Mattia Ferraresi, Panorama 21/2/2013, 21 febbraio 2013
APOCALYPSE AFTER
La parola veterano evoca un senso di vecchiaia. Il veterano americano invece è un giovane sulla trentina, invecchiato precocemente per l’eccessiva esposizione alle atrocità di guerre lunghe e polverose nelle quali è persino difficile stabilire che cosa significhi esattamente vincere. Il veterano americano ha la faccia di Scott Ostrom, 27 anni, che si è arruolato nei marines e dalla città di Boulder, in Colorado, è stato catapultato in Iraq, dove ha servito per due turni di 10 mesi ciascuno. Laggiù ha ucciso e ha visto uccidere, ma tutto è scivolato via fra le dita di un conflitto che ha un lato esteriore e uno ulteriore. Il primo si conclude con il ritorno in patria, il secondo è una scheggia che si ficca nella mente e non a tutti è dato di riuscire a estrarla. Un mostro con armi devastanti che consumano le sue vittime dall’interno.
Così è successo al veterano Eddie Ray Routh, che ha ucciso in un poligono di tiro nel Texas il miglior cecchino della storia americana, Chris Kyle, che si occupava proprio di assistere i reduci sotto stress. Così è successo pure al 65enne Jimmy Lee Dykes, un altro reduce, che è salito su uno scuolabus in Alabama, ha sparato al conducente, ha preso in ostaggio un bambino, lo ha tenuto prigioniero per sei giorni, finché le forze dell’ordine non hanno fatto irruzione uccidendolo e portando in salvo il ragazzino. La sindrome posttraumatica da stress è un male che accomuna il 30 per cento dei veterani di Iraq e Afghanistan. E in America qualcuno comincia a chiedersi che cosa succederà quando a dicembre rientrerà un terzo dei 90 mila soldati in Afghanistan e alla fine del 2014, quando tornerà in patria tutto il contingente.
Scott Ostrom è tornato a casa dall’Iraq sulle proprie gambe, un fatto non scontato per i soldati, ma quello che è rientrato nei ranghi della vita normale non era più lo stesso uomo che era partito qualche anno prima. I tratti somatici sono gli stessi, così come i suoi tatuaggi, la passione per l’arrampicata e le escursioni nei boschi, ma qualcosa è andato fuori posto nella sua capacità di stare al mondo. È la sindrome posttraumatica da stress, quella che affligge i militari sottoposti a traumi e stress da combattimento. Che per il giovanotto del Colorado significa isolamento psicologico e sociale, attacchi di panico incontrollabili, sociopatia, sbalzi di umore. E poi la ragazza che lo abbandona, la spossatezza senza ragioni, la vita improvvisamente vuota e sterile dopo anni di adrenalina, rigore, disciplina e nemici da abbattere.
Durante un’arrampicata organizzata dall’associazione locale per i veterani, Scott ha incontrato Craig Walker, un fotografo del Denver Post che nel 2010 vinse il premio Pulitzer per avere raccontato la storia di Ian Fisher, un diciottenne che si era arruolato nell’esercito ed era andato in missione in Iraq. Walker aveva passato due anni con Fisher, ritraendo quel passaggio critico dalla vita scolastica al mondo del lavoro che convince tanti ragazzi americani a cercare un futuro nell’esercito. Aveva messo in immagini il dramma della decisione, il rapporto con la famiglia e gli amici, lo aveva accompagnato in Iraq e lo aveva seguito nei periodi felici ma in qualche modo dolenti della licenza. L’incontro con Scott ha offerto al fotografo l’occasione di raccontare ciò che viene dopo nella vita di un soldato: il ritorno alla realtà, alla sua normalità fragile e spesso colma solo di un vuoto generato dalla prossimità con l’orrore.
Welcome Home è il nome dell’opera che Walker ha pubblicato dopo aver vissuto per 10 mesi a stretto contatto con il marine in congedo. Ed è la storia che gli è valsa il secondo Pulitzer. C’è voluto tempo per instaurare una relazione d’amicizia, per spaccare quella corazza di diffidenza che molti soldati di ritorno indossano; ci sono volute discrezione e compassione per arrivare a immortalare la sfera intima di Ostrom, le sue lacrime solitarie, gli attacchi di panico, i sonni inquieti sul pavimento abbracciato al cane (simbolo di fedeltà in un mondo di isolamento), le escursioni nella natura selvaggia, che sono metafore della fuga dal mondo, e anche quei punti sul taglio al polso tatuato: perché, dice Ostrom, «ognuno di noi ha un piano per uccidersi».
Negli anni Ottanta i Metallica intitolarono una canzone Welcome Home. Come il fotografo Walker, anche la band californiana aveva gettato uno sguardo nel vuoto di quello che soltanto in apparenza è un ritorno a casa. Più spesso si tratta di un approdo nel manicomio della propria solitudine, alla disperata ricerca di un senso: «C’è sensazione di ammutinamento nell’aria/ che deve provocare qualche morto./Lo specchio a mala pena mostra il passato./ Uccidere è una parola così amichevole,/ sembra l’unico modo per riuscirci ancora». La forza della sequenza fotografica di Walker sta nel suo carattere induttivo. La storia particolare e irripetibile di Ostrom è la rappresentazione di un fenomeno che coinvolge circa 600 mila soldati fra i 2 milioni che negli ultimi 10 anni hanno servito in Iraq e Afghanistan.
La gerarchia militare è restia a diagnosticare la sindrome posttraumatica (un’implicita ammissione di fallimento nella gestione del personale) e spesso accompagna gli ex soldati affetti da Ptsd con gli stessi programmi di generica assistenza ai veterani per cui l’America ha un ministero specifico, il secondo dipartimento per volume di risorse. Il governo americano guarda ai veterani con un misto di orgoglio e paura. Il servizio alla nazione è la fonte dell’orgoglio, il disagio sociale che spesso accompagna il loro ritorno è l’origine della paura.
I veterani sono come un’ombra silenziosa che si allunga sul paese. La gestione della loro protezione sociale (dalla pensione al collocamento nel mondo del lavoro) è amministrata dalla burocrazia governativa, ma tanti di quelli che ritornano si trovano addosso problemi che nessun sussidio può risolvere. A volte la sindrome dei veterani conduce al suicidio, come nel caso di un soldato 27enne raccontato qualche tempo fa da Nicholas Kristof sul New York Times. Quello che era stato uno studente modello dopo due turni in Iraq è ritornato in patria trovandosi incapace di gestire le relazioni con gli amici e la famiglia e di memorizzare i dettagli più semplici. Dopo poco la moglie ha chiesto il divorzio e il veterano si è trovato solo. La polizia lo ha trovato impiccato in casa. L’autopsia ha rivelato che l’ex soldato era affetto da una malformazione celebrale nota come encefalopatia traumatica cronica, alterazione del cervello che si riscontra nei pugili o in altri atleti che subiscono traumi continui al cranio. Le botte producono una lesione del lobo frontale e temporale che deteriora la capacità di autocontrollo e giudizio, la memoria e altre funzioni fondamentali. L’ipotesi è che dietro il fenomeno psicologico ed emotivo si affaccino cause fisiche ben precise. Potrebbe essere un passo in più per decifrare il mistero dei migliaia di giovani come Ostrom che faticano drammaticamente a ricucire la trama della propria vita una volta tornati dal fronte.
Il blog del New York Times «At war» raccoglie le storie dei soldati al fronte e di quelli già tornati. Come Kyle Dubay, 28anni e tre turni in Iraq sulle spalle. Si è rivolto alle arti marziali per sconfiggere la «palla di fuoco», una forza oscura che opprime il petto «e preme sullo stomaco. Rende difficile il respiro, la senti che si diffonde sui fianchi, penetra nelle braccia e nelle dita. Tutto è teso e pieno di rabbia, hai solo voglia di urlare e di liberartene». Ogni soldato, spiega Dubay, «ha una "capienza" diversa, ma quando la misura è colma, è colma». Il problema non è se la guerra abbia lasciato conseguenze, ma qual è la soglia oltre la quale le conseguenze si manifestano.
L’America ha già visto questo fenomeno in forma devastante con i reduci del Vietnam, una generazione di coscritti che non è mai riuscita a venire a patti con quello che ha visto laggiù. Un quinto dei senzatetto americani è composto da veterani e non sono infrequenti gli episodi di violenza inspiegabile portati da ex soldati. Qualche anno fa Nicholas Horner, un veterano dell’Iraq originario di una cittadina della Pennsylvania, uccise una ragazza e ferì una donna sparando a casaccio in un negozio; appena uscito aveva visto un pensionato che usciva di casa per andare a controllare la posta nella cassetta in giardino e lo freddò con un colpo di fucile, senza movente. Non ci sono dubbi su chi sia l’autore degli omicidi, ma la madre di Horner ha detto: «È stato lui, però da quando è tornato dall’Iraq non è più lui». Ecco la sottile linea rossa che divide la vita di un veterano: da una parte c’è il combattente professionista che si è arruolato liberamente, sapendo bene, almeno sulla carta, ciò a cui sarebbe andato incontro. Dall’altra c’è un uomo fragile che dopo la missione deve raccogliere i cocci di un’identità andata in frantumi.