Ferruccio Pinotti e Andrea Sceresini, Sette 22/02/2013, 22 febbraio 2013
È DI MODA IL MERCENARIO DUEMILA DOLLARI AL GIORNO CON LICENZA DI UCCIDERE
Sono pagati da un minimo di 500 fino a 2.500 dollari al giorno, trovano ingaggio senza problemi, girano il mondo spesati di tutto punto, conducono una vita avventurosa. Il mestiere delle armi, in tempi di crisi, riscuote crescente successo e sono molti gli italiani che fanno la fila per essere arruolati in ogni parte del globo. Abbiamo provato a farlo anche noi, per capire come si diventa “contractors” o, più spregiativamente, mercenari: soldati di ventura ingaggiati da eserciti regolari, governi, aziende e navi per offrire sicurezza, ma anche per combattere qualsiasi causa abbia bisogno di un mitra in pugno.
Contrariamente a quanto si può pensare, l’uso dei mercenari non è una prassi in via di abbandono, bensì una scelta sempre più in uso: «Il costo dell’addestramento di un militare di carriera e il suo mantenimento per un’intera vita lavorativa è altissimo; a molti governi conviene di più assumere per un breve periodo un professionista esterno: costa di meno e se cade in un teatro di guerra ha una ricaduta politica molto minore», spiega il professor Andrea Margelletti, consulente strategico del ministero della Difesa. «In Iraq ho visto moltissimi contractors, ma se ne avvalgono anche tante multinazionali, per esempio per la protezione di impianti petroliferi». Nei terreni di conflitto i contractors rischiano la pelle, com’è successo a Fabrizio Quattrocchi, ucciso a Baghdad dalle Falangi Verdi di Maometto il 14 aprile 2004. Quattrocchi lavorava per una delle 2.200 “private military company” che operano in questo mercato.
Tanti italiani, con la crisi, tentano l’avventura. «Il grande rischio delle società di contractors è di avvalersi non di ex militari professionisti, come gli appartenenti alla Folgore, al Col Moschin, agli incursori Comsubin, ai Nocs, ai Navy Seals americani o alle Sas inglesi, ma prendere dei non professionisti, pronti a tutto in cambio di facili guadagni», spiega Margelletti. Le compagnie che assoldano mercenari sono di per sé vietate in Italia (non in Usa e nel Regno Unito). Ma sotto la vaga nozione di “security” proliferano anche da noi, spesso come longa manus di spregiudicate società straniere. È questa la zona grigia nella quale ci siamo infiltrati.
Il centro di reclutamento. Il codice penale italiano (art. 244 e 288) vieta l’arruolamento non autorizzato al servizio di uno Stato straniero.
Ma le Procure non indagano sul fenomeno e scavalcare la legge non è per nulla impossibile. Basta affidarsi agli intermediari: il trucco è saperli scovare. Ci siamo incontrati con uno di loro: il rappresentante italiano di una grande compagnia internazionale di sicurezza privata. Appuntamento in un piccolo paese della pianura padana: gli uffici si trovano qui, nel retro di un anonimo capannone della zona industriale. Le regole sono semplici. Punto uno, l’addestramento: i corsi si tengono in Russia, in una cittadina fantasma a nord di Mosca, «dove si esercitano anche le teste di cuoio e i militi della polizia criminale».
Altri campi hanno sede in Francia e in Texas. Scorriamo l’elenco delle lezioni: «Combattimento corpo a corpo; abilità nel coltello e altre armi bianche; cattura e neutralizzazione; prevenzione delle imboscate; attuazione di contro-imboscate; classificazione delle blindature e loro punti deboli; manipolazione di differenti armi leggere; tecniche per la preparazione del combattimento». I corsi, ci viene spiegato, sono necessari per ottenere le varie licenze: durano dai 7 ai 30 giorni e hanno un costo tutt’altro che indifferente, dai 2mila ai 6mila euro.
Un bel business? «No, un ottimo investimento», assicura il nostro interlocutore. Una volta completati i corsi, si finisce in un grande database: è da lì che pescano le varie società a caccia di nuove reclute. Requisiti necessari: età superiore ai vent’anni, certificato medico, due foto recenti e un passaporto valido.
«Alla formazione ci pensano i nostri istruttori», assicura l’intermediario. «Non è necessario essere ex soldati. Ogni anno, circa un centinaio di italiani si addestrano con noi, e in molti non hanno nemmeno fatto il militare. Uno su due rinuncia, perché gli allenamenti sono durissimi e non tutti riescono a reggere. Se ce la fai, puoi passare direttamente allo step successivo: l’arruolamento».
Una prospettiva tutt’altro che disprezzabile, soprattutto in tempo di crisi: un contractor – stando a quanto apprendiamo – può guadagnare dai 500 ai 2.000 dollari al giorno (oltre 2.000 secondo Margelletti). «Ovviamente, rischiando la vita», è la laconica ma sacrosanta precisazione. Ma quanto tempo ci vuole per trasformare un occhialuto studente universitario in un muscolosissimo Rambo, pronto ad aprire il fuoco contro orde di talebani?
«Due anni, al massimo tre». Le destinazioni più quotate: l’Iraq, l’Afghanistan, i Paesi africani, l’America Latina. E poi, ultimamente, i deserti del Mali. Le parole d’ordine per chi vuole cominciare: pazienza, passione, volontà. Due mesi al fronte, un mese in Italia, una missione dopo l’altra. Ma in cosa consiste, esattamente, il lavoro di questi moderni soldati di ventura? «Spesso si tratta di scortare un convoglio», racconta il nostro reclutatore, che ha operato come contractor in zone ad alto rischio. «Per esempio l’auto di un ambasciatore, oppure un team di manager stranieri. Non sempre succede qualcosa.
A volte è persino noioso».
“Uccidi pure, sei pagato”. «Capita poi che ti venga ordinato di presidiare un edificio, una fabbrica, un obiettivo sensibile. Se ci sono attacchi, tu rispondi al fuoco». Uccidendo, se necessario? «Certo. Sei pagato per portare a termine la tua missione, costi quel che costi».
E se sparando colpisci un civile? «Può capitare. Capita». E le conseguenze legali? «Non ci sono conseguenze legali: la società che ti ha assoldato è pagata dal governo del Paese nel quale ti trovi per compiere determinate azioni. Tu ubbidisci agli ordini, fai il tuo dovere: non c’è nulla di sbagliato in questo. Se devi sparare, spari. E se per sbaglio colpisci un innocente, be’, puoi star certo che nessuno verrà a processarti. Non è mai successo, e non succederà mai».
È la legge dei contractor: un’assicurazione sulla vita, il conto corrente che sale, la fidanzata a casa che ti aspetta. Il resto, tutto sommato, conta relativamente: da una parte ci sono i “buoni”, dall’altra i “cattivi”, e i “buoni”, semplicemente, sono quelli che a fine mese ti pagano lo stipendio. Nè più nè meno. Il nostro colloquio dura circa un’ora: ci si scambia i numeri di telefono, i contatti mail. «Chi vuol partire è sempre in tempo», sorride l’intermediario. «Soprattutto oggi, con questa brutta crisi...». Prima di andarcene, un’ultima domanda: a lei è mai capitato di ammazzare qualcuno? Un attimo di silenzio. «Ci sono domande che non andrebbero mai fatte». Pausa. «Ecco, questa è una di quelle».
Testimonianze coperte. Più espliciti due mercenari che hanno accettato di parlare dietro garanzia di anonimato. Kurt, un ebreo italiano che si è addestrato anche nelle forze armate israeliane, non tentenna: «Sì, per lavoro ho ucciso e contribuito a far uccidere delle persone. Non mi è piaciuto, non mi piace nemmeno ora, ma ho trovato un equilibrio con questa faccenda». Quanto guadagna Kurt? «Per compiti di scarsa specializzazione quali scorte e sorveglianza, in genere si ottengono ingaggi bi-trimestrali di circa 15-20.000 dollari dai quali dedurre le tasse, sempre che si decida di pagarle. Nel mio anno migliore ho incassato un paio di centinaia di migliaia di dollari, al lordo delle spese e del fisco».
I contractors sono stati coinvolti negli interrogatori con tortura della prigione di Abu Ghraib. Come valuta Kurt quegli episodi?
«Negativamente e so che continuano ad accadere anche oggi. Il waterboarding (una forma di annegamento controllato, ndr), per esempio, si usa da decenni. C’è da considerare che parte della sicurezza dell’Occidente dipende dalle azioni discutibili di certe persone. Alcuni lo fanno per patriottismo, altri per danaro».
Un altro mercenario, Roberto, rivela una situazione difficile in cui si è trovato: «In Nigeria abbiamo dovuto arginare un attacco di predoni armati a un oleodotto scoperto, con liquido infiammabile che sprizzava ovunque: abbiamo rischiato di saltare tutti per aria». Quali sono le motivazioni del lavoro da mercenario?
«Il mondo del lavoro civile non dà alcuna opportunità di inserimento. Se uno è bravo a sparare o a saltare col paracadute, per lui non ci sarà mai posto nel mondo del lavoro civile. Come mercenari si è pagati come mai, in Italia, si verrebbe pagati».
LE VITE SPERICOLATE DEGLI ITALIANI NELLA LEGIONE STRANIERA –
Loro non lo fanno per soldi – dicono – ma per un ideale. Si definiscono «gli ultimi depositari di una lunga tradizione»: vengono sottoposti a un addestramento durissimo e inviati nei più remoti angoli del pianeta. Oggi gli italiani appartenenti alla Legione Straniera francese sono circa una cinquantina. In passato però oltre 60mila nostri connazionali hanno indossato il celebre chepì bianco: da Carlo Pisacane a Curzio Malaparte. Arruolarsi è piuttosto semplice: si contatta la Legione e ci si presenta alla caserma di Aubagne, pochi chilometri a nord di Marsiglia, dove avvengono le selezioni.
Se si è tra i prescelti, si può firmare per un minimo di cinque anni. È possibile cambiare le proprie generalità, e anche se si è sposati si viene registrati come celibi. Varie centinaia di italiani, ogni anno, tentano il fatidico viaggio. In molti tornano indietro, ma qualcuno ce la fa. Gli stipendi non sono eccelsi, ma neppure infimi: si comincia con 1.043 euro, vitto e alloggio inclusi, ma se si viene spediti in territori lontani dopo tre anni si possono già guadagnare 3.600 euro. «Qualunque sia la tua origine, la tua religione, la tua nazionalità, la Legione Straniera ti offre una vera opportunità per una vita nuova», recita il motto.
Ed è senz’altro vero. Danilo Pagliaro – veneto, classe 1956 – è entrato in Legione all’inizio degli anni Novanta. Ha combattuto praticamente ovunque: dalla Cambogia – dove erano ancora attivi gli ultimi Khmer Rossi – alla Repubblica Centrafricana. E ancora: la Costa d’Avorio, il Camerun, Gibuti. È stato paracadutato dietro le linee nemiche, in mezzo alla giungla, ha visto morire i suoi compagni e ha partecipato a decine di scontri. «La Legione è una scelta di vita», racconta Pagliaro, decorato della medaglia d’oro della Difesa nazionale francese. «È una grande famiglia, dove ogni membro veglia sulle vite degli altri. Qui non c’è posto per gli indecisi, e neppure per i furbi. Non si diventa ricchi, e si rischia di tornare a casa in una cassa di legno». Il loro motto, del resto, parla chiaro. È in latino: Legio patria nostra, «La Legione è la nostra patria».
Non tutti però restano fedeli a vita e c’è chi prende strade diverse, spesso pericolose. Giustino De Vuono (classe 1940), originario di Scigliano (Cosenza), espulso dalla Legione per atti di violenza, è stato ritenuto dalla magistratura vicino alla ’ndrangheta calabrese operativa a Milano. Con precedenti penali per rapina e per un doppio tentato omicidio, nel 1975 fu implicato nel rapimento di Carlo Saronio, un giovane simpatizzante dell’Autonomia operaia deceduto durante la prigionia. Renzo Pampalon (classe 1950), legionario in Corsica (interventi alle Comore e a Gibuti) e fondatore di una scuola di sopravvivenza denominata “Born to live”, è stato implicato con un altro legionario, Roberto Noé (classe 1956), in un progetto golpista che prevedeva l’occupazione della sede Rai di Saxa Rubra a Roma, uscendone assolto. Guglielmo Sinigaglia (classe 1953), condannato dalla magistratura militare francese per diserzione, è stato un testimone scomodo nelle indagini per la strage di Ustica del 27 giugno 1980. Giampietro Mariga (1946-1998) è stato invece militante di Ordine Nuovo. Raffaele Stammelluti (classe 1955) ha disertato e compiuto sette rapine. Paolo Viarengo (classe 1969) ora lavora in un istituto di vigilanza privata. L’ex legionario Paolo Simeone (classe 1971), un passato in Somalia, in Kosovo, in Angola e in Afghanistan, operava come “contractor” in Iraq, a contatto con la squadra di Fabrizio Quattrocchi sequestrata a Baghdad (ne facevano parte anche Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio).