Sergio Cantone, Il Venerdì 22/2/2013, 22 febbraio 2013
FIAT SERBIA COSì MARCHIONNE CERCA FUTURO ALLA FIERA DELL’EST
KRAGUJEVAC (Serbia) Mi smo ono sto stvaramo, noi siamo quello che facciamo. La scritta domina la facciata dello stabilimento Fiat in Serbia. È in caratteri latini e marca il territorio della Fabbrica italiana automobili Torino nei Balcani. Anche qui, come oltreoceano, la leadership di Sergio Marchionne gioca la carta globale. Espansione, delocalizzazione o entrambe le cose? Chi ci guadagna, chi ci perde? Vediamo che succede a Kragujevac, dove è stata da poco ampliata la fabbrica inaugurata nel 2008 sulle fondamenta di Zastava, il costruttore di auto della vecchia Jugoslavia socialista. In omaggio al carattere «internazionalista»(del capitale transfrontaliero), tre bandiere completano la scenografia. C’è quella serba, un italianissimo tricolore e, infine quella con il logo Fiat. Eccoci dunque in una delle teste di ponte in Europa (Italia esclusa) della nuova Fiat globale.Qualche vecchio marxista, con senso dell’autoironia, potrebbe definire questo processo «internazionalizzazione dei mezzi di produzione». La periferia di Kragujevac è imbiancata da una recente nevicata. Ma non fa molto freddo. Passeggiamo davanti all’ingresso della fabbrica. I dipendenti iniziano il turno. Attraversano con aria tranquilla i controlli ai cancelli, timbrano il cartellino. Dall’apprendista operaio al dirigente, indossano tutti la stessa tuta grigio chiaro, con sfumature azzurre: «Da un’aria sportiva senza far pensare alle distinzioni tra colletti bianchi e blu» commenta la nostra guida locale. Ci fermiamo a parlare con due metalmeccanici, sono padre e figlio, Goran e Aleksandar Ostqjic, rispettivamente quarantadue e vent’anni. Alla domanda Come vi trovate a lavorare per Fiat? il padre volge leggermente il capoverso lo stabilimento e accenna una leggera risata: «Ho cominciato come apprendista alla catena di montaggio automobili Zastava nel 1989, era tutto vecchio», Ricorda i tempi dell’embargo durante le guerre di smembramento della Jugoslavia: «Quando il termometro andava sotto zero, lavoravamo con temperature tra i due e i tre gradi, non avevamo pezzi di ricambio e ci organizzavamo come potevamo. Mancavano gli attrezzi, si faceva tutto a mano. I bagni facevano schifo. Era terribile». E conclude: «Arrivata Fiat, tutto è cambiato. Rispetto a quei tempi, le condizioni sono da sogno».Goran Ostajic, però, è uno dei pochi fortunati ad avere conservato il suo posto di lavoro. Con l’automatizzazione della produzione e i robot, i dipendenti sono scesi dai 25mila della Zastava a circa duemila. D figlio ricorda vagamente queitempi e si limita a dire: «Sono contento di lavorare qui, posso pensare al mio futuro», con un ottimismo che per noi suona un po’ fuori posto. Li ritroviamo mezz’ora dopo alla linea di produzione; padre e figlio fianco a fianco nel reparto lastratura maneggiano dei grossi saldatori sospesi al soffitto con cavi elastici. Proviamo ad afferrarne uno, è leggero. Domandiamo a quanto ammonta il loro salario, ma preferiscono non dirlo. Le informazioni le otteniamo dal sindacato. Il leader Zoran Markovic ci aspetta fuori, di fronte a quel che resta delle vecchie officine in stile architettonico neoclassico. Dice:«Adesso c’è la sicurezza contro gli infortuni e l’ambiente lavorativo è umanamente gradevole». Gli chiediamo se gli operai vivono il loro lavoro come alienante. Per tutta risposta, Markovic enfatizza la recente vittoria nel negoziato sui turni:«Avremmo dovuto cominciare a gennaio con tre turni di otto ore. Ma abbiamo accettato, solo temporaneamente per completare due aree di produzione di un modello per gli Usa, di lavorare dieci ore al giorno su due turni. Il direttore generale si è impegnato ad applicare raccordo appena inizieremo a produrre un nuovo modello per il mercato americano».
E i salari? Circa ottomila euro lordi all’anno per le tute blu e 12 mila per i colletti bianchi. Con le tredicesime. Quindi Goran e Aleksandar Ostajic guadagnano fra 350 e 400 euro netti al mese. Uno stipendio leggermente superiore alla media serba. I sindacati serbi dicono di aver vinto una battaglia storica contro Fiat e di aver spuntato delle concessioni sull’orario di lavoro e un leggero aumento di salario. Ma un dirigente Fiat afferma che si è trattata di una mossa propagandistica. Secondo il manager, infatti, i sindacati hanno lanciato con la grancassa le loro rivendicazioni non appena l’azienda si è impegnata ad accogliere le richieste. Secondo il dirigente Fiat, comunque, anche in Serbia i sindacati fanno la loro parte: «Non siamo qui per avere relazioni industriali meno sofisticate e stipendi più bassi, ma perché abbiamo altri vantaggi di carattere strategico». Quali? Il sindacalista spiega che Fiat opera in regime di esenzione fiscale per l’importazione dei beni e servizi necessari alla produzione. Può quindi assemblare le auto senza pagare le tasse sui pezzi provenienti da stabilimenti in altri Paesi. Quella che un tempo era la catena di montaggio ora è chiamata linea di produzione. E qui, assicura il nostro sherpa Fiat made in ex Yugoslavia, «si stanno fabbricando le 500 sette posti per il mercato d’oltreoceano», e nell’area dove vengono assemblate è vietato fermarsi a sbirciare. Tutto è quasi completamente automatizzato, a tal punto che l’uomo sembra accessorio rispetto alle macchine. Gli operai curano finiture e dettagli. Ma il grosso dell’assemblaggio lo fanno i robot. Bracci meccanici con mani a forma di tenaglia montano le carrozzerie a ritmi regolari. Sembrano quasi vivi. Sono le «cyber tute blu» di Comau, un’azienda del gruppo Fiat che è tra i due più grandi produttori ed esportatori mondiali di questi macchinari intelligenti. All’uscita dalla fabbrica qualcuno ci mostra in punto in cui «sorgevano le storiche officine Zastava», o meglio Crvena Zastava, Bandiera rossa. La fabbrica che motorizzò la Jugoslavia socialista di Tito, poi quella post Tito, quindi quella dell’era Milosevic e anche quella della transizione postbellica dei primi anni 2000. Auto storiche, per chi ha più di quarant’anni, e ricorda le vecchie utilitarie simil Fiat 600 e 128, le mitiche Yugo, intraviste durante qualche vacanza sulla costa dalmata. Giù allora la Fiat era presente in questa zona, le quattro ruote del socialismo autogestito venivano prodotte su sua licenza, come le Lada sovietiche di Togliattigrad, le 126 Polsky Fiat, in Polonia, e le Seat della Spagna franchista e postfranchista. Da queste parti quel modello produttivo sopravvisse qualche anno al crollo del socialismo reale e perfino alle bombe «intelligenti» della Nato. Le «gloriose» officine Zastava vennero colpite nel 1999 durante la guerra del Kosovo: «Giusto accanto alle catene di montaggio delle auto fabbricavano armi, forse pensavano che i satelliti dell’Alleanza atlantica non avrebbero visto nulla» aggiunge un dipendente Fiat con sarcasmo verso il regime di Milosevic. Perché Zastava era ed è anche Oruzhje, cioè Zastava Armi. E fu uno dei principali polmoni finanziari della Jugoslavia non allineata di Tito. Armi prodotte su licenza sovietica, occidentale o su progetto locale che rifornivano guerre e guerriglie del terzo mondo e della decolonizzazione. Fu la prima fabbrica di una certa importanza del Regno di Serbia, che nel 1853 quando fu creata fondeva acciaio per le bocche da fuoco delle guerre balcaniche. La produzione e l’export di armi continua anche oggi con il marchio Zastava, e nulla hanno a che vedere con Fiat. Passeggiamo per la città di Kragujevac. Città martire, dove i nazisti perpetrarono uno dei peggiori massacri ai danni della popolazione Serba. Fino alla fine degli anni Settanta questa città era vietata ai cittadini tedeschi. «Kragujevac era un simbolo per la nazione, una zona contadina legata alla monarchia, da qui venivano molti cetnici» (formazioni militari antitedesche nella Jugoslavia occupata) spiega orgogliosa Ivana, una giornalista serba che incontriamo nel centro della città.
«Ecco perché il regime di Tito ci ha imposto questa fabbrica di automobili, per rompere i legami tradizionali del nostro popolo». E con la Fiat, come va?«Meglio direi, è tutta un’altra cosa. E poi sono passati tanti anni». Kragujevac e i suoi cittadini sono ben contenti dalla presenza dello stabilimento di automobili che, dice il titolare di una piccola impresa di pulizie, «ha avuto anche il merito di rivitalizzare l’indotto in tutta la zona». Dall’altra parte dell’Adriatico, in Italia, molti pensano che sia tutta ricchezza che se ne va dall’Italia, per pagare il lavoro a prezzi di saldo. Ma tra questi operai che finalmente hanno uno stipendio di tutto rispetto per i metri locali, condizioni di lavoro assai migliori di quelle conosciute finora e una nuova speranza di benessere, nessuno si pone questo problema. Il gruppo automobilistico, certo,giura che non lascerà mai la culla italica, che quella che abbiamo di fronte è «una scelta strategica» per conquistare o riposizionarsi su nuovi mercati. Nel caso della Serbia, però, non si pensa solo al pur attraente bacino dell’Europa centro orientale. Le 500L sfornate dalle officine di Kragujevac sono destinate anche al mercato americano. «Avremmo potuto produrle in Italia!» dice un militante della Fiom. E sembra davvero molto difficile per lui bersi la faccenda dell’espansione senza delocalizzazione.