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 2013  febbraio 22 Venerdì calendario

IL MONTE - È ROBA MIA


Caro collega, ti ricordo che il posto al Monte dei Paschi non l’hai ottenuto per i tuoi meriti personali ma grazie al nostro partito. D’ora in poi dovrai dimostrare una totale collaborazione alla linea espressa da chi verrà indicato dai vertici nazionali come referente unico per la Fondazione e la Banca. È questo il tuo unico comportamento possibile...
Nella rossa Siena, la provincia dove per lungo tempo tutti e 36 i Comuni sono stati guidati da sindaci del Pci-Pds, la lettera che "l’Espresso" è in grado di raccontare è sorprendente. A firmarla non è infatti uno di quei capetti "rossi" che da tempo decidono le sorti della terza banca italiana. Ma, al contrario, uno che molti a sinistra considerano un Belzebù: Denis Verdini, coordinatore nazionale prima di Forza Italia poi del Pdl. Il destinatario è Fabrizio Felici, un collega che sul territorio senese ha contribuito a costruire i primi successi azzurri, arrivando a strappare due poltrone nella Fondazione Mps, l’ente a nomina pubblica che custodisce la maggioranza della banca. Così, nel monocolore «comunista» - come lo potrebbe definire Silvio Berlusconi – degli organi di controllo della Fondazione, Felici riesce a sedersi nel consiglio di amministrazione. Verdini, però, non è contento dei rapporti con l’uomo del partito a Siena. E nel 2004, quando ha iniziato l’ascesa che lo porterà al vertice di Forza Italia, gli scrive una lettera nella quale - ricordano alcuni testimoni - manifesta la sua insofferenza per un sottoposto che non china la testa di fronte ai suoi diktat. E gli manda un messaggio: il Monte è roba mia.
È questo il prologo della scalata di Verdini alla più antica banca d’Italia. Perché, tra riunioni segrete, spartizioni di poltrone e finanziamenti sospetti, l’abbraccio tra il vicerè di Berlusconi e il Pd di Siena da allora si è fatto sempre più stretto. Al punto da interessare gli investigatori alle prese con gli scandali che hanno travolto i vecchi vertici del Monte, dall’ex presidente Giuseppe Mussari in giù. Nelle loro mani è giunta la minuta di un contratto nel quale Verdini stringe un patto con Franco Ceccuzzi, l’ex sindaco che del Pd cittadino era stato a lungo segretario. Una bozza non firmata, la cui autenticità è smentita con forza da entrambi, sicuri che si tratti di una patacca. Ma che i magistrati non hanno messo da parte, considerandola la possibile esplicitazione di un sistema di scambio che si sarebbe effettivamente attuato. E che avrebbe condizionato anche la partita Antonveneta, l’operazione al centro delle indagini. E così, alla ricerca di riscontri sulla sua veridicità, l’hanno sottoposta a una serie di testimoni che hanno una caratteristica comune: quella di aver collaborato con Verdini e Ceccuzzi ma di essere attualmente in rotta con loro.
Vero o falso che sia il contratto, per raccontare la storia di come il partito di Berlusconi si è incuneato nel Monte occorre tornare a quando Verdini era ancora un signor nessuno. Raccontano che tutto iniziò con una lettera sigillata che nel maggio 1997 parte dalla segreteria di Berlusconi, dove uno dei fedelissimi è Niccolò Querci. A portarla da Roma ai palazzi senesi dove si contrattano le poltrone nel consiglio della banca è proprio Felici, un ex socialista che sta ricostruendo Forza Italia dopo i dilettantismi dei primi anni. Lo stupore è grande quando viene letto il nome del consigliere in quota Palazzo Grazioli: l’avvocato Carlo Querci, padre di Niccolò.
I rapporti tra Querci senior e Felici non filano lisci. Sui quotidiani locali trapela presto una polemica, quando il segretario cittadino di Forza Italia rivela che Querci rappresenta forse «interessi» vicini al premier ma è sordo a quelli del partito a Siena. Ne seguono convocazioni a Roma e tensioni sempre più manifeste. Nel 2001, però, la nascita della nuova Fondazione Mps riporta una momentanea pace. I diessini lasciano due poltrone ai berlusconiani. E quella nel consiglio di amministrazione tocca a Felici, che si ritrova in una posizione cruciale per gli interessi materiali di ogni partito: può gestire nomine e finanziamenti.
Ma la tregua dura poco. Man mano che sale al vertice, Verdini azzera ogni altro centro di potere. E nell’ottobre 2004 arriva a scrivere a Felici una lettera durissima. Il contenuto è possibile conoscerlo perché è lo stesso destinatario, all’epoca, a leggerla durante una riunione di quadri Forza Italia. Verdini gli intima di uscire dal partito, accusandolo di seguire una linea personalistica. Dice che chiederà a Berlusconi di indicare l’uomo di collegamento con Fondazione e Monte. Che dovrà essere il partito a decidere ogni questione sulla banca. E che farà una riunione a Siena con gli iscritti per chiarire bene chi, in Forza Italia, ha diritto a dire la sua. Nel contratto del 2008, vero o farlocco che sia, Verdini vuole essere riconosciuto da Ceccuzzi come «l’unico interlocutore» per il Monte. Già nella lettera del 2004, questa volta autografa, il concetto caro all’allora astro nascente di Forza Italia è lo stesso: al Monte ci penso solo io.
La vera svolta arriva quando Mussari trasloca dalla fondazione alla banca. Alcuni testimoni raccontano di una riunione che, nel 2007, si tiene a Roma, con lui, Ceccuzzi, Verdini e due esponenti di Forza Italia che all’epoca gli sono vicini. Nei consigli del gruppo fioccano le nomine di persone collegate al coordinatore azzurro. L’intreccio si estende all’Università, come rivelano alcune intercettazioni. Nel 2010 la nomina a rettore di Angelo Riccaboni, ex Montepaschi France, è bloccata dai ricorsi interni. Dal Pd Luigi Berlinguer fa pressioni sul ministro Maria Stella Gelmini e si premura di dirlo a Riccaboni. Lo stesso giorno l’aspirante rettore contatta il responsabile di Forza Italia in città, che gli riferisce di avere appreso del via libera della Gelmini dal coordinatore regionale Massimo Parisi.
Tuttavia, com’è ovvio, a far gola agli alleati sotterranei è forse la capacità finanziaria del Monte. I fronti aperti sono vari ma il più interessante è quello della Baldassini Tognozzi Pontello (Btp), la storica impresa di costruzioni di Riccardo Fusi finita nelle indagini della Procura di Firenze sulle Grandi Opere. E il cui dissesto ha portato al collasso il Credito Cooperativo Fiorentino dello stesso Verdini, che dirottava sulla Btp finanziamenti troppo ingenti per una piccola banca.
Lui e Fusi, come svelano le indagini dei carabinieri del Ros, sono una persona sola. Denis gli chiede l’elicottero, i figli una stanza d’albergo per i week-end. Lui paga. Poi si arriva al Monte. È la banca alla quale Fusi si rivolge nel 2008 quando i conti della Btp non tornano e c’è bisogno di un prestito da 150 milioni, che verrà poi accordato dal Monte (per 60 milioni), dal Credito Fiorentino e da altre banche.
La procura, fra l’altro, ha acceso un faro sui fratelli Niccolò e Andrea Pisaneschi. Il primo è uno degli avvocati che scrive il contratto. Andrea, scelto inizialmente da Felici e Mussari per il consiglio del Monte, diventa presidente Antonveneta nel 2008, quando l’asse con Verdini si rafforza. Durante le estenuanti trattative è Andrea che offre consigli a Fusi. Il prestito è vincolato e invece si disperde in mille rivoli. Serve a saldare debiti pregressi e compensi. In breve la Btp non può pagare le rate e chiede una moratoria, suscitando sospetti al Monte. «Dove sono finiti i 150 milioni?», chiedono i dirigenti. Pisaneschi si offre ancora di aiutare Fusi: «Si rifà il punto anche con me, dopodiché io riacchiappo Pompei, riacchiappo Vigni, riacchiappo tutti quelli che devo acchiappare. Per carità di Dio, non è che cambierò completamente le cose, però...». Al tempo Pompei è un alto dirigente e Antonio Vigni direttore generale del Monte. Non solo. Dalle conversazioni, a detta dei magistrati, alcune «comprovano l’ipotesi di una fatturazione per una operazione in tutto o in parte inesistente... che nasconderebbe invece l’elargizione di una somma volta a retribuire l’indebito interessamento di Pisaneschi». «Fornivo informazioni pratiche», si è difeso lui. I pm di Firenze non sembrano credergli. Si prepara il processo.