Roberto Fabbri , il Giornale 21/2/2013, 21 febbraio 2013
ANCHE LA CINA INVECCHIA E ORA CHI PAGA LE PENSIONI?
[Rischio dissesto dei conti pubblici con 185 milioni di ultrasessantenni e troppo pochi a pagare i contributi] –
Centottantacinque milioni di ultrasessantenni da mantenere non sono uno scherzo neanche per l’economia più rampante del mondo. E anche se la Cina può contare su tasse e contributi versati da circa un miliardo di persone (la popolazione totale dell’immenso Paese asiatico si aggira sul miliardo e 350 milioni) la sfida previdenziale che Pechino deve fronteggiare fa tremare le vene ai polsi. Diciamo la verità: a noi occidentali che le pensioni viviamo nell’ansia di non vedercele nemmeno più corrispondere, dà un certo piacere perverso apprendere che i nuovi benestanti d’Oriente comincino a misurarsi con certi problemi. E gli americani in particolare, che nei prossimi decenni dovranno fronteggiare enormi spese militari per contenere la prevedibile crescita del dragone cinese, ripongono fondate speranze nei problemi che creerà ai generali di Pechino l’impennata della spesa sociale.
Il nuovo leader comunista cinese Xi Jinping recentemente ha parlato molto chiaramente con i suoi compagni: se non terremo adeguatamente conto delle attese di benessere e giustizia dei nostri concittadini, faremo la fine di Gorbaciov in Unione Sovietica. La questione delle pensioni sarà in questo senso un ottimo banco di prova: la diffusa insicurezza per la vecchiaia rischia di diventare una fonte di preoccupazione per la stabilità del regime non meno seria di quella oggi rappresentata dalla diffusissima corruzione.
L’incubo fondamentale discende dalla domanda «chi pagherà? ». Se infatti in Cina il numero degli aventi diritto a una pensione cresce velocissimamente ( si calcola che i 185 milioni diultrasessantenni di oggi saranno il doppio nel 2030), la base dei lavoratori in attività che pagano i contributi per loro tende a restringersi: conseguenza della «politica del figlio unico» che da decenni viene severamente applicata per contenere l’espansione demografica nel Paese più popolato del mondo. Ma non aiuta neanche l’età generosamente bassa ( 60 anni per gli uomini e 55 per le donne, che scende a 50 per quelle che lavorano in fabbrica) a cui si ha diritto a lasciare il lavoro. I comunisti al potere la giustificano con l’opportunità di lasciare spazio ai giovani, ma presto i nodi verranno al pettine e sarà inevitabile innalzare l’età della pensione e consentire alle coppie cinesi di avere più di un figlio.
In attesa di indispensabili riforme, la Cina attuale non sembra davvero essere un «Paese per vecchi». Uno studio recente, citato in un articolo del professore americano Mark Frazier, stima che nei prossimi vent’anni il governo di Pechino avrà accumulato l’astronomica cifra di 11mila miliardi di dollari in debiti pensionistici. Del resto, si legge nello stesso articolo, già negli anni Novanta si era cominciato ad assistere in Cina a manifestazioni di protesta per pensioni non corrisposte. E se in passato i contadini senza pensione sopravvivevano sulle spalle delle loro famiglie, gli anziani della nuova Cina più urbanizzata dovranno per forza rivolgersi allo Stato.