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 2013  febbraio 22 Venerdì calendario

NON FATE LA FINE DELLA RANA


I 18 milioni di disoccupati dell’eurozona rimangono perplessi di fronte al rafforzamento dell’euro e alla vivacità delle piazze finanziarie del continente. E sono stupiti dal tono trionfalista dei commentatori quando proclamano che la crisi della moneta unica è finita. I mercati credono che l’impegno della Banca centrale europea, solennemente annunciato dal suo presidente, Mario Draghi, ad acquistare i titoli di Stato dei paesi in difficoltà economica, ha quasi eliminato il rischio di un collasso. Ma questo pericolo non cesserà fino a quando non si vedranno risultati concreti, ovvero finché i paesi periferici del Vecchio Continente non daranno chiari segni di ripresa dell’economia e dell’occupazione.
Fino a quel momento, il rischio di una recidiva provocata da contrasti interni o da uno shock economico esterno rimarrà alto. L’eurozona potrebbe fallire anche se la moneta unica dovesse sopravvivere.
Recentemente, un autorevole rappresentante dell’opposizione di un paese europeo in crisi ha manifestato il suo scetticismo verso il sentimento prevalente dei mercati finanziari sostenendo che le politiche attuali non portano da nessuna parte. E quando gli ho chiesto come sarebbe finita, mi ha risposto con l’allegoria della "rana che bolle": se gettate una rana viva in una pentola colma d’acqua bollente, salterà subito fuori. Ma se la immergete nell’acqua fredda e aumentate gradualmente la temperatura, se ne starà tranquilla, finendo per lasciarsi cuocere.
In altre parole, anche se la deflagrazione che proietta un paese fuori dall’euro viene scongiurata, i problemi rimangono. Al pari della rana che cuoce lentamente, i paesi periferici del Vecchio Continente possono riuscire a rimanere nell’euro, senza però risalire la china e invertire la tendenza all’emigrazione e alla deindustrializzazione.
Questa non è una prospettiva soltanto teorica. La storia è ricca di esempi di regioni che, pur se inserite all’interno di un’unione monetaria, hanno perso competitività e non sono riuscite a stare al passo con i tempi nonostante gli interventi di sostegno di un forte governo centrale. È il caso del Mezzogiorno in Italia, dell’Estremadura in Spagna, o del Sertão Nordestino in Brasile, della Virginia occidentale e del Mississippi negli Stati Uniti, dello Stato indiano del Bihar.
Naturalmente, vi sono anche molti esempi di paesi dotati di una propria moneta che sono rimasti indietro. Ma Spagna, Italia e Irlanda, tra gli altri, erano paesi relativamente prosperi che hanno adottato l’euro nella speranza di migliorare ulteriormente le loro condizioni, anziché precipitare nell’attuale fase recessiva finendo sotto tutela della Banca centrale europea.
Contrariamente alle aspettative di un maggior benessere diffuso e condiviso, l’eurozona è diventata un teatro di contrasti interni. E invece di raggiungere l’obiettivo iniziale di eguagliare gli Stati Uniti, sta oggi facendo sempre più passi indietro.
I numeri sono impressionanti. La disoccupazione ha toccato il 26,8 per cento in Grecia, il 26,6 in Spagna, il 16,3 in Portogallo, il 14,6 in Irlanda, l’11,1 in Italia, e continua ad aumentare, a fronte del 5,4 per cento in Germania e del 7,8 negli Stati Uniti.
Il prodotto interno lordo in Italia è diminuito del 6 per cento rispetto al picco raggiunto prima della crisi nel 2007, mentre in Germania è cresciuto dell’8. Negli Stati Uniti, dove la crisi finanziaria mondiale ha avuto inizio, il Pil ha superato del 7 per cento il livello massimo registrato prima della sua esplosione.
Queste disparità non riflettono soltanto ben note differenze nella flessibilità del mercato del lavoro, nel clima economico e nel livello di efficienza dei governi che contraddistingue i paesi periferici dell’Europa rispetto a quelli centrali e più in generale l’eurozona rispetto agli Stati Uniti, ma rispecchiano soprattutto le politiche economiche restrittive dell’area dell’euro.
La politica fiscale e, fino a poco tempo fa, anche quella monetaria di quest’area sono state fortemente inadeguate a far fronte alla gravità della crisi, molto più delle politiche messe in atto dagli Stati Uniti. Le politiche di bilancio in Europa continuano a deprimere le attività economiche e riflettono l’inesistenza di un forte governo centrale, l’incapacità dei paesi periferici di ottenere crediti e l’orientamento fiscale conservatore della Germania, dove gli effetti della crisi si sono sentiti molto di meno.
L’inadeguatezza della politica monetaria, che sta ora cambiando tardivamente, è stata inoltre il risultato di un orientamento conservatore da parte dei paesi centrali, in special modo della Germania. Certamente, gli strumenti di politica monetaria sono sempre troppo poco incisivi per rispondere alle tendenze economiche divergenti all’interno di un’area valutaria di grandi dimensioni. Ma la paura che, sotto il manto della politica monetaria, si crei una "Unione dei trasferimenti", gioca ancora un ruolo nel limitare la risposta della Bce.
C’è qualcosa di male nel ritrovare un po’ di ottimismo, dopo tanti dubbi e tante ambasce sull’euro in pericolo? No di certo, salvo il fatto che la creazione di questa moneta non era fine a se stessa, ma mirava ad accrescere la prosperità e l’unità dell’Europa. Se si tiene conto di questo, c’è poco da stare allegri. Almeno per il momento.
La riduzione degli spread dei tassi di interesse e la ripresa dei mercati finanziari non sono sufficienti a riavviare la crescita e migliorare la competitività. A questo scopo, sono essenziali invece continue riforme strutturali, fiscali e istituzionali, che però non riescono a trovare slancio. In Italia, la coalizione di centro-sinistra guidata da Pier Luigi Bersani ha manifestato in modo assolutamente chiaro la sua contrarietà a riforme del mercato del lavoro estremamente necessarie, mentre l’ex premier Silvio Berlusconi, che vuole abolire l’imposta sugli immobili reintrodotta da Mario Monti, è politicamente resuscitato.
A Bruxelles, i piani per un’unione bancaria avanzano, ma a passo di lumaca. Le proposte per la cancellazione del debito detenuto da istituzioni pubbliche abortiscono in partenza. L’unione fiscale non è all’ordine del giorno. In questi frangenti, illudersi che le cose stiano andando, anche solo un poco, per il meglio, può essere pericoloso.


Traduzione Di Mario Baccianini