Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  febbraio 22 Venerdì calendario

ORA IL MERCATO NON FA SCONTI


«Tutto ciò che sale prima o poi deve scendere». Quando le Borse crollano all’improvviso e gli analisti non sanno spiegarne il motivo, è la legge di Newton a fornire loro soccorso: le azioni non sono altro che un grave, e come tutti i gravi che non hanno spinta propria sono destinate prima poi a cadere verso terra. La spinta verso l’alto, nella fisica dei mercati, la forniscono liquidità e propensione al rischio, mentre la spinta di gravità altro non è che il realismo della ragione: quando il mercato si accorge che i fondamentali economici, industriali e finanziari di un Paese non sono tali da sostenere valutazioni troppo alte degli indici e dei titoli di Borsa, ogni occasione diventa buona per correggere la rotta e ridurre il rischio di danni ancora maggiori. Un discorso analogo, come dimostra l’andamento dei BTp, dei Bonos spagnoli e dello spread sui Bund tedeschi, si può applicare anche al debito sovrano: per essere sostenibile nel lungo-medio periodo, la chiusura della forbice dei tassi non può contare solo sulla spinta liquidità o del rischio, ma su fattori più solidi e concreti, non solo macroeconomici ma anche politici. Se non ci sono tali condizioni, il mercato di Borsa cade in balia della volatilità, mentre quello del debito segue la logica della ragione: ridurre i rischi per tornare su asset sicuri.
Ebbene, tutte queste caratteristiche, ragionamenti e attitudini del mercato sono alla base di quanto sta accadendo in questi giorni: la diffusione di dati economici americani negativi, le incertezze sulle manovre delle banche centrali, la conferma che l’Eurozona sta uscendo dalla crisi non in modo uniforme ma a macchia di leopardo e soprattutto le indicazioni inconfutabili che la vera preoccupazione dei mercati non sono oggi le banche, ma la crisi dell’industria manifatturiera e la mancanza di vere strategie di stimolo alla crescita, hanno fornito ai trader di Borsa la migliore occasione possibile per togliere denaro dal tavolo del rischio e riposizionarlo sulla sicurezza dei titoli di Stato americani, tedeschi e più in generale del debito a "doppia A" (le triple A sono ormai in via di estinzione). Anche senza ricorrere ai precedenti storici, gli eventi degli ultimi quattro giorni sono sufficientemente indicativi.
Negli Usa, dove i tassi di interesse restano ai minimi storici non per i fondamentali macroeconomici della nazione ma per la fiducia "geopolitica" che i mercati continuano a riporre sulla superpotenza americana, la liquidità che aveva spinto martedì l’indice Standard & Poor’s 500 al massimo degli ultimi 5 anni, la notizia dei «dubbi della Fed» sulla prosecuzione del programma di liquidità per le banche attraverso il riacquisto dei bond ha dato il destro ai trader per provocare la seconda peggiore caduta dell’anno per Wall Street, che ieri ha proseguito la correzione sfruttando i dati economici negativi sull’occupazione e sull’industria manifatturiera americana. A questo proposito, è da notare che se da un lato le ansie sulla Fed e sulla liquidità sono passate ieri in secondo piano, a tenere banco e a preoccupare davvero gli operatori sono stati proprio i dati sul passo asfittico della ripresa industriale: se le imprese non crescono, non solo non assumono, ma non fanno neppure quei profitti che fanno da base alle valutazioni dei titoli. Su questa equazione, il fattore liquidità è del tutto ininfluente: mentre Wall Street cadeva, i titoli decennali americani registravano il miglior progresso degli ultimi mesi. In questo senso, il messaggio alla Casa Bianca è chiarissimo: la fiducia sul debito resta, ma senza crescita economica a pagare il conto della crisi resta solo la Borsa.
E l’Europa? Il discorso può essere analogo, visto che anche qui le Borse erano cresciute troppo velocemente (l’indice inglese Ftse 100 è salito martedì a quota 6.400 per la prima volta dal gennaio 2008) rispetto al passo della ripresa economica e soprattutto della crisi che ancora incombe sui Paesi periferici dell’Eurozona come l’Italia e la Spagna. Risultato: il tonfo registrato ieri dall’indice manifatturiero dell’Eurozona ha provocato una caduta generalizzata delle Borse europee, ma scelte molto selettive sul mercato del debito, dove invece i fattori politici e macroeconomici pesano di più. Faceva una certa impressione guardare ieri la tabellino internazionale dei tassi: a pagare la seduta nera dei mercati sono state soltanto l’Italia e, in misura molto minore, la Spagna: il T-bond decennale Usa ha guadagnato quasi l’1,8%, il Bund tedesco il 4,5%, il Gilt inglese il 4,3%, mentre i BTp hanno subito un rialzo dei tassi di circa l’1,56% e il Bonos spagnolo dello 0,32%. Che significa tutto ciò? Che il mercato, tornando a far prevalere la ragione, ha colpito in modo più o meno equivalente le piazze azionarie ritenute economicamente e politicamente più affidabili, ma ha letteralmente bastonato quelle che presentano i maggiori rischi economici, industriali e di instabilità politica come è oggi percepita l’Italia. Non solo Piazza Affari ha perso più di ogni altra Borsa europea, ma i tassi dei nostri titoli di Stato a 2 anni sono saliti di ben 8 punti base all’1,7% dopo aver toccato addirittura l’1,73%, il livello più alto dal 12 febbraio scorso. E questo trend potrebbe continuare: ieri gli operatori raccomandavano di vendere BTp a 10 anni per comprare Bonos spagnoli a 10 anni, contando sul fatto che lo spread tra i due titoli è destinato a stringersi dagli attuali 75 punti base a meno di 50 in conseguenza di un crescente rischio-Italia. Oltre al caos e alla demagogia pre-elettorale, gli operatori temono infatti una situazione di stallo politico prolungato e di una conseguente ingovernabilità in grado di bloccare il passo delle riforme.
Anche in questo senso, il messaggio dei mercati è ancora una volta chiarissimo: gli sconti per l’Italia sono finiti, le variabili indipendenti non sono più tollerate. Se il Paese non si rimette rapidamente sulla giusta carreggiata con programmi di risanamento dei conti pubblici, riforme strutturali e soprattutto con politiche industriali in grado di indirizzare il credito e gli investimenti, neppure l’ombrello dell’euro, dell’Europa e della Bce sarà più in grado di proteggere il Paese dalla sfiducia dei partner e dalla diffidenza dei mercati. Dalla speculazione ci si difende non con la liquidità a prestito, ma con la credibilità e l’affidabilità internazionale della classe dirigente. Alessandro Plateroti