Giordano Tedoldi, Libero 21/2/2013, 21 febbraio 2013
DALL’ASSICURATORE KAFKA A FANTOZZI LA BUROCRAZIA È ROBA DA ROMANZO
[La vita d’ufficio ha ispirato (e materialmente nutrito) una lunga serie di geni e personaggi creando la letteratura borghese. Fino a mettere in allarme Stalin] –
Alexander Pushkin, gran bevitore, gran giocatore, gran seduttore, morto dopo il duello con l’amante della moglie, per campare faceva l’impiegato del ministero degli Affari esteri a Pietroburgo. Franz Kafka lavorava alle assicurazioni per gli infortuni sul lavoro del regno di Boemia; e nelle note di qualifica il suo superiore diretto, il dottor Pfohl, lo valutava così: «Instancabile, assiduo e ambizioso, egregiamente utilizzabile, il dottor Kafka è di straordinaria operosità, di spiccata intelligenza e di grande zelo nell’adempimento del suo lavoro». Nathaniel Hawthorne faceva il mezzemaniche alla dogana di Boston e poi di Salem, dove, come scrive nel suo romanzo più celebre, La lettera scarlatta, i funzionari «sono scelti perché perseguano il proprio profitto e la propria convenienza, e di rado in base al criterio prioritario della loro idoneità al compito da svolgere». Heinrich Böll trovò tranquillità economica all’ufficio statistico comunale di Colonia. Guy de Maupassant, dipendente del ministero della Marina francese, si guadagnò questo giudizio dal direttore del servizio: «Coscienzioso, ma non sa scrivere». Lui, che scrisse gemme della letteratura impiegatizia come i racconti In famiglia, L’eredità, La collana.
L’elenco degli scrittori che trovarono ispirazione (e i mezzi per campare) alla scrivania di un ufficio o in una carica amministrativa è lungo, e lo trovate nel bellissimo saggio di Luciano Vandelli: Tra carte e scartoffie. Apologia letteraria del pubblico impiegato (Il Mulino, pp. 312, euro 22). Il fatto che Vandelli non sia un critico letterario ma un giurista ci convince nella tesi che è sempre meglio far parlare di letteratura chi proviene da un’altra area, portando un contributo obliquo e originale. L’idea di esplorare il mondo degli uffici, dei pubblici impieghi, delle cariche statali (repubblicane, regie, imperiali o imperialregie) come scaturigine della letteratura borghese e dunque moderna, produce effetti di grande interesse e spesso comici.
Del resto, romanzi e scartoffie non si affrontano con la stessa attrezzatura, carta e penna e ora i computer, anche quelli vintage dell’amministrazione pubblica? La somiglianza tra i due mondi viene vista con sarcasmo in quel capolavoro che è Oblomov di Ivan Goncarov (impiegato del ministero delle Finanze) nel dialogo tra il protagonista e un vecchio compagno di studi, Sudbinskij, che vanta la progressione miracolosa della sua carriera impiegatizia: «“Bravo! - riconosce Oblomov - Però ti tocca lavorare dalle otto a mezzogiorno, da mezzogiorno alle cinque e poi ancora a casa; ahi, ahi!”. E scuote la testa. “E cosa farei tutto il giorno, se non lavorassi?”.“Potresti leggere, scrivere...”. “An - che adesso non faccio altro che leggere e scrivere”. “Ma non è la stessa cosa...”», gli fa notare Oblomov.
Non sarà la stessa cosa, però Kafka spediva, anzi, trasmetteva copie delle sue relazioni d’ufficio, come fossero racconti, alla fidanzata Felice Bauer, agli amici e a scrittori come Franz Blei, all’epoca influente direttore di riviste letterarie, accludendo un biglietto: «Poiché è mia opinione che Lei tenga particolarmente alla lingua ceca, Le invio una relazione annua del mio Istituto, che è appena uscita e di cui io sono l’autore fino a pagina 22. Voglia accettarla con amicizia».
Altri, al contrario, si vergognavano di far coincidere il lavoro “ufficiale” e quello di scrittore, oppure ne temevano contraccolpi sulla carriera, o entrambe le cose, come l’irrequieto Henri Beyle, in arte Stendhal ovvero gli altri circa 250 pseudonimi che utilizzò nei suoi scritti: F. de Lagenevais, Alexandre Bombet, M. de Léry, Is Ich Charlier, Banti, Machiavel, Mocenigo. Maschere infinite che non rivelassero l’imbarazzante segreto che l’autore de Il Rosso e il Nero e de La Certosa di Parma fosse proprio quel Beyle uditore al Consiglio di Stato alla presenza di Napoleone e poi, al tempo della monarchia di Luglio, aduggiato console di Civitavecchia, dalla quale scappava appena poteva, dopo che Metternich in persona, memore dei suoi trascorsi bonapartisti, aveva posto il veto allo stesso incarico a Trieste.
Del resto l’impiegato frustrato, in crisi tra sogni privati e disciplina sul lavoro, è il perfetto modello dello scrittore borghese, angosciato tra gli obblighi materiali e i miraggi della creatività. Così lo scrittore austriaco Heimito von Doderer, nel romanzo Le finestre illuminate mette in scena Julius Zihal, funzionario dell’imperial-regio Ufficio centrale delle imposte di Vienna, che si dispera e si consola come può: «Un burocrate è un essere umano? No, ma può diventarlo ». E poco umana è la figlia del burocrate Fantozzi, invariabilmente scambiata per una bertuccia. Peraltro anche le impiegatizie Domeniche di un borghese di Maupassant offrono l’incontro con un «essere innominabile, che tuttavia doveva essere una donna».
Nata con la letteratura del quotidiano di Balzac, Flaubert e Maupassant, l’apologia dell’impiegato come eroe letterario tocca il suo vertice di assurdo e di comicità (aspetto troppo spesso sottovalutato, quest’ultimo) con Franz Kafka. Nel Castello, il funzionario Buergel atterrisce l’agrimensore K. che non riesce a penetrare nel Castello, metafora, a detta dell’amico di Kafka e suo esecutore testamentario, Max Brod, della Grazia divina: «La nostra organizzazione amministrativa è senza errori – spiega il funzionario Buergel – E tuttavia è perfettamente irrazionale». Anche il Dio di Kafka, per salvare i suoi fedeli, è sepolto di pratiche e faldoni in cui stenta a raccapezzarsi; il divino è incomprensibile all’umano, ma anche l’umano al divino, l’incontro è sempre rinviato.
L’autore de Il maestro e Margherita, Michail Bulgakov, intuì invece nella burocrazia, che per lui era quella paranoica del regime sovietico, l’insinuarsi non dell’irrazionale ma del disumano, dell’uomo-ingranaggio. Così nelle sue sceneggiature tratte dai capolavori impiegatizi di Nikolai Gogol, Le anime morte e L’ispettore generale, introduce un teatro di marionette, destini appesi ai fili di un manovratore occulto che non è altro che il sistema di potere stalinista. E Stalin, che come tutti i grandi dittatori aveva occhi acutissimi per cogliere i sottintesi politici nell’arte, fece la famosa telefonata a Bulgakov in cui gli disse che poteva tranquillamente continuare a scrivere, nessuno gliel’avrebbe impedito, solo che i suoi libri non sarebbero stati pubblicati e le sceneggiature non sarebbe diventate film. A tal segno mettevano in allarme quelle storie di impiegati!
A ricordare che la burocrazia non è affatto innocua, c’è anche la vicenda dell’ultimo testo incompiuto di David Foster Wallace, Il re pallido. L’autore, gravemente provato dalla depressione che lo portò al suicidio, ambientò il suo ultimo progetto romanzesco nel centro controlli dell’Agenzia americana delle entrate. Vite e pensieri di impiegati, di anime appese ai fili, o alla corda dell’impiccato.