Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  febbraio 22 Venerdì calendario

COSA NOSTRA NON C’È PIÙ? IO LA INCONTRO OGNI GIORNO

PALERMO. La prima volta che incontrai Rosario Crocetta, nel 2004, era sindaco di Gela, la città del petrolchimico e della stidda, una mafia sanguinaria e arcaica. In un’intercettazione telefonica uno dei boss locali si era lamentato dell’elezione di un «comunista finocchio», facendo intendere al suo interlocutore che bisognava liberarsene. Crocetta, allora, era effettivamente comunista (dei Comunisti italiani di Diliberto) ne ha mai negato di essere gay. Ma la faccenda che davvero lo metteva in difficoltà era la sua attività antimafia.
«Ricordo» dice adesso «che arrivavo in consiglio e contavo quanti consiglieri c’erano di Cosa nostra e della stidda. Se qualcuno era malato o s’era assentato per fatti suoi, c’erano più probabilità che le delibere passassero». Per strada la gente di Gela gli sorrideva, anche se le sue finestre di casa erano coperte di nero per non far sapere se c’era o no e si muoveva con una scorta vistosa. Ci vedemmo al ristorante, dove doveva incontrare don Ciotti, e complessivamente contai sei macchine della polizia.
Rieletto con il 65 per cento dei voti, Crocetta nel 2008 passa al Pd e l’anno successivo prende 150 mila preferenze alle elezioni europee. Per tre anni finisce in quel buco nero di Bruxelles, dove gli italiani spariscono e vengono normalmente dimenticati. Poi ricompare come candidato unico del centrosinistra per le elezioni regionali, un passaggio da molti considerato un po’ misterioso. Da dove usciva questa candidatura?
Lui, a cento giorni dall’insediamento a Palazzo d’Orleans e alla vigilia delle elezioni politiche, oggi la spiega così: «A luglio del 2012 vidi su facebook un gruppo Per Crocetta Presidente. Mi fece sorridere. Ma in poco tempo il gruppo aveva 830 iscritti... Pensai: ma questi che vogliono? Fare incazzare il Pd? In una settimana erano ventimila e in rete cominciavano a girare sondaggi on line che mi davano sempre per vincitore. Ad agosto erano 35 mila, e a questo punto ci comincio a credere anch’io. Mi candido».
Con l’appoggio di Pd e Udc. Lei che era comunista... «Prima mi contattò l’Udc, se è per questo. Credo che, venendo dal caso Cuffaro, avessero bisogno di voltare pagina. Mi dissi: anche nella Dc erano Lima e Ciancimino, e Berlinguer voleva lo stesso il compromesso storico. E poi tutti dimenticano che l’Udc siciliana s’è spaccata: i cuffariani nel Pid, gli altri con Casini. Una scelta. Poi arrivò il Pd, e gli altri. Neppure vollero le primarie, che pure io chiedevo».
Crocetta vince. Ma vota il 47 per cento dei siciliani. Il Pdl del 61 a zero (2001)scompare. Si disse che la mafia s’era astenuta. E ora, alle politiche, si asterrà? Crocetta si arrabbia: «La mafia non si astiene mai. È come quelli che ricominciano a dire che la mafia non e’è più. Io la vedo ogni giorno, ogni ora, qui in Regione. La mafia è il sistema. E se hanno permesso che fossi eletto io vuoi dire solo che sono in fase subacquea. Sono invisibili, a occhio nudo. Hanno meno potere di condizionare il voto perché, con la crisi, offrire posti di lavoro non si può più. Non ce ne sono. Sono meno credibili, tant’è vero che l’astensione è stata massima nei quartieri popolari, dove avevano più presa. Senza nulla in cambio la gente, lì, è rimasta a casa».
La mafia è intorno a noi, dice Crocetta (e infatti davanti a Palazzo d’Orleans ci sono due autoblindo, quattro pantere e una ventina di agenti, così che sembra più Beirut che Palermo). «Crediamo che sia fuori e invece è qui: dentro. Fra noi, nelle amministrazioni, negli uffici dello Stato. Io sono l’antiStato» sussurra con civetteria.
E ora che Casini, alle politiche, è avversario? «Sostiene Casini che dobbiamo passare dalle parole ai fatti...» ride Crocetta. Il politico siciliano alla Crocetta, e qualcuno come lui c’è stato, sa bene me lo disse in quei giorni a Gela «che chi rischia deve continuare a denunciare e fare nomi e cognomi. Dicono che sono protagonista. Io rispondo che parlare è la mia assicurazione sulla vita, l’unico modo per proteggersi».
In effetti, che è protagonista, a Palermo lo dicono in tanti. Anche gli amici, chi l’ha votato. Un gruppo di intellettuali palermitani che incontro ha da ridire, per esempio, su alcune scelte che ha fatto e che sanno di «politica spettacolo». Battiato alla Cultura («e che ci trase?») e, peggio, il professar Antonino Zichichi ai Beni culturali.
Lo dico a Crocetta. Lui canticchia, direi sull’aria di Mi sono innamorato di tè di Luigi Tenco, «perché ho chiesto a Zichichi? Perché non avevo niente da fare...». Poi sorride: «Lei non sa che cosa abbiamo rischiato, altro che Zichichi. Lui viene poco, è vero, e parla di Archimede in assemblea. Però non fa affari». Che vuoi dire: sa che abbiamo rischiato?«Vuoi dire che cosa abbiamo rischiato con le pressioni dei partiti».
Gli intellettuali, che sono bene informati, mi dicono che lui usa il metodo Crocetta: un nome popolare all’assessorato, circondato da gente «sua». Lo dico a Crocetta: «È vero. E che sono, scemo? Sennò la tentazione di farsi i cazzi propri può venire a tutti».
Lui è cattolico, anzi cattolicissimo. Devoto della Madonna delle lacrime di Siracusa (come Cuffaro). Così apre il Vangelo: «Semplici come le colombe, astuti come i serpenti. Non sono qui per farmi fottere, io voglio governare la Sicilia».
E allora, i fatti che chiede Casini? E Crocetta spiega che, ogni giorno, c’è un fatto nuovo. Ogni volta che mette le mani da qualche parte trova il sistema, un sistema a prova di bomba. «Ma io lo faccio saltare». Gli esempi li mette in fila con un altro sorriso. Ha messo mano alla Formazione professionale, un settore regionale che da lavoro a 15 mila persone, più di quelle che aiuta a trovare lavoro. Che ha fatto? Ha spostato quasi tutti. Un pogrom. «Mi dicono che sono un dittatore sanguinario, ma io so che ci sono indagini della magistratura là dentro e che bisogna voltare pagina. Le dico solo questo: tempo fa mandarono dei controlli.Verdetto: tutto perfetto. E due parenti dei controllori assunti. Questo è il sistema. Gli appalti? Li danno direttamente ai parenti degli appaltatori, dei funzionari, e i soldi finiscono sui loro conti correnti. Ho sollevato dirigenti, rotto il sistema dove si può».
Mi racconta la storia simbolo dei pannoloni d’oro: «Scopro che c’è una gara da 41 milioni di euro per acquistare pannoloni per gli ospedali. Che è successo? I siciliani hanno tutti problemi digestivi? C’è il colera? Un pacco di pannoloni costa tre euro e 50 al pubblico. Quanti ne servono per fare 41 milioni?».
«La faccio ridere? La Regione pagava 500 mila euro all’anno per l’affitto degli uccelli rari che stanno nel magnifico giardino che vede qui fuori...». (In effetti è magnifico, sembra un giardino delle Mille e una notte). «I soldi andavano a tal Lauricella che aveva fornito i suddetti uccelli nel 1954, 59 anni fa. Mi informo:quanto dura un uccello? E scopro che sono passate generazioni e che li possiamo considerare serenamente autoctoni. E non pagare più l’affitto».
Ormai è difficile fermarlo, non e un caso se la sua lista alle politiche (in appoggio a Bersani, che ci conta molto) si chiama Megafono. Racconta che ha scoperto che i privati che «modernamente» avevano preso in concessione nel 1994 i servizi dei musei, con la società Nova Musa dalla biglietteria al bookshop si erano trattenuti 19 milioni che avrebbero dovuto dare alla Regione. «Io veramente ne ho accertati 41, ma credo siano ancora di più. Il signor Mercadante Gaetano, legale rappresentante di Nova Musa, è stato arrestato. E adesso tutti gli appalti si rifaranno».
Altri fatti? La società privata che si occupa dell’acqua ad Agrigento è «praticamente fallita». E tuttavia assume 50 persone. Tra questi ci sarebbe anche il figlio di un importante amministratore locale.«È la manciugghia!» urla Crocetta. Sarebbe una ruberia miserabile, ma pervicace.
E la mafia? Questa è corruzione comune! «Sì, se non fosse che un funzionario di una Asl di Palermo che aveva denunciato queste ruberie, esce una sera e viene accoltellato. Per rapina: che cosa gli hanno rubato? La borsa, non i soldi. La borsa dei documenti». E se non fosse che vige in Sicilia la famosa autorizzazione antimafia. Senza la quale non si potrebbe lavorare con gli enti pubblici. E ce n’è una detta «atipica», che indica solo un forte sospetto. Qui l’ente può decidere di tenerne conto o no. «Finora le atipiehe erano escluse. Con me sono tutti fuori, tipici o atipici. Possono esserci errori? Sì, ma nessuno ha scritto che questi devono lavorare con gli enti pubblici».
La mafia, dice Crocetta, c’è eccome. Ma e illeggibile se non la vuoi leggere. «La mafia è il passato che t’insegue». Bisogna fuggire. «E la borghesia siciliana, che certo non è di sinistra, è affascinata dall’ipotesi che si possa rompere questo equilibrio. Devo lasciarli agli altri? Devo far vincere l’ideologia? No: voglio governare la Sicilia».
Per la verità Crocetta, partito con una maggioranza minoranza (39 consiglieri su 90), ora sta a 46, con tanti transfughi del centrodestra. «Non gliel’ho chiesto io. Votano con me. Anche quelli di Grillo hanno votato alcune cose con me, come il bilancio di previsione. Devo lasciare anche questi agli altri? Se sento puzza di bruciato li metto fuori. Ho chiesto di dichiarare se ci sono conflitti di interesse in Regione. Pochi hanno ammesso, piccole cose: un figlio, una moglie. Le cose grosse le dobbiamo trovare noi. E chi ha mentito è fuori».
Sanguinario. Ma pure capace di mediazione. Ai laboratori privati che ai tempi di Cuffaro facevano affari d’oro con la Regione, Crocetta ha chiesto indietro soldi indebitamente incassati. E questo della Sanità non è un buco nero, è una voragine. A guardare nella voragine ora c’è l’ex funzionario dell’assessorato Lucia Borsellino, figlia di Paolo. È diventata assessore. Il cognome incoraggia.
Insisto: ma che bisogno c’era di Battiato, Zichichi... dicono che ha fatto come Caligola. «No, Galigola no. Semmai Eliogabalo».