varie, 21 febbraio 2013
Blob Eugenio Montale Nel gennaio 1949, al Teatro Carignano di Torino, Montale (classe 1896) conosce Maria Luisa Spaziani, letterata venticinquenne dalla «falcata prodigiosa»
Blob Eugenio Montale Nel gennaio 1949, al Teatro Carignano di Torino, Montale (classe 1896) conosce Maria Luisa Spaziani, letterata venticinquenne dalla «falcata prodigiosa». Disdice ogni impegno e le dà appuntamento per l’indomani (lei, rincasando la notte: «Mamma, non ti spaventare, domani viene a pranzo Montale»). «Forse bevve mezzo bicchiere in più rispetto alla sue parche abitudine ed ebbe l’idea di mostrarci come aveva visto danzare una baiadera durante una sua visita in Libano quattro giorni prima, su incarico dell’Unesco e del Corriere della Sera: si alzò da tavola, prese un grosso tovagliolo, se lo cinse ai fianchi e facendo il giro del tavolo si mise a sventolarlo in aria a destra e a sinistra e dietro al capo, fra l’atterrito sguardo dei presenti, soprattutto quello del monacale Luigi Pareyson che aveva appena pubblicato un saggio sull’essenziale radice metafisica della sua poesia». Montale a Spaziani: «Come sarebbe bello se le vancanze fossero lunghissime, se io potessi lasciare il Corriere, se avessi una piccola rendita, una biblioteca di non più di cinquanta libri, come Petrarca, una casetta sul mare con due palme... e sposassi tua sorella!». Montale non sapeva andare in bicicletta. Spaziani: «Più giovani di lui di qualche anno, i miei genitori non avevano il più lontano sospetto che il grande Montale mi facesse la corte. Così lo invitavano a condividere la nostra villeggiatura tra Cervia e Milano Marittima». «Dalla sua locanda, ai bordi della pineta, era sempre il primo a giungere in giacca e cravatta, scarpe e calze al nostro ombrellone al mattino, e così era immancabile, la sera, al rito del gelato con le amarene. Nuotava, sì, “con caute mosse da bradipo” diceva, guardandosi intorno “per vedere testimoni della mia bravura e prenotare eventuali salvatori”». «Aveva un costume da bagno completo, blu scuro con un grosso Topolino a strisce bianche e rosse sulla destra. Il nuoto fu forse l’unico sport, se così si può dire, che avesse praticato in vita sua. “No”, raccontò, “una volta ho giocato a bocce con Camillo Sbarbaro, ma forse mi ritirai prima della fine per paura di vincere io”». Lui ha il doppio degli anni di Maria Luisa, a Milano si frequentano molto, le dà il nomignolo di Volpe «che non soltanto mi regala la luce della sua giovinezza, quanto mi restituisce la mia che non ho mai avuta» (in una dedica). «Mi chiese di sposarlo più volte. (...) Ma Eugenio ed io non avemmo il coraggio di staccarci da due persone (lui da Drussilla Tanzi, lei da Elémire Zolla, ndr)». Spaziani affezionatissima all’endecasillabo montaliano: «Alte tremano guglie di sambuchi». Poi, una volta, passeggiando per un sentiero Montale chiede: «Che bel fiore, che cos’è?». «Ma come sarebbe a dire che cos’è? Eugenio, stai scherzando? Quelli sono sambuchi!». Lui la guarda stupito: «E con questo?». Litigano. Lui si giustifica ripetutamente: «Ma sai, la poesia si fa con le parole». Gesti per i quali Montale non era mai preparato: togliersi i guanti, scostare la sciarpa, cercare il portafoglio. La sorella, Marianna, a Montale, nel 1919: «Noi, a differenza dei parenti e degli amici che abitano in altre regioni, non abbiamo l’abitudine di farci regali, vero? Ma fra poco compirò venticinque anni e questa volta, Eugenio, da te un regalo lo voglio proprio. Devi scrivere altre cinque o sei poesie. Trova il tempo, ti prego, tra il canto e i tuoi filosofi». Marianna la chiamava «Genio». Spaziani: «Per caso saresti geloso?». Montale: «Sì, per tutto il tempo che ti divide da me quando non è necessario». Montale e Spaziani, ospiti in Francia della principessa romana Maria de Gramont, ascoltano un suo ricordo di Proust: «Si accucciava ai miei piedi come il gatto di casa, parlava meravigliosamente come se raccontasse favole, e poneva mille domande strane su tutti, su tutto. E una sera fece una cosa davvero insolita. Arriva una carrozza a Faubourg St-Germain poco prima della mezzanotte, ne scende un giovane uomo impellicciato, pallidissimo sotto la barba nera, con due o tre sciarpe intorno al collo. Al maggiordomo dice che deve parlare urgentemente con la duchessa Maria. In fretta mia alzo, infilo un peignoir, sono molto stupita ma lo ricevo come se quella visita fosse la cosa più naturale e gradita del mondo. Mi dice, stringendomi la mano tra le sue: “Illustre duchessa, cara Maria, sei anni fa lei ha partecipato a un veglione all’ambasciata d’Inghilterra… e indossava un antico costume della corte cinese, vero? Le cronache del tempo dicono che era di color viola, ma io dovrei sapere se era davvero viola, tutto viola, o se aveva delle strisce, delle volute, dei ricami di crisantemi per esempio, e se il viola fosse cupo, intenso, come quello dei paramenti cattolici del mercoledì delle Ceneri, o sfumasse piuttosto in gradazioni fino al quasi rosato dei tramonti normanni in primavera…». Spaziani: «Arenzano, comune genovese sulla Riviera ligure di ponente, nella villa dei ricchi coniugi Rodocanachi, origine greca. D’estate, ogni anno, invitano i più bei nomi della musica e delle lettere. Due o tre anni, insieme ad altri, Gadda e Montale. Pranzi un po’ formali, in abito scuro. I camerieri passano accanto a ogni ospite porgendo il vassoio grande perché si serva da solo. Poi fanno un secondo giro. Montale, generalmente poco interessato al cibo, non si serve mai di nuovo. Gadda sì, abbondantemente, ma poiché Montale, nemmeno una volta dà segni di accettare il secondo giro – i due si trovano l’uno di fronte all’altro sul lungo tavolo – Gadda ne deriva un disagio, quasi una vergogna e interpreta certe occhiate casuali di Montale come un rimprovero, una critica un po’ ironica. Non è vero, ma Gadda si lascia condizionare e finisce per mangiare poco o niente. L’uso vuole che a pranzo finito gli ospiti passino nella saletta attigua per il caffè. Gadda si scusa con tutti se per certe sue esigenze «peristaltiche» sia costretto a fare due passi in giardino. Rifiuta accompagnatori, raggiunge un’osteria e si fa servire una fiorentina al sangue con contorno. La cosa rimarrebbe senza storia se Gadda non se ne andasse senza pagare. L’oste, che lo conosce come ospite dei Rodocanachi, manda un inserviente alla villa con il conto. La padrona di casa, incuriosita e divertita, paga subito. Ma poi giorni dopo ne parla a Gadda stesso, scusandosi se la cucina non era all’altezza della sua fame. Gadda prima ne rimane sconvolto, poi perde la calma e impelagandosi in mille scuse e giustificazioni accusa Montale di quella sua gaffe, di quella «imperdonabile tragedia» perché lui non si era mai servito per la seconda volta e lo aveva guardato fisso «con quella sua faccia da Venerdì Santo, così inappetente, con quella sua castità ricattatoria, offensiva, provocatoria, eccetera». L’ira non sbollisce presto, tantomeno quando incontra Montale nel corridoio che porta alle camere. Finisce con il cerimonioso ingegnere che aggredisce un amico ammirato e con un uomo illustre e pacifico preso per il bavero». Gadda che si svegliava all’alba per andare a vedere, in un capannone, la monta taurina. Gadda «russa clamorosamente». Il primo contratto stabile della sua vita nel 1948, a cinquantadue anni, a «fare il giornalista» al Corriere della Sera. Nel 1955 Montale ha un’improvvisa difficoltà a scrivere. Per un paio di mesi escono sul Corriere, a sua firma, pezzi di Spaziani e dell’americanista Henry Furst. «Tra le cose che odio di più ci sono le collette. Quelle tasse obbligatorie del Corriere, della Mondadori o del condominio, per funerali o matrimoni, senza sapere chi stiamo piangendo o che cosa regaliamo a chi. A Genova avevo evitato una trappola del genere: bisognava fare una colletta per Sibilla Aleramo che era stata abbandonata dal poeta Giovanni Cena. Mi padre non mi dava mai un soldo, le dieci lire richieste erano un miraggio, e mi liberai della cosa dicendo che, se Sibilla andava a letto senza Cena, la cosa non mi riguardava» (Montale). Il padre di Montale aveva rifiutato di comprare Ossi di Seppia, edizione Gobetti del 1925 (quella che nel 2000 da Sotheby’s è stata pagata trenta milioni di lire), perché trovava eccessiva la richiesta di cinque lire da parte del libraio (né il figlio aveva pensato di regalargliela). Clizia, ovvero l’americana Irma Brandei, molto presente nella poesia di Montale: «L’ho vista non più di una dozzina di volte, in suoi viaggi italiani, generalmente nell’ombra di una biblioteca semideserta perché stava scrivendo la voce che mi riguardava per un’enciclopedia americana. Siamo stati ore fra i cipressi delle Cascine e a gli Uffizi, ma c’era sovente quella sua amica con cui, mi dicono, convive ancora a New York. Eravamo ai preliminari di un vero legame, ma era ebrea, e appena in tempo Hitler la convinse per le spicce a prendere la nave». Nel ’52 ospite di Arnoldo Mondadori a un pranzo in onore di Georges Simenon. Al tavolo Giuseppe Antonio Borgese, Leo Longanesi, Enzo Paci, Gaetano Baldacci, Dino Buzzati. Montale fece appena sentire la sua voce. Simenon raccontò del «casotto» di due stanze in giardino in cui si ritirava in totale clausura per dodici giorni al mese («il tempo fisiologico per scrivere un romanzo») dove nessun messaggio doveva raggiungerlo e dove gli passavano cibo e bevande da uno sportello. Montale: «Jean Racine, già alle sue prime tragedie considerato il drammaturgo-poeta più importante di Francia, scrisse all’amico Boileau una lettera traboccante di euforica gioia: “È incredibile, la penna vola da sola, mi emoziono e mi diverto alle mie stesse trovate, figurati che in soli due giorni ho scritto il secondo atto…”. Boileau gli risponde: «Sei sull’orlo del baratro, attento! Vieni ogni giorno a lezione da me. Ti insegnerò a lavorare davvero, con lentezza, fatica e sofferenza”. Mi fa ridere Simenon con quei suoi dodici giorni di clausura precostituita, quelli che ha il coraggio di chiamare “il tempo fisiologico per un romanzo”! Come se il tempo, questa essenza umbratile e retrattile, questo baratro, questo mistero insondabile e unico per ognuno di noi, fosse l’orologio svizzero delle stazioni». Nel marzo del 1953 Spaziani vince una borsa di studio a Parigi. Montale si fece mandare a Parigi dal Corriere. Regali di Montale a Spaziani nei trent’anni in cui si frequentarono: più volte due gardenie, qualche anforetta di un profumo molto antico di Houbigant, Quelques Fleurs. Quando scendeva a Roma per il Senato Montale, che nel ’67 era stato nominato senatore a vita, abitava all’Hotel Raphaël, quello di Craxi. «Un giorno Eugenio mi telefona e mi prega di raggiungerlo all’albergo: camminava già a fatica e non se la sentiva di venire al Babuino, dove abitavo. Si informa subito del mio stipendio. Ero stata appena chiamata all’Università di Messina. «In partenza avevo 145 mila lire al mese. Ora un po’ di più, forse 160, con spese di albergo e viaggi a mio carico». Erano gli anni economicamente più difficili della mia vita, con disavventure familiari e difficoltà varie. Lui era forse il più ricco tra i poeti del passato e del presente (il Nobel, il Senato, pensioni, vitalizi, presidenze, diritti d’autore da mezzo globo). Ripetè la cifra, si abbandonò a un lento, personalissimo calcolo mentale e mi disse senz’ombra di sorriso: «Tutto sommato mi pare che te la passi bene». Montale fumò le Giubek.