidenti", e altre». Pavese — si capisce dalle varianti — lavorava per sottrazione, arrivando a una lingua scarna e luminosa. Per questo piace a un diciottenne: ieri come oggi.
Conoscete ragazzi che leggono Carlo Emilio Gadda, campione del plurilinguismo facondo? Io no. Stiamo parlando di un fuoriclasse, sia chiaro. Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è un capolavoro che ha lasciato a bocca aperta anche un autore (sintetico) come Pier Paolo Pasolini. Sto ascoltando l’audiolibro recitato da Fabrizio Gifuni: uno spettacolare esercizio di bravura. Un testo mozzafiato, ma faticoso (Emilio Cecchi definì Gadda «un Joyce con una forte base di preparazione nelle scienze fisiche e meccaniche»). Il Pasticciaccio è un’opera molto lodata e spesso ricordata; ma ostica e poco conosciuta. L’avessi proposto a una ragazza nel 1973, avrei rischiato l’ostracismo. Quarant’anni dopo il rischio è immutato: ragazzi, non fatelo.
La mia formazione sintetica, messa a dura prova da quattro anni di giurisprudenza, riprese al «Giornale». Indro Montanelli suggeriva — imponeva? — ai nuovi arrivati la lettura di Giuseppe Prezzolini e Leo Longanesi, Ennio Flaiano e Achille Campanile. Autori talvolta incauti, saccheggiati nel corso degli anni e reclutati, post mortem, per le cause più diverse. Ma non c’è dubbio: tutt’e quattro hanno saputo sintetizzare il loro tempo e la nazione. «In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco» (Flaiano) non è un aforisma: è un trattato di scienza politica. «Noi italiani vorremmo fare la rivoluzione col permesso dei carabinieri» (Longanesi) è una lezione di antropologia. «In Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio» (Prezzolini) s’è rivelato una profezia.
Dei quattro autori citati, Achille Campanile è il meno noto. Era uno scrittore abbondante: ma solo nel corpo e nello spirito. Robusto, generoso, popolare, litigioso, amante delle donne (meglio se giovani e belle), uomo di torrenziale creatività e abbondanti tirature: a quarant’anni aveva già pubblicato una ventina di opere. Venne paragonato a Ionesco: ma il nostro è arrivato prima. In un ambiente come quello italiano, più incline al florilegio retorico che all’epigramma, la sua opera suscitò diffidenza, poi indifferenza. Furono i lettori a tenerlo a galla finché la critica si accorse di lui. Tragedie in due battute non è solo un buon titolo: è una bella sfida.
«Il gran ciambellano. Esitando, temendo di disturbare il Principe: "Altezza...". Il principe. Riscuotendosi dalle sue meditazioni, tristemente: "Un metro e sessanta"».
In un testo breve — ogni adolescente lo capisce, al momento di premere «Invia» — non è consentito sbagliare. Montanelli — molti anni prima di WhatsApp — ne era consapevole. Non si accontentava di farci leggere: voleva insegnarci a scrivere. Il punto d’arrivo non era l’articolo di fondo o l’elzeviro, ma «Controcorrente», brevissimo corsivo quotidiano di prima pagina. Il direttore ne produceva instancabilmente, limando ogni parola fino alla chiusura del giornale; ma ogni contributo era gradito. Mario Cervi, Paolo Granzotto, Giovanni Arpino, un giovane cronista, un dimafonista: contava il risultato. Chiunque, dovunque fosse, con ogni mezzo (telefono, telegramma, telefax), era autorizzato ad avanzare proposte. La percentuale di successo era infima, la prova eccitante. Nella primavera 1991 ero inviato a Mosca, città dagli scaffali desolatamente vuoti, e ricordo la soddisfazione di vedermi pubblicato questo telex: «Ieri in Unione Sovietica un uomo ha tentato di dirottare un aereo brandendo una saponetta. Incredibile: dove l’avrà trovata?»
Sintesi è una parola greca (da syn, che significa «con», e thésis, che significa «posizione») che significa «composizione» (l’azione di mettere insieme). È, quindi, un destino etimologico: la composizione ha il dovere d’essere sintetica, quand’è possibile. Nessuno aveva intuito, vent’anni fa, quanto i messaggi di testo (sms) avrebbero cambiato la nostra vita. Insieme alle mail e ai social network hanno riportato la scrittura al centro della comunicazione: non accadeva dall’Ottocento. E scrivendo la brevità rende, perché è costretta ad arrivare all’essenziale. Uno sforzo che risparmiamo al destinatario, il quale ce ne sarà grato.
La forza dell’onda sintetica è evidente in altri fenomeni: l’ubiquità delle sigle, il successo delle contrazioni, la marcia della «k» contro il «ch», la lenta agonia della «i» afona (efficiente). Resistere non è eroico: è inutile e sbagliato. La lunghezza gratuita merita d’essere sconfitta. Anzi, punita. Spesso, infatti, è una forma di pigrizia. «Se avessi avuto più tempo, avrei scritto una lettera più breve», si scusò Blaise Pascal (uno dei tanti autori cui viene attribuita questa frase). Prolissità e complessità, spesso, sono sintomi di confusione e pavidità: molti non si fanno capire perché temono di essere capiti.
La bella brevità è onesta, utile e generosa: non garantisce soltanto chiarezza ed efficacia, ma regala tempo a chi legge. La «Columbia Journalism Review» ha diffuso i dati relativi al giornalismo longform negli Usa. Dal 2003 al 2012, gli articoli superiori alle 2.000 parole sono diminuiti dell’86 per cento. Non è una tragedia, è un progresso. Se poi, ogni tanto, vogliamo leggere lungo, nulla lo vieta.
Oggi, per esempio, l’avete fatto. Siete arrivati qui dopo 1.830 parole, e vi ringrazio.
Dimenticavo: anche il voto è un esercizio di sintesi. Svolgetelo bene, buona domenica.
Beppe Severgnini