Stefano Giantin, l’Espresso 22/2/2013, 22 febbraio 2013
SLOVENIA - UNA GRECIA ALLE PORTE
Europa, tranquilla, facciamo da soli. Non siamo l’Irlanda o la Spagna. E nessuno osi paragonarci ad Atene perché «la Slovenia non è la Grecia», sottolineava con sicurezza un anno fa il "Finance", quotidiano economico di Lubiana. Ma in dodici mesi ne è passata di acqua sotto il Tromostovje, i tre bianchi ponti che s’intrecciano nel cuore della capitale. Acqua che non ha spazzato via i timori sul precario stato di salute dell’economia slovena e i crescenti dubbi sulle capacità di Lubiana di sottrarsi all’onta di diventare il sesto membro dell’Eurozona a chiedere aiuto a Bruxelles per salvare le sue banche.
È proprio lo spettro del "bailout" quello che oggi incombe sulla Slovenia, già modello di virtuosismo finanziario e di buon governo, di capitalismo mitigato da un welfare alla scandinava. Un modello premiato con l’ingresso nella Ue e nella Nato nel 2004 e tre anni dopo, primo Paese ex socialista a fare il gran passo, nella moneta unica. Tempi lontani, quelli della crescita media del 4 per cento annuo, azzerati dalla crisi globale. I numeri attuali raccontano invece di disoccupazione al 12 per cento, di una lunga recessione a "doppiaW" iniziata nel 2009 con un tracollo del Pil dell’8 per cento. Di una ormai ex "tigre economica" dagli artigli spuntati, la Slovenia appunto, che sarà l’unico Paese dell’Europa centro-orientale a registrare una crescita negativa anche nel 2013. Ma l’insidia più temibile è rappresentata dalle principali banche partecipate dallo Stato, che hanno bisogno di un’iniezione di almeno 3-4 miliardi di euro per una nuova ricapitalizzazione, diretta o realizzata attraverso la creazione di una "bad bank" pubblica che dovrebbe assorbirne i titoli tossici.
Dove scovare il denaro? Lo Stato ha le risorse per intervenire, rassicura il governo di centrodestra guidato da Janez Jansa, che cerca ostinatamente di cancellare l’immagine della Slovenia come "la Spagna dell’Europa centrale", recente definizione degli analisti di Raiffeisen. Ma qualche affinità c’è, sebbene Lubiana rappresenti meno dell’1 per cento del Pil dell’Ue e sia dunque un problema sulla carta molto più facile da gestire rispetto a Madrid. Come in Spagna, durante il boom economico il settore bancario sloveno «si espanse molto aggressivamente, con significativi prestiti al settore immobiliare ed edile», spiega Timothy Ash, capo del settore ricerca sugli "emerging markets" alla Standard Bank di Londra. Peccato che quei settori siano stati travolti dalla crisi, lasciando un buco nei bilanci delle banche. E assegnando in eredità al governo l’obbligo di salvarle, perché a differenza di altri Paesi dell’Est in Slovenia gli istituti di credito sono in gran parte "domestici" e lo Stato rimane uno degli azionisti di riferimento. Quando le banche, già nel 2012, «hanno avuto bisogno di essere ricapitalizzate», conferma Ash, in Slovenia «i costi del processo sono stati assunti dallo Stato», in una versione in miniatura del «caso irlandese».
Ma la Slovenia, a differenza di Dublino, non ha ancora chiesto aiuto all’Europa. Potrà a lungo esimersi dal farlo? «Non deve esserci per forza un bailout», risponde l’analista, «le difficoltà slovene si possono affrontare anche con una ricapitalizzazione finanziata attraverso il mercato». «Se ci sarà volontà e stabilità politica, potranno risolvere i problemi in maniera indipendente, da soli», conclude Ash.
«La Slovenia è in una situazione svantaggiata come altri Paesi Ue, specialmente nell’eurozona», gli fa eco Maks Tajnikar, uno dei massimi economisti sloveni, che però ricorda le ancora solide basi macroeconomiche di Lubiana, in particolare il basso rapporto tra debito pubblico e Pil, cresciuto tuttavia dal 18 per cento del 2008 al 50 attuale e proiettato verso il 70 in caso di nuove ricapitalizzazioni. Tajnikar mette poi il dito nell’altra piaga di Lubiana: «Stiamo seguendo una politica economica del tutto sbagliata, dettata da Bruxelles. Le misure di austerità non stanno dando frutti in Spagna, in Portogallo, in Italia e neppure qui. Io posso essere ottimista, ma solo se si cambieranno radicalmente le politiche economiche». Politiche di estremo rigore e riforme lacrime e sangue dirette a ridurre il deficit, portate avanti da un sempre più isolato Jansa. Isolato perché la maggioranza che l’ha sostenuto si è sfaldata, non solo per l’impopolarità dell’austerity, ma soprattutto per le accuse di presunte irregolarità fiscali attribuite al premier dalla Commissione nazionale anti-corruzione, sdegnosamente respinte da Jansa, che le ha bollate come un complotto «comunista». Accuse indirizzate anche al leader dell’opposizione e sindaco di Lubiana, Zoran Jankovic.
Ed entrambi sono nel mirino di quello che è diventato il più grande movimento di massa della recente storia slovena. Migliaia di persone - l’8 febbraio a Lubiana erano in 20 mila, numeri eccezionali per un Paese di 2 milioni di abitanti - che da novembre protestano contro le «élite politiche di destra e di sinistra», contro «la corruzione diffusa» e contro «le misure d’austerità», racconta Uros Lubej, uno dei portavoce della Vseslovenska Ljudska Vstaja, insurrezione popolare slovena. "Gotovi so", "sono finiti", c’è scritto sui cartelli issati dai dimostranti con le facce di politici di tutti i colori. Ma Jansa, che ha definito i manifestanti «fascisti di sinistra», ha avvertito: «Dopo di me il diluvio», perché se cade l’esecutivo «la Slovenia finirà in un limbo ingovernabile che porterà fatalmente alla bancarotta».
Parole che non hanno arginato gli scioperi e le proteste. Alla prossima, il 9 marzo a Lubiana, potrebbero essere ben più di 20 mila in piazza a gridare il loro disappunto. Nessuno sa se sulla poltrona di premier ci sarà ancora l’inossidabile Jansa, che può ora contare sul sostegno di solo un terzo dei deputati del Parlamento. E sul favore di un misero 20 per cento della popolazione che vorrebbe vederlo ancora primo ministro di un Paese che sognava di essere come la Felix Austria e che ha scoperto invece di avere classe politica, problemi e vizi più simili a quelli italiani.