Maurizio Tortorella, Panorama 21/2/2013, 21 febbraio 2013
CHI SFASCIA MI SEGUA
[Spinto da inchieste, arresti e scandali, Beppe Grillo vola verso un risultato fra il 15 e il 20 per cento dei voti e rischia di portare in Parlamento un fitto gruppo di eletti. Le cui idee, se mai fosse tradotto in leggi il programma del Movimento 5 stelle, costerebbero almeno 85 miliardi di euro pubblici] –
Alla fine la cosa più giusta l’ha detta Silvana Carcano, fino a ieri ignota ambientalista di Paderno Dugnano, oggi candidata alla presidenza della Lombardia per il Movimento 5 stelle e domani fra i sicuri eletti in consiglio: «Con tutto quello che accade potevamo anche stare seduti, zitti, e non fare alcuna propaganda». Era metà febbraio. E sorrideva, Silvana, mentre intorno a lei una cinquantina di dipendenti regionali sfilavano sotto il Pirellone, vestiti da clown e avvolti nelle bandiere grilline, per protestare «contro la corruzione dei politici, i veri pagliacci».
Eh sì, negli ultimi 15 giorni la più efficace campagna elettorale per Beppe Grillo l’hanno fatta procure e tribunali. Sull’Italia che già iniziava a scaldare seggi, schede e urne è piovuta una grandinata di ordini di custodia cautelare, una nevicata di avvisi di garanzia, una gelata d’indagini. Con il consueto strascico, devastante, d’intercettazioni, stralci di verbali e condanne preventive sui giornali. L’effetto è lì: guardateli bene, gli arrestati dell’ultima settimana, finiti sotto la slavina di quella che i giornali già chiamano (e non è un caso) «la nuova Tangentopoli». Guardateli, perché proprio com’era accaduto nei primi anni Novanta, ai tempi di Mani pulite, gli ex potenti in manette si assomigliano tutti.
Possono essere di destra o di sinistra, vicini o lontani dai partiti, innocenti o colpevoli, ma nelle foto delle cronache giudiziarie sono desolatamente identici: eccoli lì, stretti fra gli agenti, le spalle curve, a volte un cappuccio calcato sulla testa per cercare di salvarsi dai fotografi. Sono il simbolo del malaffare trasversale, della corruttela bipartisan, di un Paese derubato, marcio, finito. Che può essere salvato solo con un «trattamento disinfestante», nemmeno si trattasse di tarli, di cimici, di blatte. È stato Grillo a dirlo. Parlava a Susa, l’ex comico, e nella patria dei no Tav lo ha gridato forte e chiaro ai suoi accoliti: «Siete un Ddt naturale, il faro che illumina il ladro».
Era giovedì 14 febbraio, il giorno che passerà alla storia per la retata di San Valentino che s’è portata via in manette quattro «eccellenti »: Gianluca Baldassarri, l’ex capo della finanza del Monte dei Paschi, la «banca rossa» finita nei guai per un buco miliardario; Angelo Rizzoli, ex editore, accusato di bancarotta fraudolenta; Alessandro Proto, il finanziere già candidato alle primarie del Pdl e indagato per i suoi «annunci truffa»; Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, accusato di «spiccate capacità delinquenziali» e di pressioni indebite per ottenere l’agibilità dello stadio. Indagati per accuse molto diverse tra loro, nate in epoche e in città differenti, ma tutte finite con un ordine di custodia cautelare in carcere: come se anche le toghe fossero travolte da una vena di qualunquismo giudiziario, incapaci di distinguere fra potenziali responsabilità penali e sanzioni da applicare.
E Grillo? Ha gioito per gli arresti e ha annunciato, ieratico: «Presto ne arriveranno altri». Una boutade, certo. Però l’ha detto come se davvero le procure in qualche modo lavorassero per lui. Sembra esserne convinto Marcello Sorgi, ex direttore della Stampa: «L’unico che ha qualcosa da guadagnare dal fuoco di fila di ordini di cattura è Grillo» sostiene. «Fino a poco fa, la descrizione dell’Italia che sciorinava nel suo Tsunami tour poteva sembrare esagerata. Ora quel che Grillo urla è diventato purtroppo simile alla realtà».
È un po’ la notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere, indistinte. E la scura mandria si accresce di giorno in giorno, grazie all’equanime operato di magistrati e giudici. Sui guai giudiziari di Giuseppe Mussari, l’ex presidente del Monte dei Paschi che in pochi anni ha personalmente regalato 700 mila euro al Pd, alla fine di gennaio per qualche settimana aveva fatto propaganda il Pdl. Ma poi una raffica di colpi ha massacrato il centrodestra: il 12 febbraio il dimissionario presidente lombardo Roberto Formigoni, già rosolato sulla graticola di un’inchiesta su presunte corruttele sanitarie avviata a metà del 2012, è risultato indagato anche per associazione a delinquere. E l’indomani, a Bari, l’ex ministro del Pdl Raffaele Fitto è stato condannato in primo grado a 4 anni per corruzione. Così Grillo, davanti a una piazza oceanica a Torino, ha rilanciato la richiesta di «una commissione d’inchiesta per tutti i vertici del Pd dal 1995 a oggi, coinvolti come sono nel caso Mps». E poi ha attaccato «il governatore Forminchioni», gentilmente proponendone l’espatrio coatto.
Ma la cronaca giudiziaria preelettorale non s’è limitata alla politica. Il 7 febbraio è finito sotto inchiesta Paolo Scaroni, amministratore delegato del colosso petrolifero Eni, per le presunte tangenti pagate in Nigeria dalla sua controllata Saipem. Cinque giorni più tardi la Corte d’appello di Milano ha condannato Niccolò Pollari, ex capo del Sismi, a 10 anni di carcere per complicità nel rapimento di Abu Omar, l’imam egiziano prelevato con la forza dalla Cia nel 2003 per i suoi legami con il terrorismo islamico. Quello stesso giorno sono finiti in carcere Giuseppe Orsi, amministratore delegato della Finmeccanica, e Bruno Spagnoli, a capo della Agusta Westland: accusati di corruzione internazionale in una grossa fornitura di elicotteri all’India (oltre mezzo miliardo di euro). Il 18 febbraio è emersa un’appendice velenosa per il governo di Mario Monti, con la notizia che il successore di Orsi nominato dal ministro dell’Economia Vittorio Grilli, e cioè Alessandro Pansa, nel 2007 avrebbe fatto pressioni perché la Mediobanca concedesse un finanziamento da 500 mila euro alla moglie di Grilli. Il 19 gli ex amministratori delegati dell’Alitalia Francesco Mengozzi e Giancarlo Cimoli sono stati rinviati a giudizio per il crac del 2008. Davanti a questo disastro che ha potuto dire, Grillo? Ovvio, l’ha buttata in politica attaccando i «tangentari di Stato» e commentando, sarcastico: «Ucci, ucci, sento odor di partitucci…».
Va detto, nelle ultime settimane la difesa dei «partitucci» non è stata molto efficace. A sinistra Pier Luigi Bersani si è limitato a un poco credibile: «Nessuna responsabilità del Pd, per l’amor di Dio. Il Pd fa il Pd e le banche fanno le banche». A destra Silvio Berlusconi ha evocato una «manona giudiziaria» favorevole alla sinistra. La Lega ha criticato gli «indebiti accostamenti» fra alcuni uomini d’impresa indagati (Orsi) e il suo leader, Roberto Maroni. Altri hanno parlato di giustizia a orologeria.
Ma la questione va ben oltre le date, le lancette e le distinzioni partitiche. Travolge ogni ragionamento, tracima nel disgusto collettivo per la politica. E soltanto Grillo, incarnando la pura protesta antisistema, pare in grado di trasformare quel sentimento negativo in voti, neanche fossero le picche su cui innalzare le teste ghigliottinate. Del resto, nelle cronache giudiziarie destra e sinistra spuntano come facce speculari dello stesso disastroso mangia-mangia. Ed è così da mesi. Nel 2012, regione dopo regione, si è scatenato il sabba delle sacrosante (ma tardive) inchieste sui rimborsi elettorali ai partiti, di maggioranza e d’opposizione. L’ultima inchiesta è stata quella della Procura di Milano. In dicembre aveva depositato gli atti sui rimborsi dei gruppi del Pdl e della Lega, accusati di avere usato denaro della Regione Lombardia per matrimoni e viaggi privati. In gennaio la procura ha fatto altrettanto con il Pd e con Sel, accusando di peculato i consiglieri per cene allegre e acquisti di iPhone e perfino di Nutella.
Sinistr’, destr’, sinistra, destra: ormai è una trionfale marcia di guerra per Grillo. Lui si diverte, lancia sfottò agli avversari: «Partiti arrendetevi» sghignazza. «Siete circondati dal popolo italiano. Uscite con le mani alzate!». E prepara nuovi botti. Il suo amico Adriano Celentano martedì 19 non confermava ancora se il 22 sarebbe salito sul palco del Movimento al «Boom day», all’ultimo comizio romano in piazza San Giovanni, ma intanto lancia l’ultima canzone, un inno all’«onda nuova partita dal niente» che spazzerà via «la politica che promette solo bugie».
L’8 febbraio, ultimo giorno di libertà per i sondaggisti, Alessandra Ghisleri della Euromedia Research lo aveva predetto: «Attenti, il grande botto lo farà Grillo. Perché oggi è quotato al 14,5 per cento, ma i trend e le piazze tutte piene indicano altri vertiginosi recuperi». Vertiginosi recuperi? Ne è certo il politologo Ilvo Diamanti, convinto che Grillo e il suo mentore Gianroberto Casaleggio non stiano sbagliando una mossa: «Ha fatto bene anche a non andare in televisione il 17 febbraio» sostiene Diamanti «perché non gli sarebbe convenuto e anzi avrebbe contraddetto programma politico e strategia di comunicazione. Tanto è spinto dagli scandali che hanno scosso gli ambienti politici e finanziari: alimentano il vento che gonfia solo le sue vele».
Dove arriverà la barca di Grillo, il 25 febbraio? Al 15 per cento? O al 20, come alle ultime regionali in Sicilia? Per un partito nato dal nulla, il risultato sarà comunque un successo. Che però porta con sé il rischio d’immobilismo: perché se nella filosofia grillina ogni intreccio affaristico è come l’intreccio politico, cioè sporco e malato di corruzione, la soluzione più semplice è fermare tutto. Coerentemente, nelle sue liste Grillo ha imbarcato molti no Tav e una miriade di membri di comitati antiautostrade, antiinceneritori, antiqualcosa: candidati che nelle piazze e sul web per mesi hanno detto al loro pubblico d’indignati che devono essere bloccate sul nascere non soltanto l’alta velocità, ma tutte le grandi e piccole opere pubbliche. Perché servirebbero esclusivamente a produrre tangenti.
E dal 26 febbraio il Movimento 5 stelle porterà in Parlamento 70, 80, anche 100 eletti. Tanti, tantissimi: forse anche troppi, come ora comincia a fare intendere lo stesso Grillo. Lui non ci sarà, ma da tutti i suoi pretenderà assoluta obbedienza, pena il fulmine che ha già colpito i dissidenti locali, come Giovanni Favia, l’ex assessore emiliano espulso per qualche critica di troppo al capo. «Quasi sicuramente nella stragrande maggioranza dei casi Grillo otterrà obbedienza» prevede Elisabetta Gualmini, docente universitaria a Bologna e coautrice di Il partito di Grillo (Il Mulino). Ma aggiunge scettica che, così come è accaduto finora negli enti locali, la vera parola d’ordine cui deputati e senatori a 5 stelle dovranno uniformarsi sarà il no. E sarà no a tutto: per non contaminarsi con la politica non parteciperanno a maggioranze di nessun genere e, immobili fautori d’immobilismo, voteranno contro tutti i provvedimenti degli altri. Politicamente inesperti, legati all’ambito locale dal quale provengono, abituati a un movimentismo efficace quando c’è da contestare, ma poco inclini alla realizzazione concreta che può uscire solo da una mediazione, i grillini saranno tanti piccoli marziani a Roma. Accenderanno di nascosto le loro webcam in commissione e metteranno online qualche filmino, divertente o sconfortante a seconda dei punti di vista.
Come si è letto nella campagna per le «parlamentarie», le scombiccherate primarie del movimento, presenteranno proposte di legge per tagliare le spese militari, chiederanno di tassare i redditi delle prostitute. Quindi vorranno bloccare per sempre la linea ferroviaria Torino-Lione e dare un sussidio a tutti i disoccupati. In totale, le proposte nel programma di Grillo costerebbero almeno 85 miliardi (vedere la scheda a sinistra), ma quasi sicuramente resteranno nei cassetti delle commissioni. E poi? Se non riusciranno a fare altro, se non si faranno «comprare» da altri gruppi parlamentari (Bersani ha già manifestato l’intenzione di fare «scouting» tra di loro), i grillini contribuiranno ad accelerare la fine della prossima, difficile legislatura. E saranno forse l’ennesima, disastrosa occasione perduta.