Giovanni Tizian e Fabio Tonacci, La Repubblica 22/2/2013, 22 febbraio 2013
LA RETE DEL VIDEOPOKER 200 MILA SLOT TRUCCATE NELLE MANI DELLE MAFIE
LA MAFIA assume ingegneri.
Cerca manodopera altamente qualificata. «Se io faccio l’acquisto — si raccomandava Nicola “Rocco” Femia con il titolare della Arcade srl, prima di rilevarla — gli ingegneri rimangono? ». È essenziale che rimangano, perché per infiltrare anche l’ultimo settore vergine della filiera delle slot machine — la produzione di schede elettroniche — servono persone che sappiano taroccarle, servono tecnici in grado di inserire congegni “abbattitori” per nascondere ai Monopoli di Stato le giocate reali. Macchinette illegali, dunque. Controllate e gestite dalle mafie che nella terza
industria del Paese, quella dei giochi che vale 100 miliardi di euro l’anno, hanno messo in piedi una sorta di “Monopolio ombra”.
La Direzione nazionale antimafia ha diffuso una stima allarmante: tra le 379mila new slot e le 40mila videolottery autorizzate, ce ne sarebbero almeno 200mila illegali. Clandestine perché scollegate dalla rete telematica, o perché contengono schede manomesse, o perché importate dall’estero senza essere registrate. Per i padrini valgono oro. «Generano un utile di 10 miliardi di euro all’anno », sostiene Diana De Martino, sostituto procuratore antimafia. Ma chi sono i sovrani delle slot abusive? Quali cosche controllano il mercato nero?
LE SCHEDE TAROCCATE
Nicola “Rocco” Femia trafficava con le schede elettroniche truccate, «quelle con le serigrafie belle, capisci a me!», diceva ai clienti. Il 23 gennaio scorso i finanzieri di Bologna lo arrestano, gli sequestrano un patrimonio da 90 milioni di euro e mettono i sigilli a 1.500 videolottery da lui distribuite in tutto il Nord e il Centro Italia. Un’armata di apparecchi, alcuni regolari, molti truccati, quasi tutti scollegati dalla rete e quindi invisibili al fisco.
Perché era questo il vantaggio di avere le slot di Femia, imprenditore «affiliato — si legge nell’ordinanza di arresto — alla cosca Mazzaferro di Marina di Gioiosa Jonica». Consentivano
di versare la metà delle tasse dovute ai Monopoli. Se ne sono accorti i periti ingaggiati dalla procura, quando hanno smontato due slot machine contraffatte dal boss calabrese e piazzate in due bar a Cerveteri e a Torino. «Su 33 euro inseriti — scrivono i tecnici — gli apparecchi ne conteggiano solo 15». Dunque, giocando mille euro, la scheda alterata con gli “abbattitori” comunica ai Monopoli poco meno di 500 euro. Solo su questi sono calcolate le tasse (13,5 per cento). Il resto è incasso in nero e liquido, diviso tra il titolare del locale e il noleggiatore. In questo caso ancora Femia. Un vero affare, che aveva un prezzo. «Il
mobile(
altro nome in codice per le schede taroccate,
ndr)
costa 2.000 euro e
qualcosa...», diceva Femia. Quelle omologate non superano gli 800 euro a pezzo.
IL NOLEGGIO CLANDESTINO
L’interesse delle mafie per le slot machine è cresciuto di pari passo a quello degli italiani. Solo nel 2012 la Guardia di Finanza ne ha sequestrate 2.600 illegali, i Monopoli per irregolarità varie ne hanno spente altre 1.400. «All’inizio i clan si accontentavano di estorcere ai noleggiatori — spiega De Martino — si prendevano la metà degli incassi. Poi sono passati alla gestione diretta delle slot nei territori da loro controllati ». Come? Infiltrandosi con prestanome e società di comodo tra i 4.000 noleggiatori iscritti all’albo. Sulle macchinette
sono stati fondati imperi commerciali malavitosi. E dove c’è un impero, c’è un imperatore.
Gioacchino Campolo in Calabria è un nome che conta. Ormai ha 74 anni, ma fino al 2011 è stato il padrone assoluto dei videopoker di Reggio Calabria. Poi è stato condannato in secondo grado a 16 anni di carcere per estorsione. Minacciava gli imprenditori locali, imponendogli le sue slot. Così aveva accumulato un patrimonio di 330 milioni di euro. Tra i 260 immobili confiscatigli ci sono una megavilla con venti stanze a Roma, sul colle Aventino, un appartamento a Parigi, decine di case a Reggio Calabria, macchine e automobili. Custodiva pure una prestigiosa pinacoteca con 119 quadri
d’autore. Per vent’anni ha avuto il controllo del gioco, ha trasformato la ludopatia in business «sfruttando l’aiuto e la protezione — scrivono gli investigatori — delle ‘ndrine Audino e Zindato, alleate dei Libri-De Stefano». A Campolo di macchinette gliene hanno sequestrate più di trecento, ma ne gestiva almeno il doppio. In un settore che non conosce crisi, al re caduto ne è subentrato subito un altro. Sulla sua identità c’è il massimo riserbo, si sa solo che è vicino alla potente cosca Molè di Gioia Tauro.
Napoli invece è stata terra generosa per Renato Grasso, detto
‘o presidente,
imprenditore 59enne. Partito dalla bottega di calciobalilla che suo padre aveva
nel vicolo di Soccavo, è diventato un sovrano dei giochi e delle scommesse. Almeno fino al 2009, quando gli è piovuta addosso l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Nonostante ‘
o presidente
continui a sostenere di essere stato costretto a frequentare la camorra e i casalesi, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere lo ha condannato in primo grado a 14 anni. La sua azienda, racconta in un memoriale, ha piazzato più di 4.000 slot in diverse regioni italiane: il 2,5 per cento dell’intero mercato nazionale, il 15 per cento di quello campano. ‘
O presidente
era riuscito a stipulare contratti e concessioni direttamente con Sisal, Lottomatica e perfino con i Monopoli di Stato. Faceva affari con Antonio Padovani, noleggiatore di slot catanese finito anche lui nella stessa indagine che ha coinvolto Grasso. Padovani secondo gli investigatori è vicino ai clan mafiosi di Catania e Caltanissetta. Ma nella filiera del gioco fino a che livello si sono spinte le infiltrazioni mafiose?
LA GRANDE SCALATA
Erano a un passo dal raggiungere il cuore del sistema. Giulio Lampada e i suoi uomini, legati alle cosche di Reggio Calabria ma da anni residenti in Lombardia dove gestivano 350 slot machine, volevano essere qualcosa di più di semplici noleggiatori. La conoscenza con “Rocco” Femia aveva permesso a lui e al suo socio, il boss Leonardo Valle, di ampliare di altri 1.200 pezzi il parco delle macchinette. Ma non gli bastava. Nel 2010 provano a scalare la rete telematica delle concessionarie, partecipando a un bando dei Monopoli. Smuovono pedine importanti, inserite nelle stanze del potere romano. Giulio Lampada è anche in buoni rapporti con un ex dipendente della Gamenet spa (estranea alle indagini), una delle dieci concessionarie di Stato a cui versava la tassa sulle giocate. Il progetto però fallisce «per fortuite coincidenze », scriverà il gip che lo manda in carcere nel 2011. «Se le infiltrazioni sono già una realtà conclamata nel mondo dei gestori — si
legge nell’ordinanza — qui si è corso il rischio di vedere, a fianco della Snai o altri soggetti simili, una banda di mafiosi gestire le scommesse su incarico dello Stato. La vigilanza in questi campi si dimostra totalmente assente ».
Forse anche per questo si è tornati a parlare del caso Atlantis-B Plus, il primo concessionario di gioco legale in Italia (ha il 25 per cento del mercato). Ad ottobre i Monopoli gli hanno ritirato la licenza, dopo aver ricevuto dalla prefettura di Roma un’informativa nella quale si parlava di «tentativi di infiltrazione». In questi giorni B Plus è stata esclusa pure dal rinnovo della concessione e i 300 dipendenti prossimi al licenziamento hanno pubblicato un
avviso a pagamento su
Repubblica.
«Sono a rischio migliaia di posti di lavoro nell’indotto — scrivono — B Plus ha versato fino ad oggi 6 miliardi di euro all’erario». Il titolare della società è quel Francesco Corallo indagato a Milano per corruzione privata e associazione per delinquere. L’accusa ruota attorno a un finanziamento da 148 milioni di euro ottenuto dalla Banca popolare di Milano quando Massimo Ponzellini ne era presidente. Sul padre di Francesco, Gaetano Corallo, la Direzione nazionale antimafia getta più di un’ombra, quando ne sottolinea la «notoria vicinanza a Nitto Santapaola», boss di Cosa Nostra. Francesco Corallo però difende la reputazione
della sua famiglia diffidando e querelando chiunque la metta in dubbio. Amicizie pericolose o semplici conoscenze, che però, al di là del caso B Plus, lasciano perplessi sulla permeabilità della filiera di commercio delle slot machine. Ma quali sono gli strumenti delle polizie e dei Monopoli per arginare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose?
UN PIANO PER I GIOCHI
C’è una verità non detta, in questa storia. Una delle ragioni che spinsero il governo italiano ad ampliare l’offerta di gioco legale era l’idea che così si potesse arginare quello clandestino. Ma il mercato è cresciuto talmente tanto da scatenare gli appetiti delle mafie. Le proposte per irrobustire la vigilanza non mancano. «È il momento di mettersi attorno a un tavolo — propone Massimo Passamonti, presidente della Federazione sistema giochi di Confindustria — e varare una sorta di piano regolatore del settore per imporre che le slot machine siano installabili solo in locali ben riconosciuti. La proliferazione non controllata rende più facile l’abuso».
Frenare o cercare di stringere le maglie dell’autorità attorno al più florido business economico degli ultimi anni, che porta nelle casse dello Stato 8 miliardi di euro all’anno (il 40 per cento proviene dalle slot), non sarà facile. Di certo l’Italia non lo potrà fare da sola. «Gran parte delle macchinette è prodotta in Germania — spiega ancora De Martino — incontriamo difficoltà a convincere le aziende straniere a modificare le slot per renderle più sicure, meno taroccabili». I Monopoli si stanno attrezzando con una task force, che ha negli uomini dello Scico della Guardia di Finanza il nucleo operativo. «Abbiamo fatto partire operazioni di intelligence congiunte con altre forze di polizia», racconta il comandante Giuseppe Magliocco. Una dichiarazione di guerra alla rete dei signori delle slot, personaggi in contatto l’uno con l’altro, abili manovratori. Inseriti nei salotti che contano.