Giorgio Ferrari, Avvenire 22/2/2013, 22 febbraio 2013
IL PIREO NELLE MANI DEI CINESI
I cinesi fanno finta di non esserci. Invisibili, inaccessibili. Fa parte della loro strategia di marketing: colonizzare senza occupare il territorio e senza provocare reazioni di rigetto, comprare infrastrutture, servizi, sfruttarne le risorse, esportare dalla Cina tecnologia e standard e far fruttare al meglio l’investimento.
Se metti piede al Pireo, affollato di navigli, di navi da crociera, di grandi imbarcazioni da diporto, di navi cargo non ti accorgi di niente. Eppure c’è una sottile linea rossa che separa due mondi. Due mondi e due visioni del lavoro e del profitto che non andranno mai d’accordo: la prima dai contorni bruciacchiati di una lunga favola finita inaspettatamente male, la seconda con le insegne della Cosco, il gigante cinese della navigazione proprietà del governo di Pechino, che nel 2010 si è comprato metà del Pireo e da allora gestisce il traffico cargo sotto la guida di un personaggio schivo quanto a suo modo leggendario, il “capitano” Fu Cheng Qiu. Il suo ufficio modernissimo si affaccia sulle acque dell’Egeo, giusto sopra la giungla robotica di nastri trasportatori e di macchine che sollevano e impilano container, ma al posto di pagode e dragoni ci sono facsimili della Venere di Milo e calchi del corteo panatenaico del Partenone. «Qui – spiegano i suoi assistenti – si lavora giorno e notte. Anche il capitano lavora giorno e notte. Per questo non può riceverla».
Per 500 milioni di euro Pechino si è comprata metà del porto del Pireo facendolo presidiare da sette manager che governano un migliaio di addetti greci. «Una fortuna per loro – dicono alla Cosco – visto che rischiavano di essere lasciati per strada. Lei sa, vero, che il governo e gli armatori greci hanno tagliato in modo spietato stipendi e posti di lavoro? Poi siamo arrivati noi e abbiamo assunto mille persone. Come dice Sun Tsu, nel suo “L’arte della guerra“: “una volta colte, le opportunità si moltiplicano”».
Hanno ragione loro. Le cifre parlano da sé: da quando è arrivata la Cosco il traffico merci è passato da un milione a 3,7 milioni di container all’anno, il governo cinese ha speso quasi 400 milioni di dollari per modernizzare le infrastrutture e il Pireo, da sonnolento lembo portuale del Mezzogiorno d’Europa sta diventando una meta privilegiata per il naviglio commerciale che passano da Suez e principalmente per le esportazioni cinesi nel Vecchio Continente con un fortissimo potere di attrazione per tutte le compagnie di navigazione asiatiche. «Se fosse possibile – dicono gli uomini del Capitano – compreremmo tutto il Pireo…». Proviamo a riattraversare la sottile linea rossa, riguadagnando la zona greca. Qui, dove attraccano le grandi navi passeggeri che per decenni hanno fatto la fortuna degli armatori greci e da un po’ la rovina di migliaia di marittimi, il sogno nazionale di una vita vissuta sull’onda del debito si è spezzato malamente, lasciando cataste di tragedie civili e un grumo di inaccettabile ingiustizia: «Come quella degli armatori – dice Helios Panayotis, sindacalista molto conosciuto al porto, uno dei promotori dello sciopero generale di mercoledì scorso – che non pagano le imposte e da un po’ non elargiscono più neppure gli stipendi perché dicono che sono allo stremo. E il governo non osa fare e dire niente: gli armatori sono potentissimi, sanno di rappresentare il 16 per cento del Pil nazionale. Per questo sono intoccabili». La fiaba, il sogno, come abbiamo detto, si sono trasformati in un incubo. «C’era qualche marittimo che guadagnava anche 180mila euro all’anno – dice Panayotis – un girone di privilegi e di costi impossibile da sostenere, un po’ come per i vostri “camalli” genovesi, che alla fine è crollato. Oggi è tanto se si arriva a 25mila euro all’anno per un marittimo qualificato. Ma di là (e indica la zona cinese) hanno fatto strame delle conquiste sindacali, assumendo forza lavoro senza alcuna preparazione e senza tutele sanitarie e previdenziali adeguate. Gli danno 20-23 mila dollari all’anno e loro accettano, pur di avere un impiego, anche se il più delle volte è un impiego a tempo e si fa la fila per avere un incarico di due mesi lavorando il doppio delle ore. Così almeno adesso sanno come si lavora in Cina…».
Alla Cosco sorridono di fronte al mugugno sindacale. Nell’invisibile Chinatown del Pireo si citano le massime del capitano Fu Cheng Qiu come fossero quello di Mao: «I cinesi lavorano per guadagnare. I greci volevano guadagnare senza lavorare troppo. Così hanno speso soldi che non avevano. E adesso sono rovinati». E purtroppo è vero. Non si può non vederli, mentre ciondolano impigriti attorno al mercato coperto, attendendo sotto l’onnipresente pioggerellina il miracolo di un ingaggio temporaneo, incapaci di mettersi in coda e quindi pronti a una stanca lite da strada per un posto in fila davanti alla capitaneria. È una guerra fra poveri, come sempre accade quando si sfarina l’architettura sociale di un Paese, che non ha impedito tuttavia ai produttori di yogurt – ora diventati dipendenti di una multinazionale – di regalare 40mila vasetti ai bisognosi, invece di imbarcarli al Pireo per le ricche tavole europee. Solidarietà nella protesta. «Stiamo pagando il prezzo di colpe antiche», ripetono ormai da due anni i greci, e in fondo hanno ragione. Ma neppure nell’ora più buia riescono a rinunciare alla speranza: sì, hanno sbagliato, la colpa dei tanti governi scialacquatori è ereditaria e il castigo – lo sapeva bene Eschilo nell’Orestea – inesorabile. E anche adesso che la crisi ha morso i fianchi del sogno greco di un’eterna bengodi resta pur sempre l’illusione che le Erinni della Bce e del Fondo Monetario Internazionale si mutino – come per Oreste miracolosamente assolto da Apollo – nelle benigne Eumenidi. E questo vago sogno li aiuta un po’ a vivere.