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 2013  febbraio 22 Venerdì calendario

ORA ANCHE GLI AMICI DI CL ACCUSANO FORMIGONI “COSÌ È NATO IL PATTO TRA IL GOVERNATORE E DACCÒ”

MILANO — Maurizio Amigoni è nato nel 1950 a Lecco e «da 40 anni» conosce Roberto Formigoni. Ne ha condiviso la passione politica già ai tempi del Classico Manzoni di Lecco, «quando era presidente di Gioventù studentesca e io frequentavo il liceo». Francesco Beretta, invece, di anni ne ha 65, e con Amigoni condivide un sentimento comune in Comunione e liberazione (Cl), la professione medica, e una carriera passata attraverso nomine politiche ad amministrare la sanità lombarda. Tutti e due possono essere un esempio di come all’interno dell’inchiesta milanese dei pm Laura Pedio e Antonio Pastore — che ha portato all’incriminazione di Roberto Formigoni e di parte del suo
entourage,
nello scandalo Maugeri, —, le accuse
non si basino su sentito dire, intercettazioni telefoniche captate male, risentimenti covati per anni. Ma di situazioni vissute sulla propria pelle.
Perché ad accusare di corruzione il
Celeste,
a svelare come a partire già dal 1995 — anno del suo primo insediamento al Pirellone —, siano state avvantaggiate sistematicamente, assecondate economicamente la Maugeri e l’ospedale San Raffaele, sono proprio le parole di diversi componenti di Cl. Amigoni, per svelare i favoritismi garantiti ai faccendieri Pierangelo Daccò e Antonio Simone, parla espressamente di «soluzioni tecniche costruite su misura ». Ma anche di «effetto Daccò» sulle attività della giunta Formigoni. E ancora, descrive la figura di un faccendiere capace di recarsi «in Direzione generale a “battere cassa”» (per la cronaca, la carica di direttore generale della Regione è coperta dal ciellino Nicola Sanese, indagato anche lui in questo
affaire).
Perché, sono ancora le parole di Amigoni, «Daccò era ascoltato e ricevuto con una certa attenzione in quanto rappresentante di due erogatori —
Maugeri e San Raffaele — le cui esigenze stavano particolarmente a cuore alla presidenza». Il termine appare generico? Allora il manager precisa meglio
il concetto per evitare equivoci: «Quando parlo di presidenza mi riferisco a Sanese e a Formigoni ».
Beretta, invece, ricorda a
verbale il suo arruolamento in regione nei primi anni ‘90: «Sono stato chiamato da Antonio Simone, all’epoca assessore alla Sanità (all’epoca esponente
della Dc,
ndr).
Entrambi appartenenti al movimento di Cl, ci siamo conosciuti ai tempi dell’università. Simone era anche il leader del Movimento popolare ». Un fedelissimo, insomma, richiamato al Pirellone alla prima elezione a governatore di Formigoni. Beretta, però, decide di abbandonare solo due anni dopo il suo lavoro. Il motivo? A causa delle troppe «mediazioni politiche» che condizionavano i provvedimenti legislativi. Ma a cosa si riferisce l’ex direttore degli affari generali della Lombardia? «Formalmente le decisioni sono assunte dalla giunta, il contenuto delle delibere però, o almeno quelle più importanti, vengono discusse in “tavoli ristretti”». Prima di decidere di lasciare, Beretta ricorda come in realtà «questi tavoli abbiano avuto
come referente il Segretario generale (Sanese,
ndr),
il quale convoca i direttori generale e dà le indicazioni su ciò che deve essere fatto». Un metodo che scavalca perfino l’assessore alla sanità dell’epoca (l’ex An Borsani), deciso «certamente dal presidente d’accordo con Sanese, i quali presentarono il nuovo assetto decisionale come strumento più agile ed efficiente.. questo è stato possibile perché Formigoni e il suo apparato erano molto forti».
E proprio attraverso questo metodo, sostengono oggi le indagini della procura di Milano, attraverso queste pressioni che alla Maugeri e al San Raffaele sono stati assegnati per anni fior di quattrini pubblici, ben oltre il dovuto (solo a Maugeri 200 milioni i fondi erogati). E tutta questa pressione sui piani alti della sanità lombarda, altro non servivano se non a fare tornare attraverso i mediatori Daccò e Simone, il denaro attraverso «utilità» nelle tasche del governatore lombardo.