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 2013  febbraio 22 Venerdì calendario

INTERREGNO I NOSTRI ESORCISMI PER NASCONDERE IL VUOTO DI POTERE

«I re dovrebbero essere immortali», dice il sovrano. E la regina gli risponde: «Hanno un’immortalità provvisoria». In questo scambio di battute tra Bérenger e Marguerite, i protagonisti de
Il re muore,
Eugène Ionesco fa lampeggiare il grande paradosso della sovranità. Sempre in bilico tra la perennità della carica e la possibilità della sua interruzione, tra l’immortalità del regno e la mortalità del re. Che resta la ferita inguaribile del potere, costitutivamente sospeso tra ordine e caos, come su una lama di coltello. Perché in ogni sistema politico, da quelli primitivi ai grandi stati moderni, il capo supremo è di fatto l’incarnazione della legge —
lex est in pectore regis.
Per la stessa ragione la sua debolezza e ancor più la sua morte rappresentano il vuoto che minaccia la società dall’interno, il cuore di tenebra della politica.
Tutte le società temono l’interregno e cercano di farlo durare il meno possibile. E anche il Vaticano oggi cerca di accelerare — attraverso l’annunciato
motu proprio
— i tempi dell’inedito limbo tra le dimissioni di un Papa e l’elezione del successore. Il trono vuoto è sempre stato un pericolo, tanto che in passato si è tentato di occultarlo simbolicamente, con riti e cerimonie che costituiscono, di fatto, veri e propri esorcismi istituzionali contro l’assenza di potere, contro la sospensione delle regole che, di fatto, fa ammalare il corpo sociale di una malattia mortale. Un re assente (morto o malato che sia) rende, come scrive Eliot, la Terra desolata.
Un tempo con il monarca, moriva anche la giustizia. Negli antichi reami africani della costa di Guinea alla notizia della morte del re ciascuno si precipitava a derubare il vicino di casa senza che nessuno avesse diritto di punirlo. Solo con l’incoronazione del successore l’ordine tornava a regnare.
E l’Europa delle grandi monarchie non era da meno. Anche se l’esplosione di violenza non era sempre cieca e a volte prendeva di mira gruppi etnici particolari. Come gli Ebrei. In Inghilterra il periodo che andava dalla morte del sovrano all’incoronazione del nuovo re era spesso l’occasione di un pogrom antisemita. Nei giorni dell’ascesa al trono di Riccardo I,
nel 1189, a Londra si scatenò un’autentica caccia all’ebreo, che le fonti dell’epoca chiamano già
holocaustum.
Lo racconta lo storico Sergio Bertelli in un bellissimo libro intitolato
Il corpo del re,
che è ormai un classico in materia di rituali del potere.
Gli antichi giuristi chiamavano l’interregno
justitium
proprio perché comportava la sospensione di tutte le attività giudiziarie. Di fatto era il solstizio della sovranità, un’interruzione angosciosa delle regole.
Per evitare che il vuoto di potere facesse precipitare la società nel caos oppure per avere il tempo di preparare la successione, si cercava di prolungare artificiosamente il commiato del morto allungando i tempi della sua definitiva uscita di scena. L’idea era che fino a che non fosse avvenuta la decomposizione del cadavere regale si dovessero ancora fare i conti con il corpo del re, o del pon-
tefice se si trattava di papi. E l’autorità non poteva essere trasmessa al suo successore. Come dire che la mano del defunto non ha più la forza di reggere lo scettro, ma non ha ancora lasciato la presa.
Addirittura in molte società si arrivava a costruire un simulacro del sovrano, di cera o di cuoio, che veniva messo nel suo letto e assistito come un ammalato grave. I medici visitavano continuamente il manichino e ne constatavano il peggioramento minuto per minuto. Fino a dichiararlo morto al momento opportuno. Nella Roma imperiale questo rito si chiamava
funus imaginarium,
ovvero funerale dell’immagine. E si concludeva con una processione solenne, con tanto di senatori e matrone. E con il rogo finale del fantoccio che veniva arso su una pira riempita di aromi e incensi che lo trasportavano in cielo tra gli dèi. Solo allora il re era vera-
mente morto.
Anche alla corte di Francia veniva apparecchiato un manichino somigliante al sovrano defunto ed esposto nella sala d’onore alla vista della corte. Che continuava ad offrigli i servizi dovuti alla sua maestà. Come la vestizione,
il pranzo, l’abluzione delle mani. E solo al momento del compimento della successione l’effigie usciva di scena.
Nel caso di quei particolari sovrani che erano i pontefici, la morte invece non poteva essere tenuta nascosta perché non c’erano
eredi al trono. La sospensione della legge era irrimediabilmente simboleggiata dalla rottura dell’anello piscatorio. E spesso — dal medioevo fino al 1600 — seguita da violenze e saccheggi che facevano di Roma una terra di nessuno. Nonostante i decreti pontifici cercassero di mettere un freno a rituali vandalici come l’assalto ai palazzi lateranensi, che seguiva ogni morte di papa, la dura legge dell’interregno non fece mai sconti al Vaticano.
Nel 1484, alla morte di Sisto IV il palazzo del nipote del papa fu distrutto dalla folla in tumulto. Spesso a dare inizio ai saccheggi erano addirittura parenti e vicini del papa defunto che, per così dire, se ne dividevano le spoglie con una certa animosità. E c’era anche il rituale della spoliazione violenta dei beni del nuovo eletto. Il caso più celebre è quello del raffinato umanista Enea Silvio Piccolomini, salito al soglio pontificio col nome di Pio II nel 1458. Non fece nemmeno in tempo a indossare la tiara che i cardinali suoi colleghi di conclave si precipitarono ad assaltare la sua cella per fare piazza pulita di ogni suo avere. In questi casi la violenza dilagava per le strade e arrivava alla distruzione del palazzo del neopapa. E quando nel 1559 morì Paolo IV, al secolo Gian Pietro Carafa, la plebe capitolina occupò il palazzo dell’Inquisizione e liberò tutti i prigionieri. Eretici compresi. A condizione però che giurassero fedeltà alla Chiesa.
Se l’interregno dunque fa entrare nel corpo sociale un virus dalla potenza incalcolabile, gli uomini si difendono da sempre ricorrendo all’arma del rituale. Che funziona come un anticorpo simbolico iniettato nelle vene della società. Per scongiurare la carica distruttiva del vuoto. Reincarnando la legge in un nuovo corpo. Come dire il re è morto, viva il re.