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 2013  febbraio 21 Giovedì calendario

STUPORE E OBBEDIENZA. LA TRINCEA ROCCIOSA DELLA «NOBILTA’ NERA»

«Noi siamo la trincea rocciosa del Papa dai tempi di Carlo Magno. I papi si servono, ce l’hanno insegnato fin da bambini. Nessuno nell’aristocrazia romana può pensare di discutere l’atto di Benedetto XVI o di un qualunque Papa: anche se è un Papa dimissionario...». Il principe «Lillìo» Sforza Marescotti Ruspoli misura le parole, circondato dai ritratti degli avi, nel palazzo omonimo che si affaccia su Largo Goldoni e via del Corso. C’è una fotografia con dedica alla «Diletta figlia, principessa...» firmata da Pio X, anno 1908. E un’altra di Pio XII al «Diletto figlio, principe...», del 1948. Ma quelli sono i contemporanei. In attesa di una colazione al Circolo della caccia, il nobile mostra con orgoglio un quadro che farebbe venire l’acquolina in bocca a qualunque collezionista globale. Occupa un’intera parete e raffigura il reggimento Ruspoli che nel 1703 si presenta a Clemente XI per difendere i confini dello Stato Pontificio.
Se qualcuno è assalito dai dubbi sulla decisione di Benedetto XVI di «abdicare», per rinfrancarsi può venire qui; o in un altro dei sontuosi palazzi romani dove i saloni si inseguono a perdita d’occhio fra «Mori» orlati d’oro, arazzi e tendaggi pesanti, sotto soffitti altissimi. Sono le dimore avite di quella «nobiltà nera» chiamata così perché rimase fedele al pontificato anche dopo la conquista di Roma da parte dei Savoia nel 1870, continuando a indossare gli abiti di corte sempre neri, appunto; e, in qualche caso, chiudendo i portoni dei suoi palazzi in segno di lutto per quella che il principe Ruspoli definisce ancora oggi l’«aggressione armata alla Città Santa». E’ un universo ristretto, chiuso, in generale diffidente nei confronti della modernità. Ma, pur avendo perso influenza e ricchezza, almeno rispetto al passato di quattrocento anni fa, rappresenta lo «zoccolo duro» papista che resiste all’«abdicazione» del Papa Re con la fede incrollabile di chi misura la storia in secoli; e che non ha intenzione di perdere la propria identità, qualunque cosa accada.
I Colonna, i Ruspoli, i Borghese, i Torlonia, gli Odescalchi, i Chigi, i Lancellotti, gli Orsini, per citarne alcuni: sono un piccolo mondo antico sparpagliato in sontuosi edifici rinascimentali e barocchi. Diviso da destini, status e vicissitudini diversi. Eppure unito nello stupore e insieme nell’ubbidienza di fronte a quello che «donna» Alessandra Borghese, principessa romana, scrittrice e cattolica tradizionalista, ammiratrice anche adesso di Benedetto XVI, chiama «il fatidico 11 febbraio 2013». Il comunicato diramato in quelle ore dal Circolo di San Pietro, papalino dalla fondazione nel 1849, riflette bene un riflesso aristocratico degno di chi è abituato a sforzarsi di controllare le emozioni. «Mentre stiamo inviando ai nostri soci questa Newsletter ci giunge improvvisa la notizia» si legge, «che il pontificato di papa Benedetto XVI si chiuderà il 28 febbraio». Non una parola in più a commento: solo, a seguire, le quattro righe storiche dell’annuncio di Ratzinger.
In realtà quel giorno ha segnato uno spartiacque profondo, traumatico, quasi insondabile. E mentre osserva il suo anello d’oro con l’immagine della Madonna di Lourdes e accanto il suo ultimo libro «La Padrona», che racconta la storia di una donna romana del Seicento, la principessa Borghese torna a quelle ore. «Io sono devota del Papa, e sto comunque con lui. Ma l’11 febbraio ho provato una scossa interiore, non potevo pensare che fosse successo. Mi sono chiesta: e adesso ne avremo due, di Papi? Come si chiamerà Benedetto XVI? Papa emerito? Oppure "già Sommo pontefice"? E come si vestirà? Parlerà ancora? Era chiaro fin da quel momento il paradosso di un gesto gravissimo, grandioso, umilissimo. Ma era netto anche il grande smarrimento che tutto questo provocava, dentro e fuori dalla Chiesa». «Lillìo» Ruspoli ammette che si mise subito a telefonare agli altri rappresentanti dell’aristocrazia papista romana per scambiare le prime idee sul da farsi.
Ma lo sapevano già tutti, che cosa fare. «Non commentiamo, ci siamo detti: ubbidiamo», sintetizza il principe Ruspoli. Stringersi intorno al «Papa Re» dimissionario, e accettarne la scelta, per quanto dolorosa. «Perché sorprendersi? Queste famiglie hanno dato alla Chiesa santi, cardinali, papi», spiega «don Lillìo». «Il Papa è infallibile sulle questioni riferite ai dogmi. Ma noi accettiamo con venerazione, rispetto, affetto e obbedienza qualsiasi decisione da Lui presa. Specie se è prevista dal Codice canonico. E poi, non è la prima volta nella storia del papato». Il fatto che l’ultima sia stata secoli prima sembrerebbe un dettaglio. Insomma, in apparenza le dimissioni non hanno incrinato una fedeltà temprata dai secoli, perché rappresenta la vera identità di queste schiatte che appaiono poco ma popolano le istituzioni e gli enti caritativi legati alla Santa Sede.
Non smentendo la fama di aristocratico cortese e schivo, forse il più riservato della comunità capitolina, il principe Prospero Colonna lascia arrivare dal suo palazzo di piazza SS. Apostoli, proprio in faccia a quello degli Odescalchi, una email che esprime la sua modestia e l’ammirazione immutata per Benedetto XVI. Non vuole parlare di questa stagione della storia della Chiesa. Si limita a far sapere che, «ove possa essere di un qualche interesse, ho accolto il gesto del Santo Padre con massimo rispetto e comprensione. Ritengo», scrive Prospero Colonna, tra l’altro «maggiordomo di Sua Santità», «che sia stato un atto di profonda umiltà e coraggio da parte di un grande Papa dei nostri tempi». Sono parole fiduciose, gonfie di un ottimismo difficile da trovare nelle bolle velenose che si gonfiano nei paraggi del Vaticano e annunciano un Conclave difficile e incerto. Eppure «la Chiesa trionferà, sempre», scolpisce Ruspoli, coetaneo del papa. «Io credo negli angeli, negli arcangeli e nei santi. E credo che le dimissioni di Benedetto XVI siano state date per il bene della Chiesa».
Il principe vede il futuro di Ratzinger come quello di «un grande monaco che ha gettato i semi per permettere al successore di realizzare una grande Europa, dall’Atlantico alla Mongolia. E sarà scelto dallo Spirito Santo, non dai carrieristi». È una trincea di parole blindate, che non ammettono dubbi; e forse rivelano l’oscuro timore che gli interrogativi e i dubbi si moltiplichino, incontrollati. Ma la principessa Borghese qualche riflessione se la impone: lo ritiene inevitabile. «Ammetto che mi spaventa un po’ l’idea che la sacralità della figura papale possa essere toccata. Comprendo e rispetto il fatto che il Pontefice si possa dimettere per motivi che sono suoi personali e riguardano il rapporto con Dio. Ma non vorrei che magari sotto la pressione dei mass media diventasse di moda l’idea del Papa a termine, che va via a 75 o 80 anni come i cardinali. Per questo spero che il prossimo Papa rimetta la tiara sullo stemma. E poi mi chiedo: come faranno in questa situazione a trovare in Conclave 78 pareri favorevoli a una sola persona?».
Domanda cruciale. Anche se per il momento quella che ronza nelle orecchie della principessa Borghese è di un parroco romano. «Mi ha telefonato per chiedermi: "Che si fa il 28 febbraio, quando si dimette il Papa? Suoniamo le campane a morto, o togliamo il quadro dalla Chiesa?" Io gli ho risposto: Preghiamo. Celebriamo l’adorazione. Accompagniamo il commiato».
Massimo Franco