Adriano Sofri, Repubblica 17/2/2013, 17 febbraio 2013
BARCELLONA POZZO DI GOTTO
(Messina) - Ci avviciniamo al Terzo Reparto, e uno grida, rivolto prima al direttore, poi a tutti noi: «Me lo merito? Non me lo merito! Non me lo merito! ». Abbiamo già visitato il Primo Reparto, il direttore ci ha avvertiti: «Al Terzo è più dura». È il vecchio Reparto Agitati. Non ci sarà nessun atto inconsulto, solo facce e gesti gentili e ansiosi e tristi. C’è un giovane chiuso, con lui bisogna stare attenti, avvertono; è lui stesso a sbattere la porta blindata della cella addosso al cancello già chiuso. Le altre camere sono aperte, grandi e luminose, sei persone, niente letti a castello. Pochi stanno in branda: meno di quanti se ne troverebbero, a qualunque ora, in una galera “normale”. Sta passando il carrello del vitto, portato da due giovani signore dall’aria cordiale. Gli internati (si chiamano così) raccontano di sé succintamente, devono aver fatto l’abitudine ai visitatori e imparato a usare il minuto che può toccar loro. «Venivano come al giardino zoologico».
Dicono il nome, l’età, gli anni che hanno trascorso lì, e una frase essenziale o due.
Giovanni, 37, di Benevento, da dodici anni negli Opg di Secondigliano e di Aversa prima di qui, mostra una pancia rigonfia da un lato, «un accoltellamento, devo essere operato ». Francesco, 33 anni, «mi sono impiccato, volevo smettere di vivere, invece ho ricominciato a fumare». Un altro Giovanni, «faccio 82 anni il 29 dicembre, ma sulle carte legali a febbraio», qui da due anni, «spero di restarci, a Messina un inferno, in nove in una cella». Vincenzo, di Palermo, è qui da diciassette anni.
Salvatore è di Comiso, è giovane, si mette a piangere: «Mi manca la mia mamma». Gli Opg chiudono il 31 marzo, «ma è domenica!», dice allarmato. Già. Mi abbraccia, ha voglia di abbracciare, molti qui ce l’hanno. Carlo è più riservato all’inizio, poi cambia. «Trentasei anni, sono arrivato a trentatré, sto invecchiando qua dentro. Ho preso due anni per oltraggio, ho picchiato uno perché non volevo i farmaci, sono già alla seconda proroga. Mio padre lavorava all’Ilva a Taranto, è morto di tumore. Io scrivevo canzoni, guardate la mia poesia su Youtube, Catene». L’ho guardata, poi. Domenico, 40, ha fatto un anno di carcere, dieci di manicomi. «Non chiedo licenze perché non ho i soldi. Sono in dialisi da quando avevo diciott’anni. Non ce la faccio più, sono tutto consumato». Uno mi invita in disparte, è quello che gridava: «Me lo merito? Non me lo merito!», vuole dirmi qualcosa. Mi sussurra, che gli altri non sentano: «Non me lo merito!». Penso che non se lo meriti.
Tutti nominano le proroghe. Chi viene qui non è imputabile, ma è dichiarato socialmente pericoloso. Alla scadenza dei due anni, viene prorogato di altri due (o cinque o dieci). All’infinito. Nella maggioranza dei casi, perché non ha dove andare fuori, e nessuno vuole accoglierlo. Un obbrobrio.
Il letto di contenzione è in una stanza bianca e linda. In verità tutto il reparto è ristrutturato di fresco, imbiancato: pavimento lustro, servizi igienici puliti, refettorio comune. È un letto normale, con una cinghia da passare sul petto, la “fiorentina”. Ce ne sono tre in tutto. Quando arrivai, dice il direttore, Nunziante Rosania, ce n’erano ventisette. Di quelli in cui la persona denudata è legata ai polsi e alle caviglie, e al centro del pagliericcio lurido c’è un buco dal quale defecare, e la persona a volte veniva lasciata lì per giorni e settimane e mesi. Guardate su Youtube il documentario girato dalla Commissione parlamentare, se vi regge il cuore.
Buona parte dell’Opg è sequestrata dalla Commissione presieduta da Ignazio Marino, e un paio di reparti sono già chiusi. Nel prossimo, un giovane, Salvatore, mi si avvinghia al collo e mi bacia con foga, e fa lo stesso col direttore, che è due spanne più alto di lui e di me. Poi si precipita ad allestire una performance per la giovane fotografa, combinando giacche e attaccapanni, giornali, disegni, dolciumi. Intanto gli altri ci fanno ressa attorno. Remigio, 34 anni di Brindisi, racconta convulsamente la sua epopea di figlio di buona famiglia, tossicomane, rapinatore, e molto altro. Giuseppe: «Mia mamma è morta nel 2011, ho sempre il pensiero di lei, lei mi ha nutrito, mi ha vestito». M., 36, marocchino, «ho preso due anni perché ho spaccato una televisione alla stazione centrale di Milano, dopo sempre proroghe, da sette anni. A Milano ho due sorelle, i cugini, potrei almeno fare il colloquio». Peppino, 54 anni, li ha compiuti oggi, e ringrazia il direttore, perché sua moglie gli ha fatto la torta, «di pandispagna, buonissima». (Non era previsto che lo sapessimo, dunque lo annoto con piacere). Salvatore, 53, «ho passato quattro mesi in carcere a Catania, molto meglio qui, leggo, scrivo poesie», mi regala un libro che le contiene, L’altra libertà.
Antonio è di quelli che se ne stanno in branda, ma si alza: 75 anni, è successo a marzo, «è partito un colpo di fucile» — ha colpito una donna, quel colpo — finisco i miei giorni qui dentro, almeno fosse un vero ospedale.
Ci ha accompagnati un ispettore della polizia penitenziaria, deve averne viste tante. Chiudendo gli Opg finisce, dice, che quelli difficili da gestire li mettono semplicemente a marcire in galera. Non mi piace la demagogia, aggiunge. Ci esorta a chiedere a chi è stato anche in carcere dove si stia meglio. Gioco facile. Pasquale, 45 anni: «Non voglio che chiude». Sta molto male, mostra il braccio tutto tagliato, avverte: «Mi impicco stanotte». Ha girato tutti gli Opg: «Questo è il meglio». «Non riusciamo, con lui», dicono, e scuotono la testa. Torna sempre. Ho tanti appunti. Mi dispiace, capisco che non si intravedano nemmeno, dietro le due righe a testa, le persone in pena.
Ci sono oggi a Barcellona centottantatrè internati, più diciotto detenuti “normali” aggregati per lavorarci. La maggioranza è qui per i più futili motivi. Una quarantina ha commesso uno o più omicidi, quasi tutti in famiglia. Non è vero che non ne vogliano parlare, o che mentano. Oggi questo resta un posto infame, in cui persone malate vengono tenute prigioniere, e persone innocue vengono sequestrate perché fuori per loro non c’è posto. Ma com’è possibile, chiedo, che, alla vigilia, finalmente, di una chiusura decretata da anni, questo luogo si mostri decente, e appena poco fa era un inferno di abiezione? Dal 1997 al 2007 le cose cambiarono enormemente, rispondono. Venne espulsa la genia dei grandi mafiosi simulatori.
Dal 2008 tutto precipitò. «C’erano centosessanta internati, un anno dopo quattrocento. Altro che letti a castello. Ci scaricavano — alla lettera, furgoni pieni — persone in condizioni estreme. In due anni abbiamo perso sessantadue agenti, in pensione anticipata o riformati all’Ospedale militare: non ce la facevano più. Non riuscivamo a pagare i farmaci. Abbiamo cinquantottomila metri quadri, e diecimila euro per la manutenzione di un anno. Le comunità ce li rimandano indietro. Nel cinquanta per cento dei casi tornano per aver saltato la terapia. I servizi di salute mentale territoriali dicono di non avere le strutture. In Sicilia il passaggio dalla Giustizia alla Sanità non è mai avvenuto: confidiamo ora in Crocetta e nella Borsellino. L’Opg resta comunque un carcere, e per definizione non può curare e soprattutto riabilitare. Ma la chiusura secca è la soluzione migliore? Quando andiamo a Roma sentiamo solo la domanda: “Dove li mettiamo?”».
Ci sono grosso modo tre condizioni: i dimissibili senz’altro, la maggioranza relativa. Quelli che hanno bisogno di essere seguiti con progetti personali, in piccole comunità assistite per la salute e il lavoro legate al territorio di provenienza. Per i più gravi, il peggio è la prospettiva manicomiale classica: sono pazzi, non appartengono più alla società. Invece, anche nelle condizioni più severe, le relazioni contano quanto la protezione e i farmaci. Salvatore, infermiere caposala, un’esperienza di quarant’anni: «A volte devi insegnargli a mangiare con le posate, a vestirsi, a farsi una doccia. Le soddisfazioni a noi le danno solo loro. Grazie a Margara ci fu un concorso per infermieri, e i vincitori vennero assegnati agli Opg. Prima c’era solo un pronto soccorso, andavamo a dare la terapia con la lampadina tascabile».
C’è una bella nuova casa data in comodato dal Comune, per alcuni internati. E c’è la Casa di solidarietà e accoglienza di Don Pippo Insana. Ha 68 anni, la sua missione è di chiudere l’Opg, con un confratello, don Gregorio, e volontarie preziose. Prete a 23 anni, nell’84 diventò cappellano dell’Opg. In licenza andava solo chi aveva i soldi, allora lui li accolse a casa sua. Il nome dell’associazione lo scelse un internato: aveva buttato giù da un balcone la sua bambina, oggi è una persona risorta. «Abbiamo avuto dei pluriomicidi» dice, «ma anche un barbone arrestato per non aver mostrato la carta d’identità che non aveva». La cosa peggiore, dice, è l’abbandono: parenti che non li vogliono più vedere, tutori che li derubano delle pensioni. Racconta il modo atroce di farli portare ai letti di contenzione dai lavoranti; non bisogna giudicare all’ingrosso il personale, dice, ma la Commissione parlamentare è stata benedetta. Però certi trattamenti sanitari obbligatori esterni riducono peggio che dentro.
Quando usciamo dall’ultimo reparto, il cancello viene chiuso. Salvatore, che non ha smesso un momento di improvvisare cerimonie e giochi di accoglienza, ora si attacca alle sbarre e lancia baci frenetici con la mano, mentre ci voltiamo a ricambiare i saluti. Quando siamo a una sufficiente distanza di sicurezza — da mettere la sua timidezza al sicuro — sentiamo un grido straziante: «Amoreeeeeee».
(17 febbraio 2013)