Antonio D’Orrico, Sette 22/02/2013, 22 febbraio 2013
SESSO, COCA E... D’ANNUNZIO VISTO DALLA CAMERIERA
SESSO, COCA E... D’ANNUNZIO VISTO DALLA CAMERIERA –
Happy birthday, mister Comandante. Gli auguri per il centocinquantesimo compleanno a Gabriele d’Annunzio (che tra tutti i titoli che deteneva – da Principe di Montenevoso a Vate – preferiva quello che rimandava alle sue virtù militari) glieli facciamo dal Vittoriale, l’ultimo suo magnifico domicilio conosciuto, sulle rive del Garda, dove siamo venuti in gita per celebrare lo scrittore che si considerava secondo solo a Dante.
Il nostro Cicerone è Giordano Bruno Guerri, storico, presidente del Vittoriale e fresco autore di La mia vita carnale, il resoconto, senza censure, degli ultimi anni di vita (dal 1929 alla morte) del Poeta in regale autoesilio nella sua casa-monumento. Domando a Guerri perché ha scelto di raccontare il tramonto di d’Annunzio.
«Intanto perché sto qua. E poi perché sono rimasto affascinato dalle presenze femminili che lo circondavano, lo accudivano, lo spiavano, se lo contendevano. Una situazione intrigante». Quante erano queste donne? «Quattro. C’era Amélie Mazoyer, la governante che il Poeta aveva conosciuto in Francia quando lei aveva 24 anni e lui il doppio. Era una dipendente però aveva la confidenza massima perché andava a letto con il Vate».
Era bella? «Non granché». Era quella che si dice un tipo? «Nemmeno». E allora perché d’Annunzio, che aveva avuto innumerevoli amanti, tra cui Eleonora Duse (la Marilyn Monroe dell’epoca), se ne incapricciò? «Lo dice lui stesso. Perché aveva “una bocca meravigliosa” e “una mano donatrice d’oblio”. Il Comandante l’aveva ribattezzata (aveva la mania di ribattezzare tutti quelli che conosceva, le amanti soprattutto) Aélis, che suona come hélice, elica in francese, un modo criptico, ma nemmeno poi tanto, per sottolineare la sua abilità non comune nell’amore orale».
Diede anche prova di amore scritto, Amélie, perché tenne un diario sul Vittoriale segreto. «La tentazione di fare il libro mi è venuta proprio dal diario di Amélie che è in grandissima parte inedito e racconta particolari sconvolgenti».
Abbiamo detto quattro donne. La seconda chi è? «Luisa Baccara, ufficialmente la “Signora del Vittoriale”. Lei è stata amante di d’Annunzio ma non ci va più a letto e deve accontentarsi, sublimare la sua passione, suonando al pianoforte per lui nella Stanza della Musica del Vittoriale».
Luisa Baccara (accento sulla prima a) è una bellissima donna che spasima per lui: perché il Comandante non la vuole più e le riserva questa ingrata parte di vedova bianca? Perché l’ha confinata al ruolo di pianista di pianobar del Vittoriale?
«Perché probabilmente lei tentò di ucciderlo. È un giallo rimasto insoluto. Accadde il 13 agosto del 1921. Nella Stanza della Musica ci sono Luisa al piano e d’Annunzio che sta corteggiando, semisdraiato sul davanzale, Jolanda, 16 anni, la sorella minore della Baccara».
Faceva il filo alla sorella in presenza di Luisa? «Il Vate aveva teorizzato che il massimo dell’erotismo era possedere due consanguinee. Vuoi la citazione esatta? Eccola: “Chi non ha mai provato la gioia di uscire dall’esperta alcova della madre per entrare subito, nella stessa notte, nella stanza virginale della figlia, non sa cosa sia la vera ebbrezza dell’amore”».
Vuoi dire che d’Annunzio, il quale, al contrario degli altri scrittori italiani che o vivono o scrivono (“Vissi al cinque per cento”, contabilizzò il ragionier Montale), viveva e scriveva e non si accontentava della teoria ma passava alla pratica, ci provò con la consanguinea Jolanda? «E Luisa, che era gelosissima (sentimento che d’Annunzio detestava sopra ogni altra cosa), gli diede una spinta, probabilmente per staccarlo dalla sorella, e lo fece volare dalla finestra a testa in giù. Da allora Luisa fu bandita. Andiamo che ti faccio vedere dove abitava Luisa perché è significativo».
Lasciamo l’ufficio del presidente (niente di pretenzioso o di speciale, una specie di verandina vistalago baciata oggi da un bel sole invernale, d’altronde la carica è onorifica e Guerri non percepisce stipendio) e ci dirigiamo verso la Prioria, il nome non a caso conventuale, monastico, dato dal Poeta alla sua residenza privata. Entrati nel cuore del Vittoriale, ci inoltriamo nella Clausura, la parte chiusa al pubblico dei visitatori. Qui ci sono gli appartamenti della Baccara e della Mazoyer separati solo da una porticina di legno e con il bagno in comune. Il messaggio era chiaro e doloroso per Luisa. La Signora del Vittoriale condivideva tutto con la governante Amélie (tutto meno le chiamate in piena notte quando Aélis veniva convocata, per l’umiliazione di Luisa, con un bigliettino portato da una cameriera, perché corresse a consolare il Comandante in crisi d’affetto). A ulteriore mortificazione di Luisa, ma anche di Amélie, le loro stanze si trovano accanto alla piccola foresteria dove stavano le ospiti, le amanti di passaggio, spesso professioniste, spesso arruolate da Amélie, che si prestava poi, di buon grado, a fare da spalla nei ménage à trois se il Comandante lo richiedeva. Aélis, scrive Guerri, era «la vera Richelieu del complesso regime erotico instaurato al Vittoriale».
Orge e prosciutto cotto. In queste stanze, come si legge nella Mia vita carnale, le due donne passavano ore angosciose, cercando di origliare ciò che accadeva al piano di sotto dove d’Annunzio consumava notti inquiete e impegnative. Ancora nel 1933, a settant’anni, il Comandante si vantava di aver trascorso «Ventiquattro ore di orgia possente e perversa». Poi aggiungeva di essersi rifocillato con un menu ricostituente preparato espressamente da Suor Albinea (così l’aveva ribattezzata il Vate), l’apprezzatissima cuoca del Vittoriale: prosciutto cotto, porto Ruby, dolce viennese, bicchierino di menta Get e sigaretta Abdullah n.11. Ed è qui il caso di ricordare che, come in quello stesso giro di anni facevano i personaggi di L’amante di Lady Chatterley, anche d’Annunzio si divertiva nella sua ansia battesimale (il sacramento più consono agli scrittori) a dare nuovi nomi al suo organo sessuale: «il Perno del mondo», «il Gonfalon selvaggio», «la Catapulta perpetua». Nomi che citava nei biglietti alle amanti reclamandone le attenzioni (anche all’organo sessuale femminile trovò nuovi nomi; il più bello e misterioso fu «la filigrana vivente», che forse non significa nulla ma suona bene).
Ci aggiriamo in questo harem dannunziano in cui tutto è rimasto pietrificato, come nella favola della Bella Addormentata, alla sera del primo marzo 1938 quando il Comandante si spense. Tutto fermo alle otto e cinque di quella sera, perfino il barattolo aperto di cipria poggiato sul comò di Amélie, perfino il rotolo di carta igienica incignato che pende tuttora nel bagno delle ospiti. Racconta Guerri: «La stessa notte in cui il Principe di Montenevoso morì l’architetto del Vittoriale, Gian Carlo Maroni, sloggiò per sempre la Baccara e la Mazoyer dai loro appartamenti. L’harem chiudeva i battenti».
Gli occhi di Eleonora. Lasciamo la Clausura e facciamo il giro classico del Vittoriale: la camera da letto di d’Annunzio, il suo bagno personale, il suo studio (l’Officina) con la Vittoria di Samotracia e la testa scolpita della Duse (con una veletta che il Poeta le calava sugli occhi quando scriveva, perché era incapace di comporre sotto lo sguardo della Divina), la sala da pranzo di un rosso squillante e laccato, la suggestiva Stanza del Lebbroso dove si ritirava in meditazione mistica e dove volle che il suo corpo fosse esposto per l’ultima volta. Dovunque scritte, moniti, citazioni, gioielli, sculture, quadri, statuine, monili, maschere, calchi, in un’accumulazione che soffoca, provoca smarrimento, stordisce, acceca.
Come la voce fuoricampo di un film, Guerri commenta il percorso. «Non mentiva d’Annunzio quando diceva: “Io sono miglior tappezziere e decoratore che scrittore e poeta”. Il Vittoriale è la sua ultima opera, il suo ultimo libro. Attraverso il Vittoriale noi continuiamo a vederlo, avvertiamo la sua presenza fisica. Nel mistero enigmatico di questo labirinto di pietre vive, d’Annunzio si è immortalato».
Guerri ha assecondato questo gioco di esibizione aprendo un nuovo museo, “D’Annunzio segreto”, dove ha ridato aria e luce a quello che era sepolto in armadi e cassetti: le mutande, i fazzoletti, le camicie, le scarpe, le vestaglie (quelle col buco davanti per il suo pudore di vecchio che si vergogna della decadenza anatomica), le stoviglie, i segnaposto per la tavola (tanti cavallini in vetro di Murano).
Tener-a-mente. La nostra passeggiata continua nei giardini del Vittoriale e si spinge fino alla Nave Puglia incastrata nella roccia come per incantesimo, al biplano Ansaldo Sva del volo su Vienna del 9 agosto 1918, ai cipressi appena piantati (il Vittoriale è ancora vivo e richiede anche un continuo lavoro di giardinaggio), ai quali sono stati dati nomi dannunziani. Uno si chiama «Tener-a-mente», la crittografia con cui chiudeva i suoi biglietti d’amore. Un altro si chiama «Subbbito!» ed è la citazione di un biglietto impaziente (ma quanto scriveva quest’uomo!) all’architetto Maroni: «Le cose che mi piacciono le voglio subito subbito subbbito!».
Approfitto della bella passeggiata per sottoporre Guerri a una serie di quiz. D’Annunzio era fascista? «No, il fascismo ha preso da d’Annunzio ma d’Annunzio non gli ha mai dato. Era un anarchico. Era nietzscheano, superomista». Era antinazista? «Sì, ebbe una visione lucidissima e negativa di Hitler fin dal 1933. Impressionante, da veggente». Dato che gli italiani si dividono da sempre in antitaliani e arcitaliani, d’Annunzio era un antitaliano o un arcitaliano? «Entrambe le cose. Forse è questa la ragione per cui è stato spesso frainteso ed è rimasto in fondo un incompreso. Uno di cui si è detto che era un decadente mentre è stato l’uomo che ci ha portato fuori dall’Ottocento. Uno che a Fiume inscenò una specie di Sessantotto, di Woodstock (ed eravamo nel 1919), tra droga, nudismo, sesso libero, divorzio, multiculturalità, multilinguismo, internazionalismo terzomondista. Un visionario che arrivò a eliminare i gradi dell’esercito come avrebbe fatto poi Mao».
Agli ordini, Caporale. Eravamo rimasti, nel nostro catalogo, alla terza donna. Chi era? «Maria, la moglie da cui d’Annunzio non aveva mai divorziato. La vera signora d’Annunzio quando veniva al Vittoriale stava a Villa Mirabella, in una zona appartata. L’arrivo di Maria gettava ovviamente nella costernazione Luisa Baccara».
Resta solo ormai la quarta donna. «La cameriera Emilia, detta il Caporale. Odiatissima da Amélie e Luisa perché dava ordini a tutti quanti. Il Caporale era un tipo brusco, sempre disponibile a svolgere il massacrante turno delle cinque di mattina quando il Vate chiamava spesso desideroso di compagnia. E di cocaina. Secondo Luisa e Amélie, Emilia era la responsabile principale della cocainomania in cui d’Annunzio era precipitato».
Commedia all’arcitaliana. Pur conoscendo l’ironia di Guerri, esito prima di dirgli (in fin dei conti è il presidente del monumento alla dannunzianità) che queste donne che si affannano attorno all’ape regina d’Annunzio con le loro rivalità, all’interno della gigantesca alcova del Vittoriale, mi fanno venire in mente i piccanti romanzi di Piero Chiara (autore, non a caso, di una biografia del Vate abbastanza cattivella), e in particolare La spartizione, diventato al cinema Venga a prendere il caffè da noi, con l’Ugo Tognazzi più Ugo Tognazzi che si sia mai visto, nella parte di un uomo che allestisce un harem con le impagabili sorelle Tettamanzi (l’ebbrezza della consanguineità!). Il d’Annunzio finale sarebbe stato interpretato alla grande da Tognazzi come un eroe della commedia all’italiana (all’arcitaliana e all’antitaliana). Guerri cosa ne pensa? «È così. Infatti il mio primo titolo, prima di trovare questo bellissimo, che è di d’Annunzio, La mia vita carnale, era Casa d’Annunzio, nel senso dei Cesaroni, di Casa Vianello, delle soap tv».
L’ultima scena del nostro racconto è quella di Guerri che ci mostra la lapide sulla tomba dei levrieri amatissimi dal Poeta. D’Annunzio aveva scritto l’epitaffio ma la lapide non era stata realizzata. Guerri l’ha fatto. Così ci permette di chiudere sulle note della malinconia dannunziana («Io vivo voluttuosamente, con delle interruzioni non brevi di tristezza immensa»), e sulla sua perizia di artiere, di mago delle parole. La lapide contiene gli ultimi versi da lui scritti. Prima di conoscerli, pensavo che i versi più belli di d’Annunzio fossero quelli di Alcyone, della poesia Nella belletta (che significa nel fango, nella palude): «Nella belletta i giunchi hanno l’odore / delle persiche mézze e delle rose / passe, del miele guasto e della morte». Ma ora so che i suoi versi più belli e terribili (e non solo suoi) sono gli ultimi due dell’epitaffio per i levrieri: «Ogni uomo seppellito / è il cane del suo nulla». Che suona anche come un disperato auto-epitaffio.