Aldo Cazzullo, Sette 22/02/2013, 22 febbraio 2013
«LUCIO E IO POTEVAMO ESSERE MAESTRO E ALLIEVO, PADRE E FIGLIO, FRATELLI, AMICI, AMANTI
PER LA NOSTRA STORIA NON C’È LA PAROLA GIUSTA» –
«Il 7 dicembre 1997, scendendo dall’autobus in via D’Azeglio a Bologna, lo vidi subito. Camminava da solo, apparentemente spensierato e fischiettando. Ero a Bologna con la ragazza con cui stavo in quel periodo, per passare quattro giorni a casa di suoi amici. Le dissi che ci era appena passato accanto Lucio Dalla, e lei gli corse dietro…».
Comincia così una storia finita il primo marzo 2012, il giorno in cui Lucio Dalla se n’è andato. La racconta l’altro protagonista, Marco Alemanno, in un libro che sta per uscire da Bompiani, Dalla Luce alla notte, di cui mi mostra le bozze.
È la prima volta che Marco parla della sua vita con Lucio. Siamo da Cesàri, la trattoria preferita da Dalla, anche perché è a cento metri dalla grande casa di via Massimo D’Azeglio che divideva con Marco. Ora lui non può più entrarci. La questione dell’eredità e della Fondazione resta da risolvere. Ma non è di questo che parla il libro. Non c’è traccia di polemica e di rancore. C’è solo la gioia per i quasi quindici anni trascorsi al suo fianco, e il dolore per averlo perduto.
«Lucio mi chiese il nome e da dove venissimo. Appena sentì “Puglia”, sorrise e ci disse che “già solo per questo” gli eravamo più simpatici. Ci invitò a prendere un caffè nel pomeriggio. Quando aprì la porta, ci si presentò davanti un vero e proprio universo, non una semplice casa: i quadri, le statue, gli oggetti che riempivano i grandi saloni, il profumo di incenso e i tappeti dappertutto, gli affreschi settecenteschi al soffitto e lui, soprattutto lui, artefice di questo microcosmo. Gli raccontammo di noi. Fece quello che negli anni successivi ho scoperto essere un suo gioco ricorrente: si improvvisò mago, “sciamano” diceva lui, provando a immaginare dettagli privati su persone appena incontrate. Quella sera indovinò il mestiere del padre di lei: dentista. Poi mi fissò negli occhi e mi predisse il futuro e un po’ di passato: aveva visto nei miei occhi l’ombra di un dolore recente, la scomparsa di mio fratello Pasquale, che un anno prima era morto in mare. Cominciarono a tremarmi la voce, le gambe, le mani…».
«Il giorno dopo doveva andare a Firenze, dove aveva appuntamento con Francesco De Gregori, e ci invitò ad accompagnarlo. Mai avrei creduto, quando lo vidi, che tredici anni dopo con il Principe – il soprannome di De Gregori – avrei condiviso il palcoscenico per 103 sere. Solo più tardi avrei scoperto che il soprannome di Lucio per gli amici era il Ragno. Questo mi fece ricordare che, per consolarmi, tanti anni prima mi ero detto che, quando avrei avuto bisogno di Pasquale, mio fratello si sarebbe manifestato in un ragno. Probabilmente è solo una coincidenza. In ogni caso, l’incontro con Lucio mi avrebbe cambiato la vita».
«Nei mesi successivi ogni tanto mi telefonava o mi scriveva, per sapere come stavo, come andava la scuola, e se l’ombra della morte di mio fratello era sempre lì, dentro “quei tuoi occhi carbonosi di giovane pugliese”. Cominciai a spedirgli delle lettere, e lui rideva del fatto che le sigillassi con la cera lacca. Il 25 aprile 1998, giorno del mio diciottesimo compleanno, Lucio mi chiamò da New York per farmi gli auguri. Mi sentii meno solo dopo quella telefonata: piansi di gioia nel buio della mia stanza, ascoltando a ripetizione le sue canzoni che amavo di più, Le rondini e Apriti cuore. Fu allora che decisi di trasferirmi a Bologna per l’università».
«La domenica era diventata quasi un’abitudine vederci per passare insieme tutta la giornata. Dopo cena Lucio e io andavamo alla messa delle dieci in San Domenico: l’omelia di padre Giuseppe Barzaghi lo infiammava tutte le volte. “Credo ciecamente nel Signore e lo amo profondamente, ma a modo mio”, mi diceva. Mi ero iscritto a una scuola di teatro. Quando Lucio, avendo riscritto Tosca di Puccini, mi chiese di fare un provino per il ruolo del giovane console Angelotti, rifiutai, perché avevo preso un impegno con un’altra compagnia. Non riusciva a crederci: mi offriva l’opportunità di partecipare a una produzione colossale, e io gli dicevo di no? Per una settimana non rispose né ai miei messaggi né alle mie chiamate. Finché una sera mi telefonò, e mi disse di andarlo a trovare. Parlammo per ore, ascoltando tutto il tempo Kind of Blue, un disco di Miles Davis che Lucio conosceva quasi a memoria… Qualche mese dopo, mi invitò a Roma a vedere la sua Tosca. Mi chiese di cominciare seriamente a lavorare insieme e, dopo pochi mesi, di trasferirmi a vivere da lui. Era il 2003».
«La cosa da una parte mi allettava molto, dall’altra un po’ mi imbarazzava. Accettai ed entrai così nel suo mondo. Conobbi, tra gli altri, l’artista Stefano Cantaroni, un vero figlio, con il suo piccolo Giosué che lo chiamava appunto “nonno Lucio”; l’avvocato Paolo Bonetti, lo stesso Bonetti citato in Disperato erotico stomp; e poi diversi incontri straordinari. Alda Merini: Lucio viveva la sua stravaganza come un dono celeste. Enzo Bianchi, che conosceva fin dalla giovinezza. Mimmo Paladino e Luigi Ontani. Isabella Rossellini e Isabelle Huppert. Patti Smith e Victoria Chaplin. Roberto Roversi, il poeta che a metà degli Anni 70 aveva scritto molte canzoni con Lucio. Mettemmo in scena un adattamento di una sua opera teatrale, Enzo re, a tre voci: Lucio, io e Piera Degli Esposti. Durante l’adolescenza pare che Lucio e Piera siano stati mezzo fidanzati, entrambi mi hanno raccontato dei giri sui colli bolognesi in lambretta, con lei che stringendosi a lui gli sussurrava in un orecchio: “Hai i fianchi come quelli di Robert Mitchum!”».
«Poi c’erano gli incontri virtuali, quelli con i grandi personaggi che Lucio aveva conosciuto. Fellini era suo amico, mi parlava spesso di lui. Quando preparava Ginger e Fred, andava a sentire Lucio tutte le sere, e alla seconda canzone si addormentava. Il motivo del suo accanimento era “studiare” Lucio, perché voleva portare sul set un suo sosia. Ne aveva selezionati tre e cercava di capire chi gli somigliasse di più. Non riuscendoci, mise in scena tutti e tre i finti Dalla. Lucio si divertiva molto a ripetere di essere un grande bugiardo, precisando: “Più bugiardo di me ho conosciuto solo Fellini!”».
«Le sue però non erano bugie, ma iperboli. Diceva che la madre, al cui ricordo era legatissimo, aveva deciso di chiamarlo Ettore, ma aveva cambiato idea perché, appena venuto al mondo, lui aveva gridato: “Luce!”. Raccontava di quando da ragazzo andava a trovare Padre Pio, e di averlo visto anche dopo la sua morte, mentre si sporgeva da una finestra per salutarlo. Al cinema aveva intuizioni formidabili e la maggior parte delle volte indovinava quel che sarebbe accaduto. Mi rovinò così film come Shutter Island con DiCaprio e Il sesto senso con Bruce Willis: “Il protagonista è morto e il bambino vede il suo spirito!”, mi disse fin dall’inizio; poi rideva e si fregava le mani. Aveva trasformato una stanza della casa in una piccola sala cinematografica, con quattro file di vecchie poltrone recuperate da un cinema hard in disuso, dove in tutti questi anni abbiamo visto i film più diversi: Matrix e Uccellacci e uccellini, Kill Bill e Il settimo sigillo, Titanic e Blade Runner; e poi le opere dei fratelli Taviani, per cui era stato anche attore, in I sovversivi. Quando vinsero l’Orso d’oro a Berlino mandò loro un sms di una sola parola: “Fratelliii!!!”».
L’alberòsi e la presepìte. «Nel periodo natalizio sulla porta del “cinema” metteva una targa d’ottone che diceva: “Stanza dello scemo”. Per Lucio il Natale durava da inizio novembre a fine gennaio. Diceva di avere due patologie irreversibili, l’alberòsi e la presepìte. Tutta la casa si riempiva di alberi e presepi, e la “stanza dello scemo” ospitava un numero sempre crescente di finte casine e chiesette, piste di ghiaccio e giostrine illuminate, e poi decine di fari, mulini, stazioni, trenini, slitte, carillon, cori celestiali, suore, famiglie felici, renne, Babbi Natale rubizzi e altri che scendevano sciando dalle montagne…».
«Giravamo di continuo: New York, Madrid, Barcellona, Siviglia, Atene, Vienna, Mosca, Londra, Lucerna, Malta, Cannes, Toronto, Zurigo, dove alla Kunsthaus mi mostrò il quadro di Boecklin, La predica di Sant’Antonio ai pesci, che gli aveva ispirato Come è profondo il mare. Siamo stati un mese a Wexford, in Irlanda, che Lucio ha amato molto. Ma soprattutto amava il Sud. Aveva una casa alle Tremiti, dove nelle notti senza luna andavamo in barca a cercare le diomedee, gli uccelli marini in cui, secondo la leggenda, furono mutati i compagni di Diomede, e un’altra a Milo, alle pendici dell’Etna. La notte dormiva pochissimo, massimo quattro ore; poi si alzava, vagava per le stanze, pensava, scriveva, talvolta usciva a fare un giro da solo, per poi recuperare durante il giorno con piccoli riposini di dieci minuti ovunque fosse, in teatro, al cinema, o anche al telefono con il giornalista che lo intervistava. Davvero, l’ho visto assopirsi mentre era in diretta a una radio, svegliarsi in tempo per rispondere alla domanda, e poi riprendere sonno».
«Dava soprannomi a tutti (io ero prima Freccia, poi Trìcchete), sapeva essere tagliente, ma era ironico anche con se stesso. Raccontava di quando bambino aveva esordito a teatro, con una piccola parte. Doveva entrare cantando: “È qui che viene Gianni Schicchi!”. Lo fece alla sua maniera, quasi tenorile, calcando i toni. Il regista non apprezzò: “Fatemi sparire questo piccolo mostro!”. Ai provini lo scartavano sempre: troppo brutto e peloso. Ma a Sanremo la madre e un’amica gli trovarono il look giusto, la camicia bianca e il basco; il resto lo fece la canzone, che Lucio chiamò sempre Gesubambino, anche se la censura gli aveva imposto di cambiare il titolo, e che divenne 4/3/1943, sua data di nascita. Da allora Lucio detestava il suo compleanno: quel giorno staccava il telefonino. Gli amici veri lo sapevano e lo chiamavano il giorno prima, per tutti gli altri era irraggiungibile. Aveva imparato ad allacciarsi le scarpe a vent’anni e non ha mai imparato a farsi le valigie. Quando partiva senza di me gliela facevo io, e la ritrovavo intatta al suo rientro. “Guarda che bravo sono stato a rifarla!”, mi diceva; ma io sapevo che non l’aveva toccata. Per lui sono diventato Arlecchino e San Francesco, gli ho insegnato a cantare in dialetto salentino alla Notte della Taranta, sono stato il produttore artistico dei suoi ultimi quattro dischi e il suo fotografo personale. Anni fa mi ha detto: “Io sono pazzo ma tu non sei da meno, fratellino!”».
«Il giorno prima che morisse arrivammo a Montreux nel pomeriggio. La sera avevamo il terzo concerto della tournée europea. Prendemmo la nostra stanza, una suite con una vista meravigliosa sul lago. Finito di cantare, mi portò a vedere la statua di Freddie Mercury, che è lì vicino. Mi inginocchiai per accendere una candela. Lucio disse una preghiera in silenzio. Pensai a quando ascoltavo la voce di Freddie per ore, e a mio fratello, che me l’aveva fatto scoprire, e piansi. Lucio se ne accorse. Mi abbracciò. Poi diede una gran pacca sul braccio della statua e disse: “Ci vediamo domani, grande Freddie!”. Il giorno dopo, in effetti, credo si siano visti davvero».
«Lucio mi ha regalato un sentimento nuovo, che non avevo messo in conto e che invece si è rivelato in tutta la sua semplice e autentica natura. La nostra è stata una favola moderna. Per questo non ha bisogno di etichette. Mi ha fatto molto soffrire e mi ha indignato la strumentalizzazione operata dai media dopo i suoi funerali. Avevano avuto settant’anni di tempo per rompere le scatole a Lucio; perché farlo dopo la sua morte? Non è stato rispettato né l’uomo né l’artista. Ho detestato tutte le polemiche, gli inutili pettegolezzi, le rivendicazioni. Lucio e io potevamo essere maestro e allievo, padre e figlio, fratelli, amici, amanti. Non c’è la parola giusta. “Ci completiamo”, diceva. Più di tutto Lucio ha amato sempre il gioco. Con se stesso ha giocato fino all’ultimo, distruggendosi e rinascendo mille volte dai suoi resti, buttandosi via continuamente e generosamente per essere di tutti e nello stesso tempo di nessuno. Era un gigante buono curiosamente basso di statura, un uomo profondamente felice e profondamente solo, nei suoi frequenti e ispirati abbandoni. A furia di inseguirla, la vita gli è venuta meno, proprio per troppo slancio, per troppo ardore, per troppa vita: così vita da morire. Sono gli amici e la bellissima storia che Lucio mi ha donato la vera eredità che mi ha lasciato in quel mattino».
«Se avessi accettato di partecipare alla sua Tosca, avrei dovuto recitare anch’io in quella scena struggente in cui Spoletta dice, guardando il volto del giovane console romano: “Tu e i tuoi poveri vent’anni potreste essere a me figli, quei figli che non ho avuto, che non avrò mai, cuori fatti a pezzi e volati via, fiori, passeri spezzati, fulminati dalla grandine in tempesta, anime senza pace che mi urlano ancora dentro quel pozzo buio che è la mia testa”. Riletti oggi, questi versi strazianti mi sembrano parlare con voce nuova al mio cuore ferito: pare sia Lucio stesso a rivolgermi le parole di Spoletta, pare sia lui ad avere pietà dei miei poveri trent’anni, anche se quel pozzo buio oggi è la mia testa, è ciò che è diventata da mesi la mia anima senza di lui. Oggi è mio quel cuore fatto a pezzi e volato via coi petali dei fiori; e quell’anima senza pace, che urla in silenzio e chiama invano il suo nome, è la mia».