Marcello Sorgi, La Stampa 22/2/2013, 22 febbraio 2013
CRISPI, META’ ANDREOTTI E META’ BERLUSCONI
Metà Garibaldi, metà Mazzini. Ma anche, a guardarlo con occhi di oggi, metà Andreotti e metà Berlusconi. Questo era Crispi, l’ottocentesco primo presidente del Consiglio siciliano, entrato nella storia con una vita avventurosa, cosmopolita, in parte clandestina e in esilio. Ora che l’approfondita biografia di un giovane storico, Giorgio Scichilone, ce lo ripropone, nella bella collana «Siciliani» dell’editore Flaccovio ( Francesco Crispi , pp. 218, € 16), sembra incredibile che, per quanto straordinario, un leader politico vissuto ben due secoli fa possa essere riuscito in tante imprese, dai moti siciliani del ’48 alla spedizione dei Mille del ’60, e soprattutto alle molte rivoluzioni parlamentari del primo ventennio dello Stato unitario neonato: contro Depretis e contro Giolitti (e prima ancora contro Cavour), in un instancabile gioco di tessiture politiche che lo porteranno alla presidenza della Camera, e di lì al ministero dell’Interno, fino alla presidenza del Consiglio.
Nato da una famiglia di origini albanesi, anticlericale malgrado l’educazione ricevuta in seminario da uno zio vescovo, espulso da Cavour dopo i moti milanesi del ’53, si presenta da Giuseppe Mazzini a Londra, in esilio, nel ’55, e ne diventa il più stretto collaboratore. Di qui è a Parigi, e poi di nuovo in Italia per la partenza, dallo scoglio di
Quarto, della spedizione dei Mille, da lui fortemente voluta e organizzata insieme con Garibaldi. Ma quando gli chiedono se si senta più vicino al padre dell’idea repubblicana o al comandante delle camicie rosse, risponde sprezzante: «Io sono Crispi!».
È il tratto emergente, che diverrà ricorrente nella sua lunga vita, della caratteristica presunzione siciliana, che in Crispi si accompagnerà a un’inguaribile ambiguità e alla disinvoltura che gli consentirà di mollare Mazzini dopo l’unità d’Italia, in nome dell’affermazione che «la Monarchia unisce e la Repubblica divide», di essere anticlericale al punto da far erigere, tra le proteste della Curia, a Roma, la statua di Giordano Bruno in Campo de’ Fiori, e nel contempo trattare sottobanco con il Vaticano, e ancora di continuare a dichiararsi repubblicano accettando tuttavia il Collare dell’Annunziata, la prestigiosa onorificenza monarchica che faceva diventare cugini del Re, e di predicare con largo anticipo la «questione morale» pur restando invischiato in una serie di scandali dai quali, comunque, risorgerà.
La perizia nella manovra parlamentare, che fa di Crispi un antesignano di Andreotti, in un Parlamento che per molti versi anticipa l’instabilità e i vizi
della Prima Repubblica, lo porterà a non soccombere mai a tutte le sconfitte impostegli dai suoi avversari, si tratti di Cavour che lo costringe all’espatrio, del leader della Sinistra storica Depretis che lo esclude dal governo, o di Giolitti che approfitta della sua prima caduta.
Ma un’abilità ancora più grande - diversamente da Berlusconi nell’ «affaire» del bunga-bunga - Crispi sarà in grado di dimostrare nel superare tutti gli scandali che lo investono, anche nella vita privata: da quello, clamoroso, della bigamia, quando accanto alla moglie dell’epoca rivoluzionaria Rosalie Montmasson si scopre la giovane amante - e madre della figlia Giuseppina - Lina Barbagallo, e l’averle sposate entrambe, seppure in Paesi diversi, lo costringerà a dimettersi da ministro dell’Interno; a quello, di dimensioni enormi, della Banca Romana nell’89, che provoca la caduta del suo primo governo e porta allo scoperto una serie di lettere intime molto imbarazzanti di Lina ai suoi amanti. Basta uno di questi bigliettini a rivelare il tenore delle relazioni che la first lady intratteneva: «Prendimi, rompimi il c..., ma fammi godere».
Eppure risorgerà. Ultrasettantenne, un’età che al suo tempo contrassegnava la vecchiaia, riprenderà la guida del governo in un momento molto difficile, si lancerà nelle imprese coloniali, ma gli saranno fatali la sconfitta di Adua nel 1896 e la repressione durissima dei Fasci siciliani. La seconda, forse, più della prima: a riprova che un siciliano a cui tutto, o quasi, era stato concesso - grazie al carattere e alla forza di volontà eccezionali - non avrebbe mai dovuto commettere l’errore di prendersela con i suoi conterranei.