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 2013  febbraio 21 Giovedì calendario

Frasi di Carmelo Bene

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Blob Carmelo Bene Camus era rimasto molto insoddisfatto dall’interpretazione di Gèrad Philipe, per cui CB e i suoi amici andarono a Parigi a chiedergli i diritti d’autore. Lì non c’era. Si trovava alla Fenice, a Venezia. Così CB lo cercò in albergo, dove andò assieme al regista Alberto Ruggero, che con lui faceva ancora l’Accademia. Camus chiese loro: «Chi dei due sarà Caligola?». «Io, maestro» rispose Carmelo – aggiungendo – «Abbiamo un grosso problema, non abbiamo molto denaro per i suoi diritti». «Vi cedo i diritti, in cambio di un posto in platea la sera della prima» fu la sua risposta. Purtroppo non lo vide mai, perché morì prima. quando sono nata io, Carmelo desiderava che mi gettassero giù dal terrazzo. Carmelo odiava le bambine, perché le trovava leziose. --- Sarebbe ora di finirla con questa libertà di stampa [risate e rumoreggiare del pubblico]. No mi sta bene la libertà di stampa, se è libertà dalla stampa... (cs94) Basta con l’informazione, disinformiamo... Basta con la cultura, intesa come colonizzazione... (cs95) Non mi vergogno di essere nell’equivoco italiota, non mi interessano gli italiani, qualunque governo come qualunque arte, tutta l’arte borghese, tutta l’arte è rappresentazione di stato... è statale. È uno stato che si assiste in troppo... se no alla mediocrità chi ci pensa? la mediocrità par eccelence è proprio lo stato. Lo stato dovrebbe smettere di governare, ecco... si può dare uno stato senza governo, mi spiego, non deve amministrare, deve lasciare fare a dei privati... ma siccome non fa che tre volte istituzionalizzarsi... (cs94) Ma il calcio cos’è? Quelle partite di calcio in America a cinquanta gradi all’ombra? (in quei giorni, estate 1994, si stanno svolgendo i Mondiali di calcio in Usa, ndr)... Da bambino guardavo un po’... ché il gioco è una cosa importante, ma loro non giocano... scherzano... lo scherzo è adulto, non è più il gioco, non è bambino. Quindi non c’è nessun aspetto ludico, non c’è più l’equivoco del mito, non si vede un assist di Maradona, che è più interessante certamente, di qualunque attimo di teatrante internazionale, va bene?! O di Van Basten o del Pelé di una volta, che ne so... o di una volé di Edberg, che, essendo il tennis, non può giocare al tennis e gioca addormentato, e infatti si addormenta come i cavalli, Stefan Edberg. È straordinario. Nel calcio italiano, invece, queste cose non si vedono... e mi hanno sempre dato l’impressione di giocare in mutande, non con degli short, ma in mutande, quelle aperte, sai, che si usavano fino a vent’anni fa. Quindi, li trovo nemmeno osceni, perché sarebbe un far torto al porno. Proprio nell’etimo ou schenè, fuori scena: il porno come eccesso del desiderio, nevvero? Ecco, sarebbe davvero insolentire, oltaggiare il porno, definendo il non gioco italiano o italiota osceno. Detesto anche la nazionale azzurra, però lo dico! Non me ne fotte nulla del Ruanda, però lo dico! Voi no, non ve ne fotte, ma non lo dite... Non sono eroico... Me ne infischio di me stesso, del governo, della politica del teatro soprattutto... (cs94) Il porno si instaura dopo la morte del desiderio, dell’eros, morto sacrificato eros. L’aldilà del desiderio, quando tu fai qualcosa al di là della voglia, la voglia della voglia, questo è il porno, è una svogliatezza... Il più grande pornomane, non è il Sade, è Franz Kafka. (cs94) Mi trovo mi malgrado stipato, non poi tanto... comunque in buona compagnia, nei classici Bompiani, ancora qui vivente, accanto ad Alvaro, Flaiano, Savinio, accanto a Thomas Eliot, soprattutto. Il classico è quello che si dà una volta per tutte. E qui chi mi parla è un barbaro con delle simpatie per il neoclassico. Il classico è quanto appunto è eterno, non conosce attualismi, non conosce quindi l’attualità, non conosce contemporanei, non è un bestseller, non sollecità rincorse agli acquisti, alle strenne. Offre un grande vantaggio: di non avere contemporanei dal momento che uno è eterno, voi perdonerete, ma io mi sento qui stasera come l’unico eternamente vivo, senza contemporanei... Il classico esonera dal contemporaneo. Mi dispiace per voi, non è un dispetto, non è Carmelo Bene a dispetto di tutti, ma esonerando quindi dal contemporaneo non mi resta che, con tanta agape più che schopenhaueriana, comprendere, senza per ciò immedesimarmi, una platea di morti. Destinati all’attualità, alla cronaca, dannati a... e condannati all’informazione, che come sempre informa i fatti, diceva tanti anni fa Jacques Derrida, non informa mai sui fatti, anche perché i fatti non accadono mai, Aristotele docet. Non conta la veridicità di un fatto accaduto, ma il convincimento che il messaggero di questo fatto riesce a trasmettere... e quindi i fatti non contano. (cs95) In questo Opere di tal Carmelo Bene, base è la letteratura sletterata, cioè la discrittura. Lo scritto è lo scritto del morto orale, ma quindi letteratura, teatro... tanto, essendo io il teatro , non ne so nulla... Il teatro non può conoscere il teatro, così come la felicità non è felice... Così come il cinema non sa di cinema, così come tutte le rivoluzioni più importanti che ritengo di aver di aver apportato alla concertistica fino alla macchina attoriale, l’amplificazione... ecco questo della musicalità, questo dell’aldilà della voce, non solo delle parole prima delle parole, come avrebbe detto Artaud, e della parola dopo le parole... questo scavalcare la parola, questo sgambettare il linguaggio... ecco... Sennò si finisce davvero non soltanto nel quotidiano... si rischia il simbolico e cioè si rischia ancora l’arte e invece verremo a sapere, forse anche stasera, come nessuno è attore di alcunché, come non si dà opera d’arte, come non si può produrre un capolavoro, come non resta che essere un capolavoro. (cs95) Luigi Lunari: «Io appertengo alla parrocchia in cui le frasi hanno un senso comune». CB: «Ah, senta, per favore non mi offenda... Il senso comune, ma scusi, il senso comune buono? Il buon senso comune?». LL: «Comprensibile agli altri». CB: «Comprensibile... io sono per il grande teatro, cioè grande teatro è quanto non è comprensibile. La vita si comprende? No. Allora occupiamoci della vita, basta con il sociale stasera. (cs94) Guido Almansi: «Lei è diventato molto, molto noioso, cosa che non era vent’anni fa (...) Lei non parlava di “Kafka pornografo”, “voglia delle voglie”, di “privato del privato”, di “superare me stesso”, “sono io mia moglie”, “tutti aldilà”, “parlare di dio con dio”. No, no, queste cose sono venute dopo, quando lei (...) ha cominciato a scrivere che lei appariva alla Madonna. Mi chiedo se lei ha imparato da cattivi maestri. I cattivi maestri sono i suoi allievi, in realtà. Gli erofanti e i sacerdoti del culto beniano, i quali arrivano a scirvere frasi come “Lo spaccio negato della negazione della negazione” (...) e altre fesserie del genere». CB: «Ma certo. Bisogna che vi rassegnate a mentirvi, perché voi, noi non siamo. Siamo quello che ci manca, non siamo in quello che siamo. Voi mentite di interessarvi alla Bosnia, voi mentite, mentite come Clinton, mentite come gli altri, mentite come Stalin, va bene?, mentite come Hitler, mentite come Fini, mentite come Amato, mentite come Almansi, solamente che più si scende... insomma, voi siete [con disprezzo] dei democratici proprio. E volete anche lavorare: degli schiavi. Invece di pensare a dispensare gli schiavi dal lavoro, ecco l’unico appunto che io faccio alle vostre sinistre: perché vogliono schiavizzare la gente, perché bisogna far lavorare in miniera a cinquecento metri di profondità, va bene?, senza aria (a trent’anni si muore di cancro ai polmoni), della povera gente per settecentomila lire al mese? Perché hanno famiglia. Ma non sarebbe meglio distruggere la famiglia e che questa povera gente prendesse un po’ d’aria? [contestazioni e rumoreggiare del pubblico] ...mi fa piacere, mi fa piacere sentire la famiglia, la famiglia ce l’ha in quel posto. Non sono nato per piacervi. (...) Noi siamo nel linguaggio, il linguaggio crea dei guasti ed è fatto... anzi è fatto solo di buchi neri, è fatto solo di guasti... “Codesto solo – dice l’Eusebio nazionale e cioè Eugenio Montale, però traducendo pari pari da Nietzsche – codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. E questo si può dire: chi dice “Io dico d’esserci, io dico questo” è coglione due volte. Prima perché si ritiene “io”. Secondo perché è convinto di dire. Ed è coglione una terza volta perché è convinto di dire quel che pensa, perché credo che quel che pensa non siano significanti, ma sian significati e che dipendono da lui. Ma Lacan ha insegnato “Il significato è un sasso in bocca al significante”... (cs94) Qualunque autobiografia è immaginaria e di conseguenza a me non rimane che sconfessare e sconfessarmi continuamente (...) Bisogna impugnare soltanto la contraddizione, vivere solo la crisi. Bisogna sputarsi in faccia continuamente, tutte le sere fino la sera e dalla sera alla mattina, anche nel sonno, contraddirsi continuamente, sfuggire, non essere mai se stessi, non fermarsi mai, così soltanto si è nell’immediato, è questa soltanto la volontà di potenza possibile (cs95) D’altra parte non saprei che dire e quindi non restami che spropositare (cs95) A me spetterebbe davvero, come diceva Majakovskij, un monumento da vivo. Cosa me ne faccio di una strada, di una piazza... non so cosa farmene... non son femmina da strada io! (cs95) Fino al settecento l’editoria era ben poca cosa ed un libro costava davvero un patrimonio, e quindi l’orale ha sempre avuto un ruolo, da Adamo in poi, notevolissimo. Si viveva davvero senza strutture, fuori da ogni struttura, si ballava il ballo di San Vito dei buchi neri del linguaggio, delle contraddizioni. Dopo il settecento/ottocento comincia ad allargarsi questa sciagura editoriale e quella delle gazzette... anche dell’informazione... inimica della cultura e così si spaccia via, via l’orale ed ecco che diventa lo scritto, diventa lo scritto del morto orale (cs95) Crepi la democrazia, crepi la repubblica, crepi il presidente della repubblica! (...) Liberatevi della libertà, soprattutto, niente è così vincolante quanto la libertà... sputate sulla libertà e sui tribuni della libertà sopratuttto... (cs95) «Io non ho prezzo... Carmelo Bene non ha prezzo... deciderà poi chi paga il biglietto... se poi lo lasciassero lì, un milione o due a testa sulle poltrone e non venisse nessuno... Se non vengono sento qualcuno: le voci dentro... tante cose; se vengo mi sento davvero solo... è “fare un forno” – “fare un forno” in teatro vuol dire che non c’è nessuno. (...) Come diceva Alberto Savinio: “Due uomini oggi fanno appena una rissa”, in questi tempi non più tragici, nevvero? ...Ma io ho tanto dis-appreso, ho dis-appreso nei millenni, non vi auguro di dis-apprendere tanto, io applico quella agape schopenhaueriana, quella compassione che non è cristiana, in nome di dio, è più staoica anzi gnostica, nei confronti davvero della maggior parte di voi... meschini... tutto qui». (cs94) -----, GF : Quali sono i tuoi rapporti con Dio? CB : Dio è nelle nostre mani, in poche parole. Ancora non si riesce a rovesciare questo fatto. Non è Dio che crea noi, ma è sempre l’uomo che ha creato Dio. Con tutto ciò, questo è al di fuori della mia vita monastica, da monaco che detesta ogni laidume… o laicume – laico viene da laido, ci ricorda giustamente il Tommaseo. la volontà è sempre cattiva, non può mai essere buona perché la razza umana pare non sappia permetterselo, perché la storia non ha esperienza. Diceva Lutero: io ho ricevuto il verbo in questo momento, ma se io ne parlo, se lo trasmetto, se ne faccio comunicazione, ecco a questo punto è ‘parola’, anzi un rosario di parole; già ho tradito quanto mi ha pervaso, quanto mi ha visitato… Ecco, si può essere visitati ma non si può essere la Grazia. Si può avere la grazia non sufficiente, la grazia di Rossini, la grazia di Pascal, la spensieratezza e quindi farla finita con qualunque coscienza che sia coscienza del mondano, cioè le ideologie, il sociale, il politico, il condominio, tutto! Farla finita con il ‘cittadino’, ecco. E’ inutile che i nostri politici laici, cioè laidi, si aggiornino sul Leviatano o sul De cive. Non ha senso, poiché Hobbes è tutto sul linguaggio, tutto è mera nominazione. L’homo homini lupus non è l’uomo che mangia l’altro uomo, ma è il divorar se stessi, è il nada di San Juan de la Cruz, la spoliazione, il vuoto. conversazione rubata da Goffredo Fofi (1998) *** "Il corpo implora il ritorno all’inorganico. Nel frattempo non si nega nulla." "Con Benigni siamo amici da anni. Lui è grande nel "buffo", ma lasciamo stare il "comico". I buffi sono concilianti, rallegrano la corte e le masse. Il comico che interessa a me è un’altra cosa. Cattiveria pura. Il ghigno del cadavere. Il comico è spesso involontario. Specialmente quando si sposa con il sublime." "Ci sono cose che devono restare inedite per le masse anche se editate. Pound o Kafka diffusi su Internet non diventano più accessibili, al contrario. Quando l’arte era ancora un fenomeno estetico, la sua destinazione era per i privati. Un Velazquez, solo un principe poteva ammirarlo. Da quando è per le plebi, l’arte è diventata decorativa, consolatoria. L’abuso d’informazione dilata l’ignoranza con l’illusione di azzerarla. Del resto anche il facile accesso alla carne ha degradato il sesso." "Nelle aristocrazie il principe non si fa eleggere, è lui che elegge il suo popolo. In democrazia il popolo è bastonato su mandato del popolo. E’ la pratica certosina dell’autoinganno. Si dice che il trenta per cento sia astensionismo. Nego, tutto è astensionismo. Sono comunque voti sprecati." "Io sono già dimenticato, meglio ancora ignorato, in vita. Mi hanno promesso a Otranto i funerali da vivo. Non c’è bisogno di consegnare un cadavere in pubblico per meritare la dimenticanza." (da "L’Espresso" del 13.1.2000 ) *** Le opere di Bene sono brevi. Nessuno sa finire meglio di lui (Deleuze) ** Attore, scrittore, poeta, cantante, regista, pittore, puttaniere e amatore, criminale e santo. Infine genio. A ventuno anni, quando era “un bel mostro” e “si voltavano tutti, uomini, donne, finocchi”, si volta anche Albert Camus e dopo averlo guardato negli occhi gli regala i diritti di Caligola per il prezzo di un posto in platea che un infarto gli impedirà di riscuotere, ed è l’unico posto che alla prima e poi alle quaranta repliche resta vuoto. I giornali salutano la nascita di un grande attore, un altro al suo posto avrebbe iniziato una luminosa carriera teatrale. Certo, ancora Pierre Klossowski non aveva scritto che “Carmelo riesce a restituire il significato metafisico del teatro”, ma siamo nell’Italia di Alberto Moravia a Alberto Arbasino, di Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante, di gente che ancora riusciva a imporre un gusto anche se poi, inevitabilmente, diventava subito una moda per gli stupidi spettatori intelligenti, una croce che quelli della domenica pomeriggio, gli abbonati dei teatri stabili che dalla prima fila lo applaudono con lo stesso meccanico entusiasmo riservato ai musical di Garinei e Giovannini, salvo poi, uscendo, di nascosto chiedere all’amica: “Ma che cosa voleva dire?”, o borbottare, in silenzo: “Ma come 80 mila lire per tre quarti d’ora? E poi, questo Homellette for Hamlet, ma è quello che ha scritto Shakespeare? Ed ‘Essere o non essere’?, alla fine, l’ha recitato oppure no?” (buttafuoco, foglio 2/2/99) Non mi sento mai così solo come in un letto sardanapalico... si nasce si muore soli, che è già un eccesso di compagnia. Una volta per tutte: quello del Don Giovanni è un vero calvario, altro che impotenza! E’ il femminile che è in me che va ogni volta a palpare i propri vuoti nelle notificazioni del corpo donnesco (vita) Che tristo spettacolo, questi giovani istigati da Libertinotti che già a vent’anni invocano i lavori forzati. Sogno corte di ragazzi che gridano: “Basta con il lavoro!”. La verità è che se non nasci miliardario sei spacciato per sempre. Se nascere è funesto, nascere poveri è infame (vita) Chiudete tutta la stampa. Chiudete l’informazione. Se non cesserà l’informazione, sarà davvero il trionfo definitivo della volgarità (vita) Di tutti i giornalisti Cb salva solo Ruggiero Orlando, con cui in america e a forte dei marmi si scolava dieci bottiglie di whisky al giorno ** nacque il primo settembre 1937. Nacque a Campi Salentina, poco a nord di Lecce. Credette che a recitare si impara, si iscrisse a Roma all’Accademia nazionale di arte drammatica, si ricredette, se ne andò. A ventidue anni mostrò il suo talento convincendo Albert Camus, premio Nobel, ad affidargli, gratis, il suo Caligola. Lo interpretò con la regia di un amico regista, lo interpretò l’anno dopo con la propria regia. Ci fu chi notò subito il suo stile. Quelli che lo ignorarono si accorsero di lui quando una sua pièce fu accusata di oscenità. Era il 1963, anno d’oro per le avanguardie artistiche in Italia. Reinventato Cristo, reinventò Manon Lescaut, Ubu Roi, Pinocchio, reinventò l’Amleto reinventato da Laforgue. Divise il pubblico: da una parte il grande pubblico che lo ignorò o lo derise, dall’altra parte un piccolo pubblico disposto a giurare che se il teatro esisteva in Italia era perché esisteva Carmelo Bene, disposto ad affermare che se c’era in Italia un cinema d’autore quello era il cinema di Carmelo Bene. Come si conviene, più che si conviene a un autore, scrisse, diresse interpretò i suoi film come scriveva, dirigeva, interpretava le sua piéce. Nostra Signora dei Turchi fu romanzo (il migliore dell’avanguardia italiana?), fu spettacolo teatrale (il migliore di Carmelo Bene?), fu un film (il migliore film italiano di quegli anni?). Carmelo Bene un pittore che cerca il suicidio in incidenti fantasiosi come in Capricci (1969), fu un Don Giovanni (1970) in decadenza come poteva immaginarlo il decadente Barbey d’Aurevilly, fu Erode che assiste alla danza dei sette veli della Salomè nera sulle note di Abat-jour (Salomè, 1972). Fu il capocomico Amleto sempre lì li per fuggire in Francia con la primattrice in Un Amleto di meno (1973). Smise di girare film, i suoi film smisero di girare, congelati da incomprensibili (soprattutto per Bene) questioni fiscali. Dell’incapacità di accettare le regole del mondo fece una bandiera. Fece credere di non sapere che sulla spiaggia di Forte dei Marmi, dove aveva una casa, i bagni alla moda avevano sostituito i pini e i gligli selvatici, rivendicò l’artisticità dell’atto di pisciare all’alba dal balcone di un albergo di provincia sull’impermeabile inglese di un’elegante ciclista. Rifiutò, come ogni grand’uomo, di portare denaro, si rabbuiò cinesamente ogni qualvolta una donna riuscì a sottrargli un po’ di creatività con il liquido seminale. Non nascose, o forse inventò, di essere minato a quarant’anni dalla cirrosi epatica e dall’enfisema polmonare. Si servì dei polmoni malati per dare fiato alla voce più modulata che si sia mai sentita. Si compiacque quando fu osservato che i suoi spettacoli erano sempre più concerti per una sola voce. E’ morto sabato 16 marzo. (il foglio 23/3/02) Lui fu il colpo d’ala della dea bendata per l’Italia. Fu l’antididascalia, l’anti ruolo, l’anti carattere. (...) Fu meridionale al modo del Sud: il Sud dei Sud dei Santi. Non ebbe forse fede in Dio ma Fede e Devozione nei Santi tutti. Fu teologo Carmelo Bene. Cantava messa in latino e, per diletto, Gioacchino Rossini. Ebbe odio per quelli che “popolo” immaginavano fossero solo i francesi, anzi, i parigini. Ebbe fastidio per i moltiplicatori sociali dell’Inps. (...) Non firmò nessun manifesto di buon senso. Fu dalla parte della “nave dipinta su mare dipinto”. (...) Quando le mondane disavventure portarono Giulio Einaudi al finestrino di Carmelo Bene per dirgli, “adesso tocca a te il Nobel”, Bene ci ghignò sopra. Devoto della beata Ludovica di Bernini, di San Giuseppe da Copertino, entusiasta spettatore della compagnia di varietà e avanspettacolo “Cav. Palmi D’’Origlia”, lettore attento del Mondo come Volontà e Rappresentazione di Arthur Shopenhauer. (...) Fu interprete di Max Stirner (Johann Caspar Schmidt) e di De Maistre. Di Sade e di Masoch infine, interprete di quest’ultimo infine perché della mortificazione dell’Io, del corpo de-pensato, auscultato nella ricerca medica, Carmelo Bene, che soprattutto fu un malato, ebbe Adolf Hitler tra gli incipit della sua fatica ermeneutica. Disse: “Negli scritti di Hitler c’è una constatazione interessante. Suona così: ‘Per valutare il disfacimento d’un corpo è indispensabile rapportarne la gravità all’altezza da cui è precipitato”. E’ l’incipit dello schianto. (...) Visse come la più profonda ingiustizia “la rassomiglianza della razza umana”, visse la cosiddetta democrazia (“inumana e disumana”) come il risultato di un incubo, “una clonazione impostata sul pessimo”. Disse appunto: “Se anch’io sono così, mi faccio schifo”. Il caso C è tutto qui dunque: “Ci vorrebbe un bel lager, sì. Non parlo mai per metafore io”. Il caso C è potente: “Meglio il Medioevo del Rinascimento. Non c’è dubbio”. E fa strame delle donne. Delle donne mancata all’appuntamento con le scale (da lavare) disse: “Tutte le volte che ti urlano contro, è il loro modo per invocarti d’internarle in una clinica per malattie nervose; il neurologo, lo psichiatra (possibilmente pagando tu la parcella). Ecco l’evoluzione della donna!”. (buttafuoco, foglio 29/19/02) Nell’istante in cui Carmelo Bene pronuncia un parola, in quell’istante, tu sai cosa vuol dire: un istante dopo non lo sai più. Così il significato del testo è una cosa che percepisci, sì, ma nella forma aerea di una sparizione. senti il frullare delle ali, ma l’uccello non lo vedi: volato via. Così, di continuo, ossessivamente, ad ogni parola. (...)Diceva Valéry che il verso poetico è un’esitazione tra suono e senso: ma era un modo di restare a metà del guado. Se senti Carmelo Bene capisci che il suono non è un’altra cosa dal senso, ma la sua stagione estrema, il suo ultimo pezzo, la sua necessaria eclisse. Ho sempre odiato, istintivamente, le poesie in cui non si capisce niente, neanche di cosa si parla. Adesso so che c’è qualcosa di sensato in quel rifiuto: rifiuta una falsa soluzione. Quel che bisognerebbe saper scrivere sono parole che hanno un senso percepibile fino all’istante in cui le pronunci, e allora diventano suono, e allora, solo allora, il senso sparisce. Edifici abbastanza solidi da stare in piedi, e sufficientemente leggeri da volare via al primo colpo di vento. E’ meraviglioso come tutto questo non abbia niente a che fare con l’idea che si ha normalmente della poesia: un poeta soffre, esprime il suo dolore in belle parole, io leggo le parole, incontro il suo dolore, lo intreccio col mio, ci godo. Palle: per anime belle. Tu senti Carmelo Bene e il poeta sparisce, non esprime e comunica niente, l’attore sparisce, non esprime e comunica niente: sono sponde di un biliardo in cui va la biglia del linguaggio a tracciare traiettorie che disegnano figure sonore: e quelle figure, sono icone dell’umano. Le poesie non sono delle telefonate: non le si fanno per comunicare. Le poesie dovrebbero esser pietre: il mare o il vento che le hanno disegnate, sono poco più che un’ipotesi. Non spiega quasi nulla, Carmelo Bene, durante lo spettacolo. Solo un paio di volte annota qualcosa. E quando lo fa lascia il segno. Dice: leggere è un modo di dimenticare. Testualmente, nel suo linguaggio avvitato sul gusto del paradosso: leggere è una non-forma dell’oblio. Non so gli altri: ma a me m’ha fulminato. L’avevo anche già sentita: ma è lì, che l’ho capita. Scrivere e leggere stretti in un unico gesto di sparizione, di commiato. Allora ho pensato che poi uno nella vita scrive tante cose, e molte sono normali: cioè raccontano o spiegano, e va bene così, è comunque una cosa bella, scrivere. Però sarebbe meraviglioso una volta, almeno una volta, riuscire a scrivere qualcosa, anche una pagina soltanto, che poi qualcuno prende in mano, e a voce alta la pronuncia, e nell’istante in cui la pronuncia, parola per parola, sparisce, parola per parola, sparisce per sempre, sparisce anche l’inchiostro sulla pagina, tutto, e quando quello arriva all’ultima parola sparisce anche quella, e alla fine ti restituisce il foglio e il foglio è bianco, neanche tu ti ricordi bene cosa c’avevi scritto, solo ti rimane come una vaga impressione, un’ombra di ricordo, qualcosa come la sensazione che tu, una volta, ce l’avevi fatta, e avevi scritto una poesia. (baricco, la stampa) Parlava Bene, e per lui e con lui tutta la masnada diabolica dei filosofi e dei poeti francesi con i quali era sempre in risonanza (Da Deleuze a Sade, da Laforgue a Guattari), di pornografia. La pornografia, diceva, inizia dove finisce l’eros, esattamente al di là del desiderio (elena stancanelli, repubblica) Lo scandalo - meglio: la rappresentazione dello scandalo - è sempre stato parte integrante e nutritiva del suo esprimersi e forse mai come in Carmelo Bene arte e vita si sono confuse in un impasto tanto incandescente e incendiario. Ma quello che è successo domenica pomeriggio nella sua abitazione in via Aventino, a poche ore dalla sua morte (sopraggiunta alle 21 e 15 di sabato), è degno di una sola parola: empietà. (Il termine giusto lo hanno sibilato gli amici di C.B.: “sciacallaggio”). Dunque, domenica pomeriggio in via Aventino. Pochi amici, Luisa Viglietti (una donna eroica che ha amato e assistito C.B. per otto anni), una bara ancora aperta. Sussulti di dolore, la tristezza, l’intollerabile mancanza. La vita sarà anche immaginaria – come osservava Bene – ma è del tutto reale l’irruzione di Raffaella Baracchi. L’ex moglie di Carmelo, con un tempismo da iena, entra in scena con la figliolettà Salomè, dieci anni, e un avvocato al fianco. “Sono la signora Bene – annuncia l’ex miss Italia che C.B. sposò il 2 gennaio 1992 – e questo appartamento è mio, mi appartiene, dovete andar via tutti!”. Scoppia l’inferno. Il dolore per la scomparsa di Bene si trasforma in rissa di nervi. Volano insulti tra Luisa Viglietti e Raffaella Baracchi, che pretende di sbatterla fuori di casa. Devono intervenire i presenti per separarle, prima che dalle parolacce si passi agli schiaffoni. I sodali di Bene quindi invitano (con determinazione) Raffaella Baracchi ad uscire di scena con la figlia e il legale. Ma non è finita perché il giorno dopo, lunedì, suona alla porta di casa Bene ancora la Baracchi ma accompagnata dal giudice tutelare della bambina. Altro bordello di totale empietà, infine la mediazione: per salvaguardare gli eventuali interessi di Salomè vengono apposti i sigilli nella stanza-studio di Carmelo. Da parte sua, la Baracchi annuncia che impugnerà il testamento. La casa di via Aventino, pare, è destinata al 50 per cento a Luisa Viglietti. La villa di Otranto, invece, dovrebbe diventare - secondo le ultima volontà - sede di una Fondazione. Ma chi è Raffaella Baracchi e perché si male-comporta così? L’ex miss Italia, pupilla di Tinto Brass, “molto borghese” figlia di un dirigente Fiat, entra nella vita di Carmelo nell’anno di grazia 1989. E’ impressionato dalla fisicità posteriore della ventottenne ragazza, la coinvolge a recitare in una parte poco vestita nella sua “Cena delle beffe”, quindi la impalma il 2 gennaio 1992 davanti al giudice di pace in Campidoglio. “Diventare la moglie di un simile genio mi fa sentire una dea”, disse la sposina, con una pancia al sesto mese di gravidanza. Ma il loro matrimonio diventa ben presto un inferno. Due mesi dopo, il 4 marzo 1992, lei lo denuncia per botte a mezzo di sedia. Lividi e brividi, in faccia e sulle gambe, guaribili in 5 giorni. Il bebè che porta in pancia, fortunatamente, non patisce conseguenze. Trascinato in caserma, Bene insulta i carabinieri (che lo denunciano) e controquerela la mogliettina per “truffa, estorsione, tentato omicidio e omissione di soccorso”. E, già che c’è, C.C. contro-querela anche l’Arma dei Carabinieri. E dichiara ai cronisti: “la baracchi non è neppure incinta di me, è una che volevo aiutare e ho sbagliato. Per tre anni s’è fatta mantenere a ostriche e champagne e non ha mai lavorato con la scusa che stava male. Non voglio più vederla, è una poveretta che non merita attenzione”. E Bene mantenne la parola: da allora, i contatti con l’ex coniuge sono stati solo di natura legale. Avvocati, alimenti, assegni da pagare. La Baracchi scompare dalle cronache. Ricompare quando scompare Carmelo Bene. Poteva avere il buon gusto e rispetto di attendere almeno i funerali. Ma in fondo C.B. aveva previsto tutto questo quando dettò a Giancarlo Dotto, coautore dell’autobiografia (bellissima) “Vita di Carmelo Bene (Bompiani), queste parole: “La donna è già catastrofe prenatale prima di diventare ingombro nuziale e poi imbarazzo legale…” (dagospia) Odia il teatro ("Mi noia farlo, non lo amo affatto, come non si ama particolarmente la vita anche se dobbiamo viverla, non mi diverte nel modo più assoluto. Però lo so fare meglio di chiunque altro, questo sì (dagospia) la critica ("Un mestiere ignobile che li costringe a parlare di cose che nessuno va più a vedere, che li condanna tutte le sere ad andare in sale vuote per controllare come marescialli l’esatta lettura di un copione (dagospia) "In platea si fanno dei bei sonni, invece. A teatro non va più la borghesia di una volta, illuminata, s’immagina un po’ viziosetta, e il teatro è un lusso, via, non lo vedo come ideale per poveri, anche se un teatro davvero aristocratico sarà anche popolare. Oggi ci vanno i piccoli borghesi, i bottegai; come si può trascorrere una giornata di onesto - o disonesto - lavoro dietro un banco di salumi e alla sera andare a teatro senza aver mai letto un libro? Come ai affina un gusto, come lo si può pretendere?" (cs94) Ha presieduto addirittura la giuria del «Processo del lunedì", teorizzando, con la palpebra in apnea, la narice-radar, più una manciata di tic e tabù sottocutanei, quella celebre filosofia che dipinge il lato animalesco del tifoso: "E come vuole che li veda? Il tifoso è una bestia, ed è proprio inutile tentare di accomodare la cosa con eufemismi garbati: bisogna semplicemente prenderne atto. Perché l’ultimo stadio del tifoso è il delinquente...”. dago Zeffirelli, ad esempio, l’ha liquidato come un "Pannella del teatro italiano". la grande passione by-night di Carmelo erano i programmi delle Tv locali, quelle più scadenti e borgataro però. Conosceva a memoria gli imbonitori di Rete A, i banditori d’asta di Canale 66, i chiromanti di GBR, le maghe di Telestudio, i "tappetari" di Teletevere, i pranoterapeuti di Rete Oro, i podologhi di Telemeno. dago Ma quando uscì, nel `68, fu un mezzo disastro: premiato dalla giuria dei critici a Venezia, che lo preferì alle opere di Pasolini, Liliana Cavani, Bernardo Bertolucci e Nelo Risi, ma bocciato dal pubblico. Quando fu proiettato al Gioiello di Torino, gli spettatori urlavano e ingiuriavano. «Che maiale!» gridò uno. La maggioranza abbandonò inviperita la proiezione, gli altri si sfogarono bruciando ottanta poltrone. Il proprietario rimborsò a tutti il prezzo del biglietto, mentre la polizia, fuori, sorvegliava. A Bari andò peggio: poltrone squarciate con i coltelli, colata di uova marce sullo schermo. dago ... Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento. Non sono nato per essere nato. Nato per lavorare, per il vicinato, per essere un buon cittadino, non essendo nato a una coscienza: non essendo nato nemmeno alla coscienza. Ho cominciato ad agire, ma non nel progetto, nell’atto, auspicando l’atto... Si è in balia del mondano e... c’è bisogno di soldi. Non si può che trovarsi in malafede. Se avessi dovuto fare il mercante di schiavi, non avrei scritto Une saison en enfer; avrei scritto direttamente Bagatelle per un massacro (...) Bisogna arrangiar quattrini perché un buon reazionario possa difendersi. [Il reazionario] non è volgare come il rivoluzionario, non intende sostituirsi a nessuno, soprattutto al potere. Non vuole essere autore, autorità, padronato; e neanche servo, perché "ogni forma di coscienza è servile". È tentato, semmai, dall’inorganico. Vuole essere il niente che è. Il fondamento costituzionale della nostra repubblica è il lavoro, comunque preferibile allo squallore del posto di lavoro e del dopolavoro. Da per sempre scartato il ompicapo – aveva ragione Moravia – d’un giovanilismo inteso come disperazione della non disperazione, risulta altresì utopica ogni vocazione a prostituirsi, se non come professionalità svissuta. L’indecenza della vita mia ha frequentato assidua fin dalla prima infanzia. Malattie di ogni sorta e degenze, convalescenze continue; ambulatori diagnostici: coronografie, biopsie, gastroendoscopie, scintigrafie, risonanze magnetiche; astenterie d’ospedali e sale operatorie, broncopolmoniti, paradontologie, odontoprotesi, epatopatie, infarti, accidentacci vertebrali, discopatie, disfunzioni gastrointerinali, anestesie complesse, interventi chirurguci logoranti, disfunzioni oculari, emicranie intollerabili, irriducibili insonnie, complicazioni delle vie urinarie. Non c’è brano di carne che Esculapio abbia tralasciato. La fisiologia è esclusa dal romanzo, dal teatro, dal cinema. Non si dà mai una sequenza che si interrompa perché "Lei" d’improvviso ha da evacuare... (...) Non c’è un’esecuzione musicale dove un qualcuno in scena o nell’orchestra, colto da stimolo più che naturale, incontenibile, interrompa il tutto. Invocazione allo stacco...: "e allora lui che aveva alzato il coltello per ucciderla, disarmato da una diarrea immediata, fugge". La donna-maschio s’estenua nel facchinaggio del fottere, ignorante la copula come surrogato della masturbazione; e, per di più, la donna non conosce l’argasmo che (la) prova. carmelo bene autografia di un ritratto bompiani ++++++ «Come potremmo definire Carmelo Bene? Un regista con i piedi fermamente poggiati sulle nuvole?» (Ennio Flaiano, 1964) «Carmelo Bene mette nel suo amore per il teatro una notevole mancanza di raziocinio, ed è per questo che i suoi spettacoli, persino al limite dell’indignazione, hanno qualcosa di impensabile e di affascinante. Si può rifiutarli, alla fine, ma non per le premesse da cui partono, che sono sempre giuste. Piuttosto per una certa incuria, per una rinuncia a chiarire, per quell’angoscia di arrivare a una conclusione. C’è insomma in Carmelo Bene, una volta avviato il giuoco, quasi il proposito di soffocare le sue infelici intuizioni nella routine del bizzarro» (Ennio Flaiano, 1964) «Per intenderci meglio: detesto che fa i baffi alla Gioconda, ma non ho niente da dire a chi la prende a pugnalate» (Ennio Flaiano, 1964) ++++ Era umile, sembra strano dire questo, ma era uno umile. Era un’umiltà straizata e vera, storica, come la si potrebbe pensare oggi di un santo antico, un’umiltà armata, sì, un’umiltà armata di spada, armata di dolore. Jean-Paul Manganaro Il suo strazio della vita e il fallimento della poesia rinvia alla necessità di un incontro individuale con lui, ora che la sua persona non è più lì a impedirlo. Antonio Attisani Quel gusto di vivere appartato fra l’edera, gli angeli di gesso del Bernini, i broccati, gli argetni, i cristalli delle sue lunghe notti. Accogliendo gli ospiti, ogniqualvolta apriva loro la porta, come principi. Mai un bicchiere vuoto, occhi brillanti negli specchi, sigarette, lampi di luce nelle parole, e tanto riso senza comicità. Gioia Costa «Sa perché Carmelo amava incondizionatamente le donne? Me lo disse quel giorno: “Perché sono la cosa vivente più vicina alla morte”» (Sandro Bechetti, fotografo) «Eravamo divisi. Non c’era più un oggetto comune che tutti erano in grado di percepire allo stesso modo, come capitava sempre andando a teatro. Era evidente che lì qualcosa si era rotto. (...) Dov’era finito l’ordine narrativo? Cosa sto vedendo? Dove sono? Che senso ha per me ascoltare questa roba? Perché un teatro alienato, dal quale dovrei fuggire, è in grado di commuovermi? (...) Era la verifica dell’esistenza della possibilità, fattuale, di lasciare un segno, di segnare la realtà alla quale siamo stati consegnati prima dell’insorgere di ogni coscienza. Romeo Castellucci La vera funzione politica del teatro di Carmelo era quella, presumo, di dividere la città e di mettere a repentaglio il luogo comune che tiene insieme la comunità umana: il linguaggio. La sua era una politica di tipo paradossale svolta fino in fondo; fino, cioè, alla sua conseguente funzione a-politica. Disconosceva le regole della città per indicare il luogo della solitudine dell’eroe: il campo del linguaggio. Romeo Castellucci «Un giorno mi fece sedere a un tavolo con carta e penna dettandomi le regole e i compiti che mi avrebbero preparata al lavoro con lui. Proibizione assoluta dell’esercizio fisico e studio della letteratura e della filosofia per un consistente numero di ore al giono; sola la metrica era concesso come “materia teatrale”» (Silvia Pasello, attrice) «Come sua partner sul palcoscenico ero colpita dalla stupefacente libertà che possedeva in scena e dall’evidenza della sostanza dell’attore. Lo vedevo in quella capacità di azzerare qualsiasi volontà, di riazzerarla ogni qualvolta si imponeva di nuovo, di usarla solo per far partire il corpo, e da quella lontananza lasciarsi andare. Capivo che per fare questo bisognava avere lavorato molto, ma si trattava del lavoro di una vita, indefinibile, che riguardava l’essere pronti e il non prepararsi. Uno spendersi totale, senza investimento psicologico» (Silvia Pasello, attrice) «Non si parla al potere, non si deve mai parlare con il potere, il potere non merita l’attenzione, tantomeno l’attenzione giovanile» (cb) «Pazienza» (quando gli esprimevano apprezzamenti affettuosi sui suoi spettacoli) Il titolo Sono apparso alla Madonna nasce da una battuta di Ruggero Orlando ubriaco in una notte dell’estate del 1982 a Forte dei Marmi. «Misconosciuto come artista, rimosso come intellettuale. Era diventato, già a partire dagli anni ’60 a perdifiato delle cantine fino all’apice degli anni ’80, l’icona culturale di certi salotti snob che collezionavano al suo cospetto orgasmi plurimi, puntualmente benedetti dall’equivoco e dall’incomprensione. Di cui Carmelo non si doleva più di tanto, consapevole che tanto rumore e tanti orgasmi aiutavano comunque ad alimentare il conto in banca e certi lussi indispensabili per l’anacoreta pane e caffè nero che si avviava a diventare negli anni ’90, affacciato e mai visibile sul mare di Otranto a indovinare turchi e cantare Rossini». (Giancarlo Dotto) «Nessuno che, per mancanza di fegato, ha mai voluto fare i conti con le sassaiole più perturbanti del suo pensiero, una su tutte la più volte dichiarata ostilità verso il concetto di democrazia che lui, alla Hobbes, considerava sinonimo di demagogia. Anatemi pubblici ogni volta smagnetizzati nella rassicurante lettura della “provocazione”. E sì che sarebbe bastato, basterebbe, risalire i nomi maestri della sua formazione intellettuale. Giovanissimo legge Max Stirner, il teorico dell’Unico, la confutazione radicale della dialettica hegeliana. A seguire De Maistre, i mistici come Caterina da Siena e Juan de la Cruz, il Nietzsche del “Io sono tutti i nomi della storia”, il Leviathan di Hobbes, lo stesso Schopenhauer, immancabile sul suo comodino. E, su tutti, i nomi monumentali di Sade e von Masoch. Il secondo sopratutto, una sorta di gemello elettivo, ha contagiato più di chiunque altro la sua impresa degli ultimi, almeno, trent’anni. La scena (e la vita) come mortificazione parodistica dell’Io, fono alla sottrazione estrema dell’ultimo spettacolo-funerale. (Giancarlo Dotto) Nell’era dell’accesso, in cui tutti possono accedere a tutto, lui rivendicava l’umiliazione e il limite estremi di abitare un corpo, il terrorismo spietato delle ossa, delle carni, delle giunture, di tutto il mondo in putrefazione a cui consegnano ogni volta un nome e un cognome. La democrazia come inganno e patologia contagiosa dell’ottimismo, le masse come strumento di questo inganno. La sua diffidenza per le masse era congenita, viscerale e meditata». (Giancarlo Dotto) «Bambino, mi chiedevo: se l’attore fa il personaggio, chi fa l’attore?» «Un giorno, in camerino, Luisa Viglietti prende tra le braccia un pargoletto. Temeraria e candida, lo sottopone allo sguardo sardonico del Nostro. Il quale sentenzia: “Stai vezzeggiando un raginiere”» (Sonia Bergamasco) «Lo studio di CB. Seduti alla scrivania, l’uno di fronte all’altra. Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Shopenhauer. Io leggo, ad alta voce, alcuni brani. Lui chiosa, e indaga (capire se capisco). Quello è stato il “libro di testo” del mio breve, intenso apprendistato alla scuola di CB. Altri “testi”, caldamente consigliati, sono stati letti e riletti in quel periodo – Joyce, Saussure, Flaiano, Gozzano... E gli ascolti – naturalmente Callas (le famose “lettere”) e Kathleen Ferrier... “Devi studiare, studiare. Dodici, quattordici ore al giorno!”, mi diceva» (Sonia Bergamasco) Del Faust scrisse un recensore: «Questo spettacolo non è di competenza di noi critici, ma dei carabinieri». Dalle note di regia del Pinocchio (1964): «Basta con questa sporca vita tricolore. Sarebbe stato meglio ne avessero fata una bara di quel pezzo di legno, invece di una crocetta dibambino che non sa dire nemmeno una bugia... Perché proprio una bara? Perché morire è più bello di nascere». «Migliaia di libri e una quantità davvero smodata di carte, quadri di Klossowski in ogni stanza, bagni neri, tavoli di marmo, cornici dorate, raso azzurro, rosa, rosso, oro alle pareti, un soffitto incorniciato, pareti completamente nere, tappeti su tappeti, tendaggi, una stanza piena di nastri con la sua voce, lampade déco, cassettiere in madreperla, la strumentazione fonica, gli angeli del Bernini appoggiati fuori, un corridoio vetrata che attraversa il giardino collegando le due ali della casa con tutte colonnine che ne decorano il cammino. Ecco, via Aventino è il palazzo moresco» (Luca Buoncristiano) Estratti da CB A Carmelo Bene a cura di Gioia Costa, Editoria & Spettacolo -+++ Giuliana Rossi (Firenze 1933-2005) fu la prima moglie di Carmelo Bene. Si conobbero nell’ottobre del 1959, ad una festa in via Veneto: «Di lui mi colpì il pudore quando ci trovammo dietro una bellissima prostituta che ci camminava davanti ancheggiando, sbattendoci quasi il culo in faccia, ma Carmelo faceva finta di non vederla continuando a dirmi i suoi versi. Me ne ricordo uno in particolare: “Voglio essere una gialla vela / io te e il mediterraneo”. Lo percepivo come una persona seria e intelligente, un vero poeta. Mia madre era venuta con me a Roma e quella volta mi aspettò tutta la notte... (Giuliana Rossi) «Con Alberto Ruggiero andarono appositamente a Venezia per chiedere allo scrittore franco-algerino, Nobel per la letteratura, l’autorizzazione di mettere in scena l’opera. Erano entrambi vestiti da esistenzialisti e sembravano due lucignoli. Quando ci fu l’incontro Carmelo e il regista facevano i gradassi bevendo alcolici, mentre Camus beveva semplicemente un’aranciata. Gli dissero che volevano fare il Caligola, ma avevano cambiato il finale e lo scrittore dopo aver letto il copione esclamò: “Come mai non ci ho pensato io?”, e oltre a dargli l’autorizzazione a rappresentarlo, regalò loro anche i diritti d’autore. (Giuliana Rossi) «Il primo anno che Carmelo visse a Roma, oltre a non frequentare la facoltà di legge dove era iscritto, andava a lezione di recitazione all’Accademia Sharoff. Solo in seguito riuscì, con grande caparbietà a entrare nella più famosa Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico. All’inizio non lo volevano ammettere, allora lui, per protesta, fece un sit-in sui gradini dell’istituto che durò qualche giorno. Alcuni insegnanti si avvicinarono e uno di loro gli chiese se almeno conosceva l’Amleto e lui gli rispose: «In otto traduzioni diverse a memoria».Quando riuscì a entrare si fece subito notare per la sua irriverenza, era sempre molesto con tutti, soprattutto con i docenti. Proprio per il comportamento inopportuno, quando qualcuno chiedeve se c’era Carmelo, altri rispondevano: “Non c’è Bene, grazie”» (Giuliana Rossi) Il Teatro Laboratorio (nato nel 1962) «oltre al gruppo degli intellettuali, era frequentato anche da un pubblico molto borghese, snob e pseudo-intellettuale. Queste persone, prima di entrare nello stabile dove abitava solo povera gente, alzando il capo e vedendo queste case di ringhiera dicevano: “Che bello! Sembra Mondrian!”. Allora gli inquilini che erano alle finestre, vedendo tutto queste donne impellicciate che commentavano, urlavano: “Va’ via mignotta!”, “A stronzi!”, tirando loro addosso di tutto. E quelli entravano con doppi fremiti». (gr) Per impedirgli di sposarsi (la madre: «Questo cretino c’è costato un sacco di soldi! Se si sposano i privilegi li avrà lei e non noi, che s’è fatto tutti questi sacrifici!») la famiglia fece internare Carmelo in una clinica per malattie mentali. Carmelo e Giuliana Rossi si sposano il 23 aprile 1960 in Palazzo Vecchio a Firenze. Il 14 maggio 1961 nasce Alessandro Bene. A tre anni gli viene diagnosticato un tumore tra il palato e la gola. Nonostante le tante cure («Carmelo solo in un’occasione venne a trovarlo»), muore il 3 ottobre 1965. «Aveva quattro anni, quattro mesi e venticinque giorni. La mattina dopo spedii un telegramma a Carmelo comunicandogli questa grande perdita. Lui nel suo libro (Vita di Carmelo Bene, ndr) ha raccontato che aveva sei anni e mezzo: non mettere l’età, non mettere niente, sapevi che era malato ma non hai fatto assolutamente nulla per tuo figlio!» (gr) «Il divorzio da Carmelo è stato formalizzato nel 1973. Dopo la separazione legale Carmelo andò in appello e poi in Cassazione, non voleva separarsi e quando venne a sapere da alcuni amici che mi ero risposata non voleva crederci e ripeteva a tutti: “Ma se è ancora mia moglie!» (gr) (I miei anni con Carmelo Bene, Giuliana Rossi, Edizioni della Meridiana) +++++ «Io mi scuso per il vento che ha turbato questa dizione, questo canto, e sebbene ringrazi gli astanti ricordo un po’ a tutti che ho dedicato questa mia serata, da ferito a morte, non ai morti, ma ai feriti dell’orrenda strage» (così CB al termine della Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli il 31 luglio 1981, a un anno dalla strage della stazione di Bologna). «Annottava allorquando, sorretto e confortato dai cerusici, raggiunsi quei miei prodi genieri in sulli spalti. E lo sguardo mi cadde giuù tra’merli, e me s’offerse, mai veduto prima, di genti variopinte un oceàno. Chiesi a un birro di guardia quanto distava dal cominciamento di mia funzione, e quei mi disse un’ora o poco meno. Prese a soffiare un vento di scirocco che fastidiava non poco li megafoni issati in su le lance. Io mi forzava trattener gli spiriti e darmi pace, come usa pugilatore avanti la sua tenzone. Era l’ora. M’inerpicai sui pioli d’una impervia scaletta e finalmente mi mostrai alla folla che, meravigliata forse più di suo numero che del miraggio mio, salutò in me l’attesa. Fu di plauso un boato indescrivibile che si ripercoteva da le piazze lontane e ne le strade adiacenti tutte. Apparvi. Li occhi mia chiusi al leggio luminescente, presi a cantar li versi d’Allegheri. Ma d’altrove, nel tempo delle nevi e del vin cotto di mia parvola vita. E venni meno, e il canto seguitò come profferto da ser Boccaccio in quella villa istessa settecent’anni prima. Li suoni rincorreansi sovra i tetti, e il silenzio divoto de le gentiornai fatte incantamento mi suase al dolce vanire. Un rifiorir de la mente, mariano, ai piedi de la prediletta Madonna argentea in vesti amnesia d’azzurro e rosa. Or io mi dico, nel mentre ch’ero detto, come non mi fu dato altra volta in mia vita intendere, che quella mia preghiera lentamente si smarriva, e via via che il silenzio del mio dire s’obliava del senso, Nostra Signora lontanando vaniva al guardo mio innamorato. Era che il mio pensiero parvolino non poteva suadersi essere lui la madonna invocata. Ché la Madonna m’appariva beata. (...) Così la circulata melodia / si sigillava e tutti li altri lumi / facean sonar lo nome di Maria. (...) Un boato salutava il termine della Lectura Dantis, d’entusiasmo (in)fondato. Non v’ha dubbi. Era apparso alla Madonna. (Sono apparso alla Madonna, Carmelo Bene, Longanesi 1983) «Poteva scolare un litro e mezzo di whisky al giorno e un fisco di vino, ma nonostante tutto questo questo alcol non l’ho mai visto sbronzo, al massimo un po’ alterato». (gr) «Aveva una strano rapporto con la polizia. Per esempio, agli esordi, c’erano sempre molti agenti nei teatri dove recitava, stavano all’erta, mentre quando divenne famoso, se non li vedeva in sala, li invocaca». gr ----- dottobene «2 ottobre ’95, municipio di Campi Salentina. Il sindaco consegna le chiavi della città a Carmelo Bene, gilet nero Versace e bottoni smerigliati. Decine di disoccupati ululano giù in strada e lanciano pomodori putridi. Il Maestro si defila da una porta secondaria. Un disoccupato gli strepita addosso: “Stronzo, dammi lavoro!”. Carmelo lo centro in un occhio con uno sputo che è una bellezza balistica». «Tralasciando i libri delirati insieme, le passioni condivise, i giorni e le notti consumate nella consolazione molto maschile dell’affinità elettiva, si tratta dell’amico cui ho tenuto stretta la mano i giorni in cui la sua voce straordinaria era diventata uno stoico e flebile lamento». (Giancarlo Dotto) BARACCHI Raffaella Torino 25 marzo 1965. Miss Italia 1983. Seconda moglie di Carmelo Bene, cui diede l’unica figlia, Salomè. Carmelo la picchiava e la mandò all’ospedale incinta. «La sua mente era offuscata al punto di avere paura di se stesso. Fu per proteggere Salomè che forse fece ogni cosa per allontanarmi» Lydia Mancinelli e Carmelo Bene dopo si sono separati. Lei, che per venti anni è stata la sua compagna nella vita e sul palco, ammette: «La nostra storia è finita da tre anni. Quando ho accettato di lavorare con Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer. Carmelo non mi ha mai perdonato questa uscita, questo tradimento con il teatro tradizionale». La Mancinelli aveva lasciato marito e due figli per seguire quell’uomo «bello e completamente fuori dalla realtà». [L’Europeo n.3, 2002] 2 agosto 1981 È l’aniversario della strage di Bologna. Carmelo Bene recita i versi di Dante («Guido ’i vorrei che tu, Lapo e io») come un muezzin dalla Torre degli Asinelli mentre un’enorme folla si accalca in via Rizzoli. [L’Europeo n.3, 2002] Il 5 gennaio 1963 Lo spettacolo Cristo 63, inscena al Teatro Laboratorio di Roma, viene sospeso per oscenità. Carmelo Bene e il pittore Andrea Greco si sono presentati completamente nudi, usando gesti e linguaggio decisamente forti. Di qui l’intervento dei carabinieri su richiesta di tre spettatoriche si sono sentiti offesi dalla nudità e dalle parole di Bene. [L’Europeo n.3 2002] La parentesi cinemato¬grafica della sua vita artistica durò cinque anni, dal 1968 al 1973, e cin¬que lungometraggi, da Nostra Si¬gnora dei Turchi ( che fu presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, dove vinse il premio speciale della giuria) a Un Amleto di meno . An¬che se la sua prima ap¬parizione su un set, co¬me attore, fu nell’ Edi¬po re di Pier Paolo Paso¬lini risalente al 1967. «Mah, ho provato a dividere i critici cinematogra­fici in tre categorie, per comodità di classificazione. I gazzettieri, i travesti, i supermaschi. I gazzettieri sono il coro, quelli che par­lano per parlare, rumore di fondo. I travesti sono i peggiori, quelli che conce­piscono la critica come mediazione. Nani che cercano di possedere gigantesse, gente che ha della capra e del cavolo, cantautori del mai visto, spastici, convitati di pietra, sfruttatori del buio pomeridiano, alpini da pianura. E poi ci sono i supermaschi... La critica che reinventa l’opera a livello pretestuale. Tutti con un film nel cassetto, e non ci sarebbe nulla di male. Purché lo facessero, il film». Contro il cinema minimum fax, «Non vado mai al cinema, perché so che è un sottoprodotto». Contro il cinema minimum fax, «Bisogna fare un film che non sia stupido e non fare un cinema intelligente». Contro il cinema minimum fax, «Il nostro rapporto è durato 19 anni e non ci siamo lasciati neanche per cinque minuti. Lui non guidava e io gli facevo da autista, dormivamo insieme, mangiavamo insieme, lavoravamo insieme, provavamo insieme, scrivevamo insieme, facevamo traduzioni insieme. Se si litigava era perché io, nipote del musicista Luigi Mancinelli, propendevo per Wagner e Rossini, lui per Verdi e Bellini. Quando sono andata via, ha dovuto prendere sette persone: l’autista, il collaboratore domestico, l’amante, l’attrice di teatro, la segretaria, l’organizzatore degli spettacoli e via dicendo» Lydia Mancinelli «Era la persona più facile che si possa immaginare. Per lui il quotidiano non esisteva, non aveva senso pratico e si affidava completamente a me. Era un figlio: gli tagliavo perfino i capelli, gli compravo le scarpe» (a Emilia Costantini) Lydia Mancinelli Bisogna sputarsi in faccia continuamente. Lo si faccia tutte le mattine 5. fino alla sera e dalla sera alla mattina, anche nel sonno, contraddirsi continuamente, sfuggire, non essere mai se stessi, non fermarsi mai, così soltanto si è nell’immediato. Bisogna che vi rassegniate a non mentirvi, a non prendervi sul serio, perché voi, noi non siamo. Siamo in quello che ci manca, non siamo in quello che siamo. Voi mentite di interessarvi alla Bosnia, voi mentite, mentite come gli altri, mentite come Stalin, va bene, mentite come Hitler, mentite come Fini, mentite come Amato, solamente che più si scende... insomma voi siete dei democratici. E volete anche lavorare: degli schiavi. Invece di pensare a dispensare gli schiavi dal lavoro, ecco l’unico appunto che io faccio alle vostre sinistre: perché vogliono schiavizzare la gente. Perché bisogna far lavorare in miniera a cinquecento metri di profondità, va bene, senza aria (a trent’anni si muore di cancro ai polmoni), della povera gente per settecentomila lire al mese? Perché hanno famiglia. Ma non sarebbe meglio distruggere la famiglia e che questa povera gente prendesse un po’ d’aria? Ma veniamo a capo di una cosa, un’altra... altrove... sempre... mi attraversano delle voci continuamente e non mi so tacere, d’altra parte non saprei che dire e quindi non restarmi che spropositare. Fino al Settecento l’editoria era ben poca cosa ed un libro costava davvero un patrimonio, e quindi l’orale ha sempre avuto un ruolo, da Adamo in poi, notevolissimo. Si viveva davvero senza strutture, fuori da ogni struttura, si ballava il ballo di San Vito dei buchi neri del linguaggio, delle contraddizioni. La congiura editoriale Dopo il Settecento/Ottocento comincia ad allargarsi questa sciagura editoriale e quella delle gazzette...anche dell’informazione...inimica della cultura - la demoliremo poi la cultura, se ne avremo tempo - e così si spaccia via, via l’orale ed ecco che diventa lo scritto, diventa lo scritto del morto orale, si dimentica che il significato non è il significante si dimentica il "Corso di linguistica generale" del ragazzino Ferdinand de Saussure...si dimentica questo e ben altro, e quindi l’orale prevede davvero se stesso, senza riuscire a perdersi come faceva una volta rinunciando a perdersi nella santa ignoranza...il sud del sud dei santi...ecco: il sud del sud dei santi non è soltanto un luogo etnico, ma un luogo dove l’ignoranza ha conosciuto una decadenza irrimediabile ormai, perché con l’editoria che va avanti e con l’informa zione che galoppa, informando sempre i fatti e mai sui fatti...ecco...cosa ha guadagnato? Ha guadagnato un minimo di alfabetizzazione, ecco la critica, ecco l’alfabetizzazio ne...ora l’alfabetizzazione non è la cultura, perché la cultura viene poi da "colonizza re" e quindi da "colon" e non da "culo", intanto, e quindi questo po’ di alfabetizzazione ha creato una massa, una volta neanche tanto così poi disposta alle elezioni e cioè ad eleggere, questi hanno detto: siccome dalla Camera al Senato questi sanno appena firmare, questa è la loro alfabetizzazione, sono degli ignoranti...voi lo sapete, da zombie rispettabili, ma lo sapete: sono degli ignoranti, lo sono sempre stati e lo saranno sempre...poiché ogni futuro è già trascorso fuorché l’imme diato, quest’attimo, questo! L’uomo non è nato per lavorare Questa grande massa ha scoperto che l’uomo non è nato per lavorare, intanto, senza neanche magari pensarci su, ma proprio perché depensata, abbandonata la dignità della povertà della miseria, non se la sente davvero...il Sud era accusato sempre di indolenza... «Non hanno voglia di lavorare» e qualcuno mi ha chiesto appunto in una di queste sciagurate cerimonie di onorificenza: «Vogliamo lavoro», e chi me lo chiedeva aveva si e no sedici anni. Dico: «Miserabile, ma non ti vergogni!». Ma come si fa a lavorare, a pensare di alzarsi la mattina, la sera distrutti...distrutti da un lavoro che non ci compete, che non è l’uomo - verremo poi all’uomo - non è certo una bellezza l’uomo, ma intanto sarebbe il caso di riguadagnare l’uomo, queste masse, per tornare al sud del sud dei santi. Ma il sud non è altro che una cartina tornasole dell’in tera Europa, cosa cazzo voglia dire Europa, ancora io... non capirò mai... Nell’eternità ho conosciuto Europa, ma non l’Europa. Quindi queste masse hanno fatto dei conti un po’ mal destri: siamo retti e governati da una massa di ignoranti, di imbecilli, di persone antiestetiche, non hanno nemmeno un’etica da rivendere. Dicono o simulano di avere anche compulsato Thomas Hobbes, ma non è vero, né come Leviatani, ecco: essi sono la parodia al potere...ma gli altri neanche il De Cive....Ma Hobbes, poi, è una grandissima revisione e messa in crisi del linguaggio, come lo è tutta l’opera di Nietzsche... Cosa hanno scoperto: ma a questo punto votiamo, votiamo, votiamo a furia del voto, voto, sono votato facciamoci votare, facciamoci eleggere, sono passati a candidarsi pur di non far niente...tanto, appena alfabetizzati, non rimane che candidarsi pur di non far niente...questa la fine dell’italietta, dello Stivale, dell’Europina, del mondicino: quello di essere passato da elettore a candidato, eletto, tanto siamo pari. E così le masse vanno in televisione a lasciarsi distrugge- re, non da Maurizio Costanzo, perché a Costanzo non rimane che, lo vedo spesso, allibito, prenderne atto, tutto som- mato, di queste masse che si credono protagoniste e invece sono consumate in balìa del tritatutto che è il linguaggio... E nemmeno nel simbolico, che per me è anche ripugnante, ripeto, cioè, l’arte. Hanno smarrito persino ogni senso patologico del crimine. Addio ai criminali di una volta Non abbiamo più bei condomini di criminali, non abbiamo dei criminali rispettabili più, a livello di interesse di atlante di medicina legale, no, no, abbiamo dei falliti come criminali. Ora, poi, che hanno sistemato tutta "Cosa Vostra", davvero le masse se la passano malaccio. Qualcuno, ed era davvero anche lui un genio, ha detto: «La democrazia, a differenza di altri sistemi reggitori, è quella situazione social-politica dove il popolo viene preso a calci dal popolo su mandato del popolo». Essere zombie ed essere anche democratici repubblicani...davvero...eh eh...è ripugnante. Carmelo Bene "Carmelo Bene contro tutti" andato in onda il 23 ottobre 1995 "Quando ho lavorato con Carmelo Bene ero molto giovane e non avevo intenzione di fare l’attrice. Era un episodio all’interno della mia carriera di ballerina. Fu un periodo molto faticoso perché con Carmelo si lavorava solo di notte e io la mattina alle 8 e 30 dovevo essere in sala prove perche’ ballavo. Lui si divertiva a torturare le persone, c’era un rapporto di sfida, ma mi voleva bene, mi considerava una specie di ”figlio’ - mi chiamava al maschile. Era un vero tiranno all’antica e oltre ad essere un grandissimo attore e regista, era anche una persona molto affascinante. Bisognava dunque resistergli altrimenti ti fagocitava e distruggeva; mi sono molto fortificata con questa esperienza." Fonte: http://www.oggi7.info/archivio/dettaglio.asp?Art_Id=2232&data=12/11/2005 Testo Frammento INTERVISTA / Laura Morante / Il Mestiere di attrice di Laura Caparrotti BARACCHI Raffaella Torino 25 marzo 1965. Miss Italia 1983. Vedova di Carmelo Bene (1° settembre 1937-16 marzo 2002), col quale ha fatto La cena delle beffe (nuda) e una figlia, Salomè. Incinta, finì all’ospedale per le botte: «Non auguro a nessuno quel che ho vissuto. Ma se apro i cassetti, riscopro i suoi scritti per me, i pensieri, i sassolini di mare, ritrovo la complicità che avevamo» (a Luciano Borghesan) (catalogo) Fonte: Vanity Fair 20/4/2006, pagina 38. Testo Frammento "Sono tra le poche ad aver lavorato con Carmelo Bene senza essere passata sotto le sue grinfie. Però a letto con lui ci sono stata lo stesso: soffriva di emicranie, gli massaggiavo la testa" (l’attrice Manuela Kustermann). Fonte: Giancarlo Dotto L’Espresso, 28/03/2002 Testo Frammento Carmelo Bene era troppo per chiunque di noi, L’Espresso, 28 marzo 2002  stato di parola. Ha messo in scena la sua morte. Lo ha fatto con il perfezionismo di sempre, la cura maniacale dei dettagli. Questa volta ha scelto anche il pubblico. Pochi intimi. Nessuna replica. Per la sua ultima impresa d’attore ha rinunciato al prediletto Beyer, il microfono con cui faceva all’amore. Non c’era più nulla da amplificare. Gli avevano inciso, insieme al colon e al peritoneo, anche un pezzo di diaframma e la sua voce non era più la sua voce. «Non ha più le armoniche», si disperava a chi provava a consolarlo. Aveva urlato notti intere, come un lupo in gabbia. Spellato dall’orrore ancora prima che dal dolore. Aveva invocato la morfina, il cianuro, l’eutanasia, maledetto i medici che lo tenevano in vita. «Che devo fare? Ditemi, cosa devo fare?». Un giorno ha smesso di invocare. Ha smesso di lamentarsi. Delle fitte atroci, dei cani che abbaiavano là fuori, dello stomaco che perdeva i pezzi. Ha smesso con le allucinazioni. Che altro erano quei bambini che in giardino cantavano ”Tu scendi dalle stelle”, tra gli angeli di gesso dell’Hamlet Suite? Ha fatto sistemare una pagina di giornale sullo specchio in camera da letto per non vedere più riflessa la sua immagine agonizzante, ha oscurato la stanza, spento il suo Sony 34 pollici acceso da una vita, lasciando solo una luce fioca da tela fiamminga sul suo viso sfinito, la barba lunga e il quadro alle spalle dell’amico Marotta, Amore e Psiche. Mi ha chiesto in fin di voce di aggiustargli la coperta di lana sulle gambe. «Le gambe, non le sento più». Di piegare i quattro orli, tutti allo stesso modo, simmetrici. L’ho fatto senza chiedermi perché, era tempo perso con lui chiedersi perché. Solo dopo aver controllato che tutto fosse al suo posto, si è abbandonato con le mani intrecciate sul petto. «Adesso voglio dormire», le sue ultime parole, rivolte a Luisa, la compagna insostituibile degli ultimi anni. E si è preparato a morire. Somigliando impeccabile ai comatosi che aveva tante volte spiato nelle foto di guerra di David Harali, nelle poesie di Gozzano, nei Cristi di Mantegna, nei racconti di Poe e nei manuali di psichiatria di Krafft-Ebing. La morte migliore possibile, vegliato dal brusio delle donne che lo amano e che lo hanno amato, la femminile disattenzione che da sempre scortava i suoi eroi morenti di scena. L’aveva detto agli amici più intimi. Il suo ultimo spettacolo sarebbe stato una veglia funebre. Del manichino stremato che restava in lui, in fondo a tutti i suoi Pinocchi, a tutti i Lorenzacci e gli Amleti, in fondo ai sipari strappati, le pellicole bruciate, gli infarti e le emicranie, il fegato che fa acqua, bottiglie e farmaci scolati, il bisturi e il verso, tutto precipitato, tutto in apnea e il monaco insonne, migliaia di notti bianche, pagine e pagine, una scorribanda che lo ha lasciato, che ci ha lasciato, senza fiato. Il cancro era tornato. Era già in metastasi e non lo sapeva quando leggeva Dante nel castello di Otranto, lo scorso agosto, l’ultima esibizione pubblica davanti alla sua gente. Memorabile, raccontano i presenti. Era stanco Carmelo. Se ne infischiava del mondo che lo adorava o lo detestava, del tempo che gli restava o non gli restava. Era deciso a conquistarsi una lucida follia alla Friedrich Nietzsche. Il suo ”depensamento”. Non usciva più di casa. Cantava arie di Rossini e farfugliava fitto mentre scriveva con la pazienza dei monaci amanuensi. «Ogni tanto mi viene di buttarmi giù dal terrazzo», mi diceva nella sua casa di Otranto, «ma poi ci ripenso, sarebbe una volgare piazzata». Mille volte spacciato e miracolato. Anche stavolta sembrava potercela fare. Nonostante 200 metastasi, infezioni, ernie, versamenti, l’addome che si apriva, la carne marcia. Per l’ennesimo massacro da bisturi aveva scelto un chirurgo, Husher, che gli ricordava le rovine della casa del suo prediletto Edgar Allan Poe. Deliri sempre illuminanti, i suoi. Perdeva budella e pezzi d’intestino ma questo non gli impediva di dare lezioni notturne in francese su Céline all’infermiere che lo vegliava. Una delle ultime notti, gli tornò la voglia di scrivere, ma le mani erano così deboli che non riusciva più nemmeno a reggere il suo pennarello di china. Carmelo Bene era troppo per chiunque di noi. E adesso che non c’è più, ognuno si porta via il pezzo preferito della sua sconfinata biografia. L’attore sublime, l’intellettuale aforistico, il cineasta, lo scrittore, il poeta, la voce, il performer televisivo. Lo scandaloso e il solitario, l’incantatore e il serpente, il vampiro e la ferita sempre aperta. Un orco impastato di tenerezza. Non era possibile stargli al fianco più di qualche tempo senza patire le ustioni, senza dover cercare tregua altrove, nel mondo dei normali, dove non tutto precipita contro il limite. Più che una vita, un’impresa di demolizione la sua. Aveva il carisma di un divo rock e lo dimostrò quella notte a Bologna, ammaliando i 200 mila dalla torre con la lettura di Dante. «Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta...», salutata con un boato come un riff di Jimi Hendrix. La lettura di Jacques Lacan (che gli rese omaggio a Parigi in camerino), le amicizie con Gilles Deleuze e con Pierre Klossowski orientarono dagli anni ’80 tutta la sua opera contro 1’impostura del soggetto parlante. Scoprì le grandi macchine del suono e se ne invaghì perdutamente. Affabulava notti intere di Svetonio e di Elliot, di Artaud e di Cioran, ma era la rassicurante bellezza dell’inorganico la speculazione preferita dei suoi ultimi anni. Era nato lo stesso giorno, la stessa ora, lo stesso minuto, 15 anni dopo, di Vittorio Gassman, l’amico rivale che lo applaudiva in piedi all’Olimpico nel buio di platea, dopo un Adelchi, poco prima di morire. Tutto era un ring per lui. Disumano per eccesso di umanità, combattente feroce per quanto consapevole della disfatta. Ogni cosa una sfida. Come quella notte, lui come sempre mollemente sdraiato sul gomito sinistro, a curiosare nel dormiveglia dell’insonne un film sulla vita di John Holmes. Holmes che dice «Ho avuto 14 mila donne» e lui, Carmelo, che riemerge stizzoso: «Ma se persino io non sono arrivato a 5 mila!». Lo stesso che si commuoveva fino alle lacrime quando parlava all’amico della grandezza di Von Masoch. Ora posso solo dire che la sua mancanza ci brucia le tempie. E a nulla ci serve recitare la storiella del genio mai nato e dunque mai morto. Che mille gradi Celsius sono bastati a ridurlo in cenere. Ma non a riscaldarlo. Aveva sempre freddo, Carmelo. E odiava l’idea di diventare un mucchio di gelatina in fondo a una bara. «Delle mie ceneri fate quello che volete», ripeteva, «magari una crostata per colazione». Abbiamo smesso da tempo di chiederci da dove sia mai piovuto questo essere così speciale che ora qualunque sternuto può disperdere nella volgare polluzione del pianeta. Non è solo l’amico che manca, ma quella voce, chissà dove è andata, quella voce che ci dava calma e forza, quella voce che era la nostalgia di tutto ciò che abbiamo perduto senza avere mai avuto. Che solo a sentirla ci spediva in paradiso. Lui, quella creatura speciale, lui non c’è più. Peggio per noi. Giancarlo Dotto Fonte: Libero 30/12/2005 Testo Frammento "Invecchiare è comunque una odiosa mania. Qualunque trapasso nell’età del pensiero è un fallimento" (Carmelo Bene) Fonte: Pietrangelo Buttafuoco, "Panorama" 12/5/2005, pag. 292. Quella volta che Carmelo Bene partecipò a "Domenica In". Era il ’75, conduceva Corrado, e lui cantò - benissimo - una canzoncina tratta da "S.A.D.E., ovvero libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina". «Amava la conquista e, al momento di concludere, si era già stufato» (Lydia Mancinelli) «E a me piace chi non mi comprende» (Carmelo Bene). «I più bei film che abbia visto li ho letti» (Carmelo Bene). come un flash: talmente veloce che è fermo (Romario secondo Carmelo Bene). Discorso su due piedi (il calcio), Carmelo Bene enrico ghezzi, Baldini&Castoldi 1998; Marco Van Basten, secondo Carmelo Bene limitato per la mancanza del «concettazzo del tiro sporco»: «I suoi gol sono capolavori, oppure non sono. Colpiva di collo pieno, e a volte sbagliava per questo dei gol che magari un giocatore di C2 avrebbe fatto. Pur di colpire istintivamente come si deve colpire poteva anche sbagliare dei gol». Aria fritta. ”Lei è capace di friggere l’aria? Io sì” (Carmelo Bene). adorava il calcio. Nella sua casa di Otranto, dove le persiane erano costantemente e rigorosamente abbassate, passava delle ore a girare sui canali satellitari a gustarsi il calcio dell’una o dell’altra nazione. Gianni Melidoni mi raccontava che gli telefonava al ”Messaggero” è gli attaccava bottoni infiniti sulla disposizione in campo delle squadre" (Giampiero Mughini). Giampiero Mughini, ìControcampoî 6/10/2002 Fonte: Franca Rame (a cura di), "Dario Fo. Manuale minimo dellíattore", Einaudi 1997 Fo, andato a trovare Carmelo Bene in camerino a Parigi nell’intervallo del Macbeth, vide uno stuolo di bottiglie di birra vuote, sistemate in file di tre. Bene: «Questa è la mia reazione quotidiana». Fo: «Aveva recitato tutto il primo tempo con una veemenza incredibile, e nella seconda parte saltò come un capretto, digrignò, andò di falsetto, sbrodolò parole a grande velocità, il tutto mantenendo un tempo e una coordinazione straordinari». Altro che ebe come una spugna e poi non perde colpi: Peter O’ Toole. Fonte: "L’Espresso" 11/09/1997 "Trovare una donna che sia una persona è raro" (Carmelo Bene). Fonte: Antonio Gnoli, ìla Repubblicaî 10/11/98 Anestesie. A Carmelo Bene è capitato di chiedere ad alcuni amici medici di praticargli anestesie totali, anche senza avere alcun male: «Volevo solo smettere di pensare, desideravo non esserci». Fonte: Rodolfo Di Giammarco, la Repubblica, 06/10/1997 Testo Frammento Di che altre letture si serve più volentieri? «Libri di filosofia, di patristica greca (quella non dogmatica, non positiva), e in teoria consulto ogni letteratura ma devo confessare che la più grande folgorazione l’ebbi con ”l’Ulisse” di Joyce, che ai miei occhi ha trasformato la vita in fenomeno estetico puro, tale è l’immediatezza del linguaggio: in futuro non si raccomanderà e non si tramanderà più l’Odissea di Omero (io amo solo l’Iliade che è follia totale), ma appunto, l’Ulisse joyciano». (Carmelo Bene a Rodolfo Di Giammarco). Fonte: Carmelo Bene, il manifesto 28/5/2000 «La mia massima ambizione è sempre stata quella di diventar cretino, perseguita con accanimento fin dalle operine giovanissime» (Carmelo Bene) . Fonte: Giancarlo Dotto, "L’Espresso", 28/3/2002 pagina 156. Carmelo Bene, negli ultimi giorni della sua malattia fa sistemare una pagina di giornale sullo specchio in camera da letto («per non vedere più riflessa un’immagine agonizzante»), oscura la stanza, spegne il suo Sony 34 pollici «acceso da una vita», solo una luce fioca a illuminare il quadro alle spalle del letto, "Amore e Psiche" dell’amico Marotta. Fonte: Valeria Numerico, "Io Donna", 14/9/2002 numero 37, pagina 100. «Il novantanove per cento di me è contento di morire, ma c’è un uno per cento a cui invece rode. E io, quell’uno, proprio non lo capisco» (Carmelo Bene, negli ultimi giorni della sua malattia). Fonte: Valeria Numerico, "Io Donna", 14/9/2002 numero 37, pagina 100. Il corteggiamento di Carmelo Bene alla giovane Luisa Viglietti, durante le prove del loro primo spettacolo assieme nel ’94: «Si appostava dietro gli angoli per saltarmi addosso. Era divertentissimo. Giocava, faceva Pinocchio, era tutto Pinocchio». Duri i primi tempi insieme: «Dovevo scardinare le abitudini per adeguarmi a lui che aveva una capacità di lavoro disumana e nella testa un motore sempre acceso. Anche lui ha dovuto adattarsi a me, al mio accento per esempio. La sua proprietà di linguaggio non ammetteva errori, a una parola sbagliata saltava su. Mi correggeva, ma io non ci badavo. E un giorno che mi ero stesa accanto a lui sul letto, sospirò: "In otto anni non sei riuscita a imparare l’italiano. Hai quasi rovinato il mio"». Fonte: Claudia Provvedini "Corriere della Sera" 18/10/2002. Quella volta che a Mosca, Carmelo Bene rifiutò lo champagne del presidente sovietico e poi cominciò a gridare «Viva Hitler, viva Stalin». Carmelo Pompilio Realio Antonio Bene nato il 1° settembre 1937 a Campi Salentina poco a nord di Lecce. Stesso giorno, stessa ora, stesso minuto, quindici anni dopo, di Vittorio Gassman. «Attore, scrittore, poeta, cantante, regista, pittore, puttaniere e amatore, criminale e santo. Infine genio» (Pietrangelo Buttafuoco). «Non sono nato per essere nato. Nato per lavorare, per il vicinato, per essere un buon cittadino, non essendo nato a una coscienza: non essendo nato nemmeno alla coscienza. Ho cominciato ad agire, ma non nel progetto, nell’atto, auspicando l’atto...» (opere). «Bambino, mi chiedevo: se l’attore fa il personaggio, chi fa l’attore?» (benedotto) «Carmelo è nome fin troppo lusinghiero, il nome di una grande montagna per un topolino, un bambino gracile come ero io. Ma mia madre Amelia non pensava alla montagna, così come non pensava a Numa Pompilio o a Marc’Antonio, ha infilato solo quattro santi e buonasera» (benedotto). «C’era già stato un tentativo di far nascere una bambina. So solo che morì un anno dopo essere nata. Mia madre me lo raccontava sempre, ma io non ne ho mai voluto sentir parlare. Sai, i bambini sono sempre molto gelosi dei fratellini. “È morta? Meglio così. Visto che ci siamo... almeno s’occupano un po’ meglio di me...» (benedotto) «Quando sono nata io, desiderava che mi gettassero giù dal terrazzo. Carmelo odiava le bambine, le trovava leziose» (la sorella Maria Luisa). ANNI GIOVANILI «Il primo anno che Carmelo visse a Roma, oltre a non frequentare la facoltà di legge dove era iscritto, andava a lezione di recitazione all’Accademia Sharoff. Solo in seguito riuscì, con grande caparbietà a entrare nella più famosa Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico. All’inizio non lo volevano ammettere, allora lui, per protesta, fece un sit-in sui gradini dell’istituto che durò qualche giorno. Alcuni insegnanti si avvicinarono e uno di loro gli chiese se almeno conosceva l’Amleto e lui gli rispose: «In otto traduzioni diverse a memoria».Quando riuscì a entrare si fece subito notare per la sua irriverenza, era sempre molesto con tutti, soprattutto con i docenti. Proprio per il comportamento inopportuno, quando qualcuno chiedeve se c’era Carmelo, altri rispondevano: “Non c’è Bene, grazie”» (Giuliana Rossi) «A ventuno anni, quando era “un bel mostro” e “si voltavano tutti, uomini, donne, finocchi”, si volta anche Albert Camus e dopo averlo guardato negli occhi gli regala i diritti di Caligola per il prezzo di un posto in platea che un infarto gli impedirà di riscuotere, ed è l’unico posto che alla prima e poi alle quaranta repliche resta vuoto. I giornali salutano la nascita di un grande attore, un altro al suo posto avrebbe iniziato una luminosa carriera teatrale. Certo, ancora Pierre Klossowski non aveva scritto che “Carmelo riesce a restituire il significato metafisico del teatro”, ma siamo nell’Italia di Alberto Moravia a Alberto Arbasino, di Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante, di gente che ancora riusciva a imporre un gusto anche se poi, inevitabilmente, diventava subito una moda per gli stupidi spettatori intelligenti, una croce che quelli della domenica pomeriggio, gli abbonati dei teatri stabili che dalla prima fila lo applaudono con lo stesso meccanico entusiasmo riservato ai musical di Garinei e Giovannini, salvo poi, uscendo, di nascosto chiedere all’amica: “Ma che cosa voleva dire?”, o borbottare, in silenzo: “Ma come 80 mila lire per tre quarti d’ora? E poi, questo Homellette for Hamlet, ma è quello che ha scritto Shakespeare? Ed ‘Essere o non essere’?, alla fine, l’ha recitato oppure no?” (Pietrangelo Buttafuoco). «Il Teatro Laboratorio (nato nel 1962) oltre al gruppo degli intellettuali, era frequentato anche da un pubblico molto borghese, snob e pseudo-intellettuale. Queste persone, prima di entrare nello stabile dove abitava solo povera gente, alzando il capo e vedendo queste case di ringhiera dicevano: “Che bello! Sembra Mondrian!”. Allora gli inquilini che erano alle finestre, vedendo tutto queste donne impellicciate che commentavano, urlavano: “Va’ via mignotta!”, “A stronzi!”, tirando loro addosso di tutto. E quelli entravano con doppi fremiti». (Giuliana Rossi) «Ci fu chi notò subito il suo stile. Quelli che lo ignorarono si accorsero di lui quando una sua pièce fu accusata di oscenità. Era il 1963, anno d’oro per le avanguardie artistiche in Italia. Reinventato Cristo, reinventò Manon Lescaut, Ubu Roi, Pinocchio, reinventò l’Amleto reinventato da Laforgue. Divise il pubblico: da una parte il grande pubblico che lo ignorò o lo derise, dall’altra parte un piccolo pubblico disposto a giurare che se il teatro esisteva in Italia era perché esisteva Carmelo Bene, disposto ad affermare che se c’era in Italia un cinema d’autore quello era il cinema di Carmelo Bene. Come si conviene, più che si conviene a un autore, scrisse, diresse interpretò i suoi film come scriveva, dirigeva, interpretava le sua piéce. Nostra Signora dei Turchi fu romanzo (il migliore dell’avanguardia italiana?), fu spettacolo teatrale (il migliore di Carmelo Bene?), fu un film (il migliore film italiano di quegli anni?). Carmelo Bene un pittore che cerca il suicidio in incidenti fantasiosi come in Capricci (1969), fu un Don Giovanni (1970) in decadenza come poteva immaginarlo il decadente Barbey d’Aurevilly, fu Erode che assiste alla danza dei sette veli della Salomè nera sulle note di Abat-jour (Salomè, 1972). Fu il capocomico Amleto sempre lì li per fuggire in Francia con la primattrice in Un Amleto di meno (1973). Smise di girare film, i suoi film smisero di girare, congelati da incomprensibili (soprattutto per Bene) questioni fiscali» (Il Foglio) «Misconosciuto come artista, rimosso come intellettuale. Era diventato, già a partire dagli anni ’60 a perdifiato delle cantine fino all’apice degli anni ’80, l’icona culturale di certi salotti snob che collezionavano al suo cospetto orgasmi plurimi, puntualmente benedetti dall’equivoco e dall’incomprensione. Di cui Carmelo non si doleva più di tanto, consapevole che tanto rumore e tanti orgasmi aiutavano comunque ad alimentare il conto in banca e certi lussi indispensabili per l’anacoreta pane e caffè nero che si avviava a diventare negli anni ’90, affacciato e mai visibile sul mare di Otranto a indovinare turchi e cantare Rossini» (Giancarlo Dotto). «Più che una vita, un’impresa di demolizione la sua. Aveva il carisma di un divo rock e lo dimostrò quella notte a Bologna, ammaliando i 200 mila dalla torre con la lettura di Dante. «Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta...», salutata con un boato come un riff di Jimi Hendrix. La lettura di Jacques Lacan (che gli rese omaggio a Parigi in camerino), le amicizie con Gilles Deleuze e con Pierre Klossowski orientarono dagli anni ’80 tutta la sua opera contro 1’impostura del soggetto parlante. Scoprì le grandi macchine del suono e se ne invaghì perdutamente. Affabulava notti intere di Svetonio e di Elliot, di Artaud e di Cioran, ma era la rassicurante bellezza dell’inorganico la speculazione preferita dei suoi ultimi anni» (Giancarlo Dotto). TEATRO «Pazienza» (quando gli esprimevano apprezzamenti affettuosi sui suoi spettacoli). «Bravo!», gli urlano dalla platea. «Lo so», risponde lui dal palcoscenico. «Le opere di Bene sono brevi. Nessuno sa finire meglio di lui» (Gilles Deleuze). «Il Pannella del teatro italiano» (Franco Zeffirelli). «Come potremmo definire Carmelo Bene? Un regista con i piedi fermamente poggiati sulle nuvole?» (Ennio Flaiano). «Il teatro mi noia farlo, non lo amo affatto, come non si ama particolarmente la vita anche se dobbiamo viverla, non mi diverte nel modo più assoluto. Però lo so fare meglio di chiunque altro, questo sì». «Carmelo Bene mette nel suo amore per il teatro una notevole mancanza di raziocinio, ed è per questo che i suoi spettacoli, persino al limite dell’indignazione, hanno qualcosa di impensabile e di affascinante. Si può rifiutarli, alla fine, ma non per le premesse da cui partono, che sono sempre giuste. Piuttosto per una certa incuria, per una rinuncia a chiarire, per quell’angoscia di arrivare a una conclusione. C’è insomma in Carmelo Bene, una volta avviato il giuoco, quasi il proposito di soffocare le sue infelici intuizioni nella routine del bizzarro. [...] Per intenderci meglio: detesto che fa i baffi alla Gioconda, ma non ho niente da dire a chi la prende a pugnalate» (Ennio Flaiano, 1964). «Eravamo divisi. Non c’era più un oggetto comune che tutti erano in grado di percepire allo stesso modo, come capitava sempre andando a teatro. Era evidente che lì qualcosa si era rotto. [...] Dov’era finito l’ordine narrativo? Cosa sto vedendo? Dove sono? Che senso ha per me ascoltare questa roba? Perché un teatro alienato, dal quale dovrei fuggire, è in grado di commuovermi? [...] Era la verifica dell’esistenza della possibilità, fattuale, di lasciare un segno, di segnare la realtà alla quale siamo stati consegnati prima dell’insorgere di ogni coscienza» (Romeo Castellucci). «A teatro non va più la borghesia di una volta, illuminata, s’immagina un po’ viziosetta, e il teatro è un lusso, via, non lo vedo come ideale per poveri, anche se un teatro davvero aristocratico sarà anche popolare. Oggi ci vanno i piccoli borghesi, i bottegai; come si può trascorrere una giornata di onesto – o disonesto – lavoro dietro un banco di salumi e alla sera andare a teatro senza aver mai letto un libro?» (cs94). «Con Benigni siamo amici da anni. Lui è grande nel “buffo”, ma lasciamo stare il “comico”. I buffi sono concilianti, rallegrano la corte e le masse. Il comico che interessa a me è un’altra cosa. Cattiveria pura. Il ghigno del cadavere. Il comico è spesso involontario. Specialmente quando si sposa con il sublime» (l’Espresso). «La mia massima ambizione è sempre stata quella di diventar cretino, perseguita con accanimento fin dalle operine giovanissime» (Carmelo Bene). «La vera funzione politica del teatro di Carmelo era quella di dividere la città e di mettere a repentaglio il luogo comune che tiene insieme la comunità umana: il linguaggio. La sua era una politica di tipo paradossale svolta fino in fondo; fino, cioè, alla sua conseguente funzione a-politica. Disconosceva le regole della città per indicare il luogo della solitudine dell’eroe: il campo del linguaggio» (Romeo Castellucci). «Il teatro non può conoscere il teatro, così come la felicità non è felice... Così come il cinema non sa di cinema, così come tutte le rivoluzioni più importanti che ritengo di aver di aver apportato alla concertistica fino alla macchina attoriale, l’amplificazione... ecco questo della musicalità, questo dell’aldilà della voce, non solo delle parole prima delle parole, come avrebbe detto Artaud, e della parola dopo le parole... questo scavalcare la parola, questo sgambettare il linguaggio... ecco... Sennò si finisce davvero non soltanto nel quotidiano... si rischia il simbolico e cioè si rischia ancora l’arte e invece verremo a sapere, forse anche stasera, come nessuno è attore di alcunché, come non si dà opera d’arte, come non si può produrre un capolavoro, come non resta che essere un capolavoro» (cs95). «Un giorno mi fece sedere a un tavolo con carta e penna dettandomi le regole e i compiti che mi avrebbero preparata al lavoro con lui. Proibizione assoluta dell’esercizio fisico e studio della letteratura e della filosofia per un consistente numero di ore al giono; sola la metrica era concesso come “materia teatrale”. [...] Come sua partner sul palcoscenico ero colpita dalla stupefacente libertà che possedeva in scena e dall’evidenza della sostanza dell’attore. Lo vedevo in quella capacità di azzerare qualsiasi volontà, di riazzerarla ogni qualvolta si imponeva di nuovo, di usarla solo per far partire il corpo, e da quella lontananza lasciarsi andare. Capivo che per fare questo bisognava avere lavorato molto, ma si trattava del lavoro di una vita, indefinibile, che riguardava l’essere pronti e il non prepararsi. Uno spendersi totale, senza investimento psicologico» (Silvia Pasello) «Lo studio di CB. Seduti alla scrivania, l’uno di fronte all’altra. Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Shopenhauer. Io leggo, ad alta voce, alcuni brani. Lui chiosa, e indaga (capire se capisco). Quello è stato il “libro di testo” del mio breve, intenso apprendistato alla scuola di CB. Altri “testi”, caldamente consigliati, sono stati letti e riletti in quel periodo – Joyce, Saussure, Flaiano, Gozzano... E gli ascolti – naturalmente Callas (le famose “lettere”) e Kathleen Ferrier... “Devi studiare, studiare. Dodici, quattordici ore al giorno!”, mi diceva» (Sonia Bergamasco) «Quando ho lavorato con Carmelo Bene ero molto giovane e non avevo intenzione di fare l’attrice. Si lavorava la notte. Lui si divertiva a torturare le persone, c’era un rapporto di sfida, ma mi voleva bene, mi considerava una specie di ”figlio“ - mi chiamava al maschile. Era un vero tiranno all’antica e oltre ad essere un grandissimo attore e regista, era anche una persona molto affascinante. Bisognava dunque resistergli altrimenti ti fagocitava e distruggeva; mi sono molto fortificata con questa esperienza» (Laura Morante). POESIA «Nell’istante in cui Carmelo Bene pronuncia un parola, in quell’istante, tu sai cosa vuol dire: un istante dopo non lo sai più. [...]E’ meraviglioso come tutto questo non abbia niente a che fare con l’idea che si ha normalmente della poesia: un poeta soffre, esprime il suo dolore in belle parole, io leggo le parole, incontro il suo dolore, lo intreccio col mio, ci godo. Palle: per anime belle. Tu senti Carmelo Bene e il poeta sparisce, non esprime e comunica niente, l’attore sparisce, non esprime e comunica niente: sono sponde di un biliardo in cui va la biglia del linguaggio a tracciare traiettorie che disegnano figure sonore: e quelle figure, sono icone dell’umano. Le poesie non sono delle telefonate: non le si fanno per comunicare. Le poesie dovrebbero esser pietre: il mare o il vento che le hanno disegnate, sono poco più che un’ipotesi. Non spiega quasi nulla, Carmelo Bene, durante lo spettacolo. Solo un paio di volte annota qualcosa. E quando lo fa lascia il segno. Dice: leggere è un modo di dimenticare. Testualmente, nel suo linguaggio avvitato sul gusto del paradosso: leggere è una non-forma dell’oblio. Non so gli altri: ma a me m’ha fulminato» (Aessandro Baricco). «Io mi scuso per il vento che ha turbato questa dizione, questo canto, e sebbene ringrazi gli astanti ricordo un po’ a tutti che ho dedicato questa mia serata, da ferito a morte, non ai morti, ma ai feriti dell’orrenda strage» (così al termine della Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli il 31 luglio 1981, a un anno dalla strage della stazione di Bologna). «Annottava allorquando, sorretto e confortato dai cerusici, raggiunsi quei miei prodi genieri in sulli spalti. E lo sguardo mi cadde giuù tra’merli, e me s’offerse, mai veduto prima, di genti variopinte un oceàno. Chiesi a un birro di guardia quanto distava dal cominciamento di mia funzione, e quei mi disse un’ora o poco meno. Prese a soffiare un vento di scirocco che fastidiava non poco li megafoni issati in su le lance. Io mi forzava trattener gli spiriti e darmi pace, come usa pugilatore avanti la sua tenzone. Era l’ora. M’inerpicai sui pioli d’una impervia scaletta e finalmente mi mostrai alla folla che, meravigliata forse più di suo numero che del miraggio mio, salutò in me l’attesa. Fu di plauso un boato indescrivibile che si ripercoteva da le piazze lontane e ne le strade adiacenti tutte. Apparvi. Li occhi mia chiusi al leggio luminescente, presi a cantar li versi d’Allegheri. Ma d’altrove, nel tempo delle nevi e del vin cotto di mia parvola vita. E venni meno, e il canto seguitò come profferto da ser Boccaccio in quella villa istessa settecent’anni prima. Li suoni rincorreansi sovra i tetti, e il silenzio divoto de le gentiornai fatte incantamento mi suase al dolce vanire. Un rifiorir de la mente, mariano, ai piedi de la prediletta Madonna argentea in vesti amnesia d’azzurro e rosa. Or io mi dico, nel mentre ch’ero detto, come non mi fu dato altra volta in mia vita intendere, che quella mia preghiera lentamente si smarriva, e via via che il silenzio del mio dire s’obliava del senso, Nostra Signora lontanando vaniva al guardo mio innamorato. Era che il mio pensiero parvolino non poteva suadersi essere lui la madonna invocata. Ché la Madonna m’appariva beata. [...] Così la circulata melodia / si sigillava e tutti li altri lumi / facean sonar lo nome di Maria. [...] Un boato salutava il termine della Lectura Dantis, d’entusiasmo (in)fondato. Non v’ha dubbi. Era apparso alla Madonna. (Sono apparso alla Madonna, Carmelo Bene, Longanesi 1983) Il titolo Sono apparso alla Madonna nasce da una battuta di Ruggero Orlando ubriaco in una notte dell’estate del 1982 a Forte dei Marmi (benedotto). EROS/PORNO Mi sono prodigato per anni tra una masturbazione e l’altra. Mi chiudevo a chiave in camera con le mie Nerine, giustificatissime assenti, proprio come il Leopardi, infaticabile in mancanza di peggio. Mia madre capiva sempre l’antifona e dalla cucina mi chiamava con ogni pretesto. “A tavola, è pronto!“. Le copule vennero molto dopo, in ritardo, non prima dei diciotto anni. Quanto bastava per avere la conferma che il coito è un surrogato della masturbazione, non il contrario. Aveva ragione Groddeck. Da allora ho trattato tutti i non rapporti di copula come infinita masturbazione. Mai stato un facchino del sesso, un atleta della prestazione. Bisogna cercare d’istupidirsi non di fottere. “Fate voi, ma fate presto”, così dicevo tra me e me in quei letti sempre molto affollati. Quasi sempre da queste amazzoni del cazzo. Pensano che la perversione sia il kamasutra... E non l’uscir di strada, come diceva San Juan de la Cruz. Solo i grandi mistici e le grandi mistiche possono capire questo. Anche se non possono raccontarlo. Delle loro estasi non ne sanno niente. Non erano in casa» (benedotto). «Non mi sento mai così solo come in un letto sardanapalico... si nasce si muore soli, che è già un eccesso di compagnia. Una volta per tutte: quello del Don Giovanni è un vero calvario, altro che impotenza! È il femminile che è in me che va ogni volta a palpare i propri vuoti nelle notificazioni del corpo donnesco» (benedotto) «Il corpo implora il ritorno all’inorganico. Nel frattempo non si nega nulla» (l’Espresso). «Parlava Bene, e per lui e con lui tutta la masnada diabolica dei filosofi e dei poeti francesi con i quali era sempre in risonanza (Da Deleuze a Sade, da Laforgue a Guattari), di pornografia. La pornografia, diceva, inizia dove finisce l’eros, esattamente al di là del desiderio» (Elena Stancanelli) «Il porno si instaura dopo la morte del desiderio, dell’eros, morto sacrificato eros. L’aldilà del desiderio, quando tu fai qualcosa al di là della voglia, la voglia della voglia, questo è il porno, è una svogliatezza... Il più grande pornomane, non è il Sade, è Franz Kafka» (cs94). DONNE «Sono tra le poche ad aver lavorato con Carmelo Bene senza essere passata sotto le sue grinfie. Però a letto con lui ci sono stata lo stesso: soffriva di emicranie, gli massaggiavo la testa» (Manuela Kustermann). «Delle donne mancata all’appuntamento con le scale (da lavare) disse: “Tutte le volte che ti urlano contro, è il loro modo per invocarti d’internarle in una clinica per malattie nervose; il neurologo, lo psichiatra (possibilmente pagando tu la parcella). Ecco l’evoluzione della donna!”» (Buttafuoco). «Sa perché Carmelo amava incondizionatamente le donne? Me lo disse quel giorno: “Perché sono la cosa vivente più vicina alla morte”» (Sandro Bechetti). Curiosando nel dormiveglia un film sulla vita di John Holmes. Holmes che dice «Ho avuto 14 mila donne» e lui, Carmelo, che riemerge stizzoso: «Ma se persino io non sono arrivato a 5 mila!» (Giancarlo Dotto). «Amava la conquista e, al momento di concludere, si era già stufato» (Lydia Mancinelli). «E a me piace chi non mi comprende» (Carmelo Bene). «Trovare una donna che sia una persona è raro» (Carmelo Bene). MOGLI Giuliana Rossi (Firenze 1933-2005), prima moglie di Carmelo Bene. Si conobbero nell’ottobre del 1959, ad una festa in via Veneto: «Di lui mi colpì il pudore quando ci trovammo dietro una bellissima prostituta che ci camminava davanti ancheggiando, sbattendoci quasi il culo in faccia, ma Carmelo faceva finta di non vederla continuando a dirmi i suoi versi. Me ne ricordo uno in particolare: “Voglio essere una gialla vela / io te e il mediterraneo”. Lo percepivo come una persona seria e intelligente, un vero poeta. Mia madre era venuta con me a Roma e quella volta mi aspettò tutta la notte...». Carmelo e Giuliana Rossi si sposano il 23 aprile 1960 in Palazzo Vecchio a Firenze. Per impedirglielo (la madre: «Questo cretino c’è costato un sacco di soldi! Se si sposano i privilegi li avrà lei e non noi, che s’è fatto tutti questi sacrifici!») la famiglia aveva fatto internare Carmelo in una clinica per malattie mentali (Giuliana Rossi). Il 14 maggio 1961 nasce Alessandro Bene. A tre anni gli viene diagnosticato un tumore tra il palato e la gola. Nonostante le tante cure («Carmelo solo in un’occasione venne a trovarlo»), muore il 3 ottobre 1965. «Aveva quattro anni, quattro mesi e venticinque giorni. La mattina dopo spedii un telegramma a Carmelo comunicandogli questa grande perdita. Lui nel suo libro (Vita di Carmelo Bene, ndr) ha raccontato che aveva sei anni e mezzo: non mettere l’età, non mettere niente, sapevi che era malato ma non hai fatto assolutamente nulla per tuo figlio!» (Giuliana Rossi). «Il divorzio da Carmelo è stato formalizzato nel 1973. Dopo la separazione legale Carmelo andò in appello e poi in Cassazione, non voleva separarsi e quando venne a sapere da alcuni amici che mi ero risposata non voleva crederci e ripeteva a tutti: “Ma se è ancora mia moglie!“» (Giuliana Rossi) Lydia Mancinelli che per venti anni è stata la sua compagna nella vita e sul palco: «La nostra storia quando ho accettato di lavorare con Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer. Carmelo non mi ha mai perdonato questa uscita, questo tradimento con il teatro tradizionale». La Mancinelli aveva lasciato marito e due figli per seguire quell’uomo «bello e completamente fuori dalla realtà» (L’Europeo). «Il nostro rapporto è durato 19 anni e non ci siamo lasciati neanche per cinque minuti. Lui non guidava e io gli facevo da autista, dormivamo insieme, mangiavamo insieme, lavoravamo insieme, provavamo insieme, scrivevamo insieme, facevamo traduzioni insieme. Se si litigava era perché io, nipote del musicista Luigi Mancinelli, propendevo per Wagner e Rossini, lui per Verdi e Bellini. Quando sono andata via, ha dovuto prendere sette persone: l’autista, il collaboratore domestico, l’amante, l’attrice di teatro, la segretaria, l’organizzatore degli spettacoli e via dicendo» (Lydia Mancinelli) «Era la persona più facile che si possa immaginare. Per lui il quotidiano non esisteva, non aveva senso pratico e si affidava completamente a me. Era un figlio: gli tagliavo perfino i capelli, gli compravo le scarpe» (Lydia Mancinelli). Raffaella Torino 25 marzo 1965. Miss Italia 1983. Seconda moglie di Carmelo Bene, col quale ha fatto La cena delle beffe (nuda) e una figlia, Salomè. Incinta, finì all’ospedale per le botte: «Non auguro a nessuno quel che ho vissuto. Ma se apro i cassetti, riscopro i suoi scritti per me, i pensieri, i sassolini di mare, ritrovo la complicità che avevamo» (a Luciano Borghesan). Poi, fino alla fine, toccò a Luisa Viglietti. Il corteggiamento di Carmelo Bene alla giovane Luisa Viglietti, durante le prove del loro primo spettacolo assieme nel ’94: «Si appostava dietro gli angoli per saltarmi addosso. Era divertentissimo. Giocava, faceva Pinocchio, era tutto Pinocchio». Duri i primi tempi insieme: «Dovevo scardinare le abitudini per adeguarmi a lui che aveva una capacità di lavoro disumana e nella testa un motore sempre acceso. Anche lui ha dovuto adattarsi a me, al mio accento per esempio. La sua proprietà di linguaggio non ammetteva errori, a una parola sbagliata saltava su. Mi correggeva, ma io non ci badavo. E un giorno che mi ero stesa accanto a lui sul letto, sospirò: "In otto anni non sei riuscita a imparare l’italiano. Hai quasi rovinato il mio"». LIBRI «Di che altre letture si serve più volentieri?». «Libri di filosofia, di patristica greca (quella non dogmatica, non positiva), e in teoria consulto ogni letteratura ma devo confessare che la più grande folgorazione l’ebbi con l’Ulisse di Joyce, che ai miei occhi ha trasformato la vita in fenomeno estetico puro, tale è l’immediatezza del linguaggio: in futuro non si raccomanderà e non si tramanderà più l’Odissea di Omero (io amo solo l’Iliade che è follia totale), ma appunto, l’Ulisse joyciano» (a Rodolfo Di Giammarco). INFORMAZIONE «Mi trovo mi malgrado stipato, comunque in buona compagnia, nei classici Bompiani. Il classico è quanto appunto è eterno, non conosce attualismi, non conosce quindi l’attualità, non conosce contemporanei, non è un bestseller, non sollecità rincorse agli acquisti, alle strenne. Mi dispiace per voi, non è un dispetto, non è Carmelo Bene a dispetto di tutti, ma esonerando quindi dal contemporaneo non mi resta che, con tanta agape più che schopenhaueriana, comprendere, senza per ciò immedesimarmi, una platea di morti. Destinati all’attualità, alla cronaca, dannati e condannati all’informazione, che come sempre informa i fatti, diceva tanti anni fa Jacques Derrida, non informa mai sui fatti, anche perché i fatti non accadono mai, Aristotele docet. Non conta la veridicità di un fatto accaduto, ma il convincimento che il messaggero di questo fatto riesce a trasmettere... e quindi i fatti non contano» (cs95). «Sarebbe ora di finirla con questa libertà di stampa. No mi sta bene la libertà di stampa, se è libertà dalla stampa...» (cs94). «Fino al Settecento l’editoria era ben poca cosa ed un libro costava davvero un patrimonio, e quindi l’orale ha sempre avuto un ruolo, da Adamo in poi, notevolissimo. Si viveva davvero senza strutture, fuori da ogni struttura, si ballava il ballo di San Vito dei buchi neri del linguaggio, delle contraddizioni. Dopo il Settecento/Ottocento comincia ad allargarsi questa sciagura editoriale e quella delle gazzette... anche dell’informazione... inimica della cultura e così si spaccia via, via l’orale ed ecco che diventa lo scritto, diventa lo scritto del morto orale» (cs95). «Ci sono cose che devono restare inedite per le masse anche se editate. Pound o Kafka diffusi su Internet non diventano più accessibili, al contrario. Quando l’arte era ancora un fenomeno estetico, la sua destinazione era per i privati. Un Velazquez, solo un principe poteva ammirarlo. Da quando è per le plebi, l’arte è diventata decorativa, consolatoria. L’abuso d’informazione dilata l’ignoranza con l’illusione di azzerarla. Del resto anche il facile accesso alla carne ha degradato il sesso» (l’Espresso). «Chiudete tutta la stampa. Chiudete l’informazione. Se non cesserà l’informazione, sarà davvero il trionfo definitivo della volgarità» (benedotto). Di tutti i giornalisti Carmelo Bene salva solo Ruggiero Orlando, con cui in America e a Forte dei Marmi dice che si scolava dieci bottiglie di whisky al giorno. ALCOOL «Poteva scolare un litro e mezzo di whisky al giorno e un fiasco di vino, ma nonostante tutto non l’ho mai visto sbronzo, al massimo un po’ alterato» (Giuliana Rossi). Fo, andato a trovare Carmelo Bene in camerino a Parigi nell’intervallo del Macbeth, vide uno stuolo di bottiglie di birra vuote, sistemate in file di tre. Bene: «Questa è la mia reazione quotidiana». Fo: «Aveva recitato tutto il primo tempo con una veemenza incredibile, e nella seconda parte saltò come un capretto, digrignò, andò di falsetto, sbrodolò parole a grande velocità, il tutto mantenendo un tempo e una coordinazione straordinari» (Franca Rame). Quella volta che a Mosca, Carmelo Bene rifiutò lo champagne del presidente sovietico e poi cominciò a gridare «Viva Hitler, viva Stalin» (Claudia Provvedini). CRITICI «I critici fanno un mestiere ignobile che li costringe a parlare di cose che nessuno va più a vedere, che li condanna tutte le sere ad andare in sale vuote per controllare come marescialli l’esatta lettura di un copione» (Dagospia). «Ho provato a dividere i critici cinematografici in tre categorie, per comodità di classificazione. I gazzettieri, i travesti, i supermaschi. I gazzettieri sono il coro, quelli che parlano per parlare, il rumore di fondo. I travesti sono i peggiori, quelli che concepiscono la critica come mediazione. Nani che cercano di possedere gigantesse, gente che ha della capra e del cavolo, cantautori del mai visto, spastici, convitati di pietra, sfruttatori del buio pomeridiano, alpini da pianura. E poi ci sono i supermaschi. La critica che reinventa l’opera a livello pretestuale. Tutti con un film nel cassetto, e non ci sarebbe nulla di male. Purché lo facessero, il film». «I più bei film che abbia visto li ho letti». DIO «Quali sono i tuoi rapporti con Dio?». CB: «Dio è nelle nostre mani, in poche parole. Ancora non si riesce a rovesciare questo fatto. Non è Dio che crea noi, ma è sempre l’uomo che ha creato Dio. Con tutto ciò, questo è al di fuori della mia vita monastica, da monaco che detesta ogni laidume… o laicume – laico viene da laido, ci ricorda giustamente il Tommaseo» (conversazione rubata da Goffredo Fofi, 1998). «La volontà è sempre cattiva, non può mai essere buona perché la razza umana pare non sappia permetterselo, perché la storia non ha esperienza» (conversazione rubata da Goffredo Fofi, 1998). COSTANZO «Scampato nell’estate del ’90 per miracolo a un intervento di otto ore e mezzo a cuore aperto. Ai chirurghi che gli domandavano cosa desiderasse prima dell’anestesia, lui rispondeva: non svegliarmi mai più». TOrno a casa e si lasciò andare a qualcunque eccesso, fisico, alcolico e olfattivo. Dipinse tele che non faceva vedere a nessuno ("Ho smesso perché ho capito di non poter diventare più grande di Bacaon"), smanacciava mostri che solo lui vedeva. Ricoverato alla “Mater Dei“ per allucinazioni, labirintite e stato confusionale, venne curato con la terapia del sonno e dosi farmacologiche da elefante. Sparì, Ninete più spettacoli, niente televisione, niente giornali. Solo meditazioni e allucinazioni. Riappare quattro anni dopo in un Costanzo Show su chui hanno scritto decine di tesi di laurea, in cui parla da zobie agli zombie» (Giancarlo Dotto) «L’evento televisivo dell’anno» (Michele Santoro). «Qualunque autobiografia è immaginaria e di conseguenza a me non rimane che sconfessare e sconfessarmi continuamente [...] Bisogna impugnare soltanto la contraddizione, vivere solo la crisi. Bisogna sputarsi in faccia continuamente, tutte le sere fino la sera e dalla sera alla mattina, anche nel sonno, contraddirsi continuamente, sfuggire, non essere mai se stessi, non fermarsi mai, così soltanto si è nell’immediato, è questa soltanto la volontà di potenza possibile» (cs95). SENSO Luigi Lunari: «Io appertengo alla parrocchia in cui le frasi hanno un senso comune». CB: «Ah, senta, per favore non mi offenda... Il senso comune, ma scusi, il senso comune buono? Il buon senso comune?». LL: «Comprensibile agli altri». CB: «Comprensibile... io sono per il grande teatro, cioè grande teatro è quanto non è comprensibile. La vita si comprende? No. Allora occupiamoci della vita, basta con il sociale stasera» (cs94). Guido Almansi: «Lei è diventato molto, molto noioso, cosa che non era vent’anni fa [...] Lei non parlava di “Kafka pornografo”, “voglia delle voglie”, di “privato del privato”, di “superare me stesso”, “sono io mia moglie”, “tutti aldilà”, “parlare di dio con dio”. No, no, queste cose sono venute dopo, quando lei [...] ha cominciato a scrivere che lei appariva alla Madonna. Mi chiedo se lei ha imparato da cattivi maestri. I cattivi maestri sono i suoi allievi, in realtà. Gli erofanti e i sacerdoti del culto beniano, i quali arrivano a scirvere frasi come “Lo spaccio negato della negazione della negazione” [...] e altre fesserie del genere». CB: «Ma certo. Bisogna che vi rassegnate a mentirvi, perché voi, noi non siamo. Siamo quello che ci manca, non siamo in quello che siamo. Voi mentite di interessarvi alla Bosnia, voi mentite, mentite come Clinton, mentite come gli altri, mentite come Stalin, va bene?, mentite come Hitler, mentite come Fini, mentite come Amato, mentite come Almansi, solamente che più si scende... insomma, voi siete dei democratici proprio. E volete anche lavorare: degli schiavi. Invece di pensare a dispensare gli schiavi dal lavoro, ecco l’unico appunto che io faccio alle vostre sinistre: perché vogliono schiavizzare la gente, perché bisogna far lavorare in miniera a cinquecento metri di profondità, va bene?, senza aria (a trent’anni si muore di cancro ai polmoni), della povera gente per settecentomila lire al mese? Perché hanno famiglia. Ma non sarebbe meglio distruggere la famiglia e che questa povera gente prendesse un po’ d’aria?» [contestazioni e rumoreggiare del pubblico] «Mi fa piacere, mi fa piacere sentire la famiglia, la famiglia ce l’ha in quel posto. Non sono nato per piacervi. [...] Noi siamo nel linguaggio, il linguaggio crea dei guasti ed è fatto... anzi è fatto solo di buchi neri, è fatto solo di guasti... “Codesto solo – dice l’Eusebio nazionale e cioè Eugenio Montale, però traducendo pari pari da Nietzsche – codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. E questo si può dire: chi dice “Io dico d’esserci, io dico questo” è coglione due volte. Prima perché si ritiene “io”. Secondo perché è convinto di dire. Ed è coglione una terza volta perché è convinto di dire quel che pensa, perché crede che quel che pensa non siano significanti, ma sian significati e che dipendono da lui. Ma Lacan ha insegnato “Il significato è un sasso in bocca al significante”...» (cs94). «Ma il calcio cos’è? Quelle partite in America a cinquanta gradi all’ombra? [in quei giorni, estate 1994, si stanno svolgendo i Mondiali di calcio in Usa, ndr] Da bambino guardavo un po’... ché il gioco è una cosa importante, ma loro non giocano... scherzano... lo scherzo è adulto, non è più il gioco, non è bambino. Quindi non c’è nessun aspetto ludico, non c’è più l’equivoco del mito, non si vede un assist di Maradona, che è più interessante certamente, di qualunque attimo di teatrante internazionale. O di Van Basten o del Pelé di una volta, che ne so... o di una volé di Edberg, che, essendo il tennis, non può giocare al tennis e gioca addormentato, e infatti si addormenta come i cavalli, Stefan Edberg... Nel calcio italiano, invece, queste cose non si vedono... e mi hanno sempre dato l’impressione di giocare in mutande, non con degli short, ma in mutande, quelle aperte, sai, che si usavano fino a vent’anni fa. Quindi, li trovo nemmeno osceni, perché sarebbe un far torto al porno. Proprio nell’etimo ou schenè, fuori scena: il porno come eccesso del desiderio. Ecco, sarebbe davvero insolentire, oltaggiare il porno, definendo il non gioco italiano o italiota osceno. Detesto anche la nazionale azzurra, però lo dico! Non me ne fotte nulla del Ruanda, però lo dico! Voi no, non ve ne fotte, ma non lo dite... Non sono eroico... Me ne infischio di me stesso, del governo, della politica, del teatro soprattutto...» (cs94). «Crepi la democrazia, crepi la Repubblica, crepi il presidente della Repubblica! [...] Liberatevi della libertà, soprattutto, niente è così vincolante quanto la libertà... sputate sulla libertà e sui tribuni della libertà soprattuttto...» (cs95). «Lei è capace di friggere l’aria?. Io sì» A Carmelo Bene è capitato di chiedere ad alcuni amici medici di praticargli anestesie totali, anche senza avere alcun male: «Volevo solo smettere di pensare, desideravo non esserci» (Antonio Gnoli). SPORT «Ha presieduto addirittura la giuria del Processo del lunedì, teorizzando, con la palpebra in apnea, la narice-radar, più una manciata di tic e tabù sottocutanei, quella celebre filosofia che dipinge il lato animalesco del tifoso: "E come vuole che li veda? Il tifoso è una bestia, ed è proprio inutile tentare di accomodare la cosa con eufemismi garbati: bisogna semplicemente prenderne atto. Perché l’ultimo stadio del tifoso è il delinquente...“» (Roberto D’Agostino). «Come un flash: talmente veloce che è fermo» (Romario secondo Carmelo Bene). Marco Van Basten, secondo Carmelo Bene limitato per la mancanza del «concettazzo del tiro sporco»: «I suoi gol sono capolavori, oppure non sono. Colpiva di collo pieno, e a volte sbagliava per questo dei gol che magari un giocatore di C2 avrebbe fatto. Pur di colpire istintivamente come si deve colpire poteva anche sbagliare dei gol». «Adorava il calcio. Nella sua casa di Otranto, dove le persiane erano costantemente e rigorosamente abbassate, passava delle ore a girare sui canali satellitari a gustarsi il calcio dell’una o dell’altra nazione. Gianni Melidoni mi raccontava che gli telefonava al Messaggero è gli attaccava bottoni infiniti sulla disposizione in campo delle squadre» (Giampiero Mughini). REAZIONARIO «Visse come la più profonda ingiustizia “la rassomiglianza della razza umana”, visse la cosiddetta democrazia (“inumana e disumana”) come il risultato di un incubo, “una clonazione impostata sul pessimo”. Disse appunto: “Se anch’io sono così, mi faccio schifo”. Il caso C è tutto qui dunque: “Ci vorrebbe un bel lager, sì. Non parlo mai per metafore io”. Il caso C è potente: “Meglio il Medioevo del Rinascimento. Non c’è dubbio”» (Buttafuoco). «[Il reazionario] non è volgare come il rivoluzionario, non intende sostituirsi a nessuno, soprattutto al potere. Non vuole essere autore, autorità, padronato; e neanche servo, perché "ogni forma di coscienza è servile". È tentato, semmai, dall’inorganico. Vuole essere il niente che è» (opere). «Non si parla al potere, non si deve mai parlare con il potere, il potere non merita l’attenzione, tantomeno l’attenzione giovanile». «Nessuno che, per mancanza di fegato, ha mai voluto fare i conti con le sassaiole più perturbanti del suo pensiero, una su tutte la più volte dichiarata ostilità verso il concetto di democrazia che lui, alla Hobbes, considerava sinonimo di demagogia. Anatemi pubblici ogni volta smagnetizzati nella rassicurante lettura della “provocazione”. E sì che sarebbe bastato, basterebbe, risalire i nomi maestri della sua formazione intellettuale. Giovanissimo legge Max Stirner, il teorico dell’Unico, la confutazione radicale della dialettica hegeliana. A seguire De Maistre, i mistici come Caterina da Siena e Juan de la Cruz, il Nietzsche del “Io sono tutti i nomi della storia”, il Leviathan di Hobbes, lo stesso Schopenhauer, immancabile sul suo comodino. E, su tutti, i nomi monumentali di Sade e von Masoch. Il secondo sopratutto, una sorta di gemello elettivo, ha contagiato più di chiunque altro la sua impresa degli ultimi, almeno, trent’anni. La scena (e la vita) come mortificazione parodistica dell’Io, fono alla sottrazione estrema dell’ultimo spettacolo-funerale» (Giancarlo Dotto). LAVORO «Il fondamento costituzionale della nostra repubblica è il lavoro, comunque preferibile allo squallore del posto di lavoro e del dopolavoro. Da per sempre scartato il ompicapo – aveva ragione Moravia – d’un giovanilismo inteso come disperazione della non disperazione, risulta altresì utopica ogni vocazione a prostituirsi, se non come professionalità svissuta» (opere). «Che tristo spettacolo, questi giovani istigati da Libertinotti che già a vent’anni invocano i lavori forzati. Sogno corte di ragazzi che gridano: “Basta con il lavoro!”. La verità è che se non nasci miliardario sei spacciato per sempre. Se nascere è funesto, nascere poveri è infame» (benedotto). «Bisogna arrangiar quattrini perché un buon reazionario possa difendersi» (opere). «Si è in balia del mondano e... c’è bisogno di soldi. Non si può che trovarsi in malafede. Se avessi dovuto fare il mercante di schiavi, non avrei scritto Une saison en enfer; avrei scritto direttamente Bagatelle per un massacro» (opere). «2 ottobre ’95, municipio di Campi Salentina. Il sindaco consegna le chiavi della città a Carmelo Bene, gilet nero Versace e bottoni smerigliati. Decine di disoccupati ululano giù in strada e lanciano pomodori putridi. Il Maestro si defila da una porta secondaria. Un disoccupato gli strepita addosso: “Stronzo, dammi lavoro!”. Carmelo lo centro in un occhio con uno sputo che è una bellezza balistica» (Giancarlo Dotto). «Un giorno, in camerino, Luisa Viglietti prende tra le braccia un pargoletto. Temeraria e candida, lo sottopone allo sguardo sardonico del Nostro. Il quale sentenzia: “Stai vezzeggiando un raginiere”» (Sonia Bergamasco) CARABINIERI «Lo spettacolo Cristo 63, in scena al Teatro Laboratorio di Roma, viene sospeso per oscenità. Carmelo Bene e il pittore Andrea Greco si sono presentati completamente nudi, usando gesti e linguaggio decisamente forti. Di qui l’intervento dei carabinieri su richiesta di tre spettatori che si sono sentiti offesi dalla nudità e dalle parole di Bene» (L’Europeo). «Del Faust scrisse un recensore: «Questo spettacolo non è di competenza di noi critici, ma dei carabinieri». «Aveva una strano rapporto con la polizia. Per esempio, agli esordi, c’erano sempre molti agenti nei teatri dove recitava, stavano all’erta, mentre quando divenne famoso, se non li vedeva in sala, li invocaca» (Giuliana Rossi). UMILE «Era umile, sembra strano dire questo, ma era uno umile. Era un’umiltà straizata e vera, storica, come la si potrebbe pensare oggi di un santo antico, un’umiltà armata, sì, un’umiltà armata di spada, armata di dolore» (Jean-Paul Manganaro). CASA «Quel gusto di vivere appartato fra l’edera, gli angeli di gesso del Bernini, i broccati, gli argetni, i cristalli delle sue lunghe notti. Accogliendo gli ospiti, ogniqualvolta apriva loro la porta, come principi. Mai un bicchiere vuoto, occhi brillanti negli specchi, sigarette, lampi di luce nelle parole, e tanto riso senza comicità» (Gioia Costa). «Migliaia di libri e una quantità davvero smodata di carte, quadri di Klossowski in ogni stanza, bagni neri, tavoli di marmo, cornici dorate, raso azzurro, rosa, rosso, oro alle pareti, un soffitto incorniciato, pareti completamente nere, tappeti su tappeti, tendaggi, una stanza piena di nastri con la sua voce, lampade déco, cassettiere in madreperla, la strumentazione fonica, gli angeli del Bernini appoggiati fuori, un corridoio vetrata che attraversa il giardino collegando le due ali della casa con tutte colonnine che ne decorano il cammino. Ecco, via Aventino è il palazzo moresco» (Luca Buoncristiano) MALATTIA «Carmelo Bene, che soprattutto fu un malato, ebbe Adolf Hitler tra gli incipit della sua fatica ermeneutica. Disse: “Negli scritti di Hitler c’è una constatazione interessante. Suona così: ‘Per valutare il disfacimento d’un corpo è indispensabile rapportarne la gravità all’altezza da cui è precipitato”» (Buttafuoco). «La fisiologia è esclusa dal romanzo, dal teatro, dal cinema. Non si dà mai una sequenza che si interrompa perché “Lei” d’improvviso ha da evacuare... [...] Non c’è un’esecuzione musicale dove un qualcuno in scena o nell’orchestra, colto da stimolo più che naturale, incontenibile, interrompa il tutto. Invocazione allo stacco...: “e allora lui che aveva alzato il coltello per ucciderla, disarmato da una diarrea immediata, fugge”» (opere). «L’indecenza della vita mia ha frequentato assidua fin dalla prima infanzia. Malattie di ogni sorta e degenze, convalescenze continue; ambulatori diagnostici: coronografie, biopsie, gastroendoscopie, scintigrafie, risonanze magnetiche; astenterie d’ospedali e sale operatorie, broncopolmoniti, paradontologie, odontoprotesi, epatopatie, infarti, accidentacci vertebrali, discopatie, disfunzioni gastrointerinali, anestesie complesse, interventi chirurguci logoranti, disfunzioni oculari, emicranie intollerabili, irriducibili insonnie, complicazioni delle vie urinarie. Non c’è brano di carne che Esculapio abbia tralasciato» (opere). «Io sottoscritto Carmelo Bene ricoverato presso l’European Hospital, dopo esauriente colloquio informativo con i sanitari sui benefici / rischi ed eventuali complicazioni, in piena capacità d’intendere e di volere, acconsento a essere sottoposto a intervento chirurgico con la relativa anestesia, autorizzando i sanitari a eseguire quanto programmato o quant’altro essi ritenessero necessario o utile al buon fine dell’intervento», Roma 18 dicembre 2001. «La stanza era la 416, il tumore maligno, il paziente molto irritabile e però solvibile. Altre note dall’accettazione: “Soggetto cardiopatico, la transaminasi alta, stato civile separato, professione pensionato“. Scritto proprio così: «Pensionato». Lettura preferita Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer, aggiungo io. Di verosimili, sebbene non accertate, discendenze turche. [...] Cristiano Huscher è il medico che esegue l’intervento. Nome di grande e morbosa suggestione per Carmelo, che lo associava alle rovine della sua casa prediletta di Edgar Allan Poe. Sosia di Bela Lugosi, molto noto nell’ambiente per la sua chirurgia estrema. La cartella clinica parla di resezione del peritoneo, di parte del colon, dell’intestino e del diaframma. Poche ore dopo, lo ricordo bene, vispo come un pesce, seduto sul letto, che deliziava gli amici accorsi al capezzale. Torna a casa tra Natale e Capodanno. Le ferite che sembravano cicatrizzate si riaprono una a una. Tanto dolore, tanta morfina. Un incubo. Carmelo non si nutre più. Tre mesi dopo, 21,10 del 16 marzo 2002, al terzo giorno di coma, Carmelo Bene moriva, vegliato dal miagolio dei gatti e dal brusio delle donne che lo amavano, Luisa tra tutte, la “femminile disattenzione“ che da sempre invocava a scortare i suoi morenti eroi di scena, da Pinocchio a Otello. No, non era la vista il dono più bello. Aveva fatto oscurare con le pagine rosa del tuo giornale sportivo lo specchio della camera e il suo prediletto Sony 37 pollici, lasciando solo una luce fioca da tela fiamminga sul quadro di Amore e Psiche. Aveva urlato notti intere, spellato dall’orrore ancora prima che dal dolore. Avevi invocato la morfina, il cianuro, impartite lezioni in francese su Céline a Massimo, l’infermiere che ti assisteva la notte e non sapeva una parola di francese, ma non sapeva neppure chi fosse Céline, consultato febbrilmente il manuale del perfetto suicida che l’amico francese ti aveva spedito da Parigi, maledetto i medici che si ostinavano a tenerti in vita, dopo averti reciso un pezzo di diaframma e la tua voce che non era più la tua voce. “Non ha più le armoniche“, si disperava a chi provava a consolarlo, ai suoi angeli di gesso in giardino, lui avvolto nella vestaglia da camera, con lo spacco vezzoso che ne esaltava le pose da Eliogabalo, prima di somigliare impeccabile ai comatosi che aveva tante volte spiato nelle foto di guerra di David Harali, nelle liriche di Gozzano, nei Cristi di Mantegna, negli incubi di Poe e nei manuali di Krafft-Ebing. L’avevi detto per tempo. Inciso su nastro. “Sono inconsolabile. Me lo sono guadagnato. Ho meritato quest’uscita dalla felicità infelice. Sono fuori. Questo muovere incontro alla morte. Forse per vivere non ci vuole una dignità, ma per morire sì. Bisogna essere degni“» (Giancarlo Dotto). FINALE «La grande passione by-night di Carmelo erano i programmi delle Tv locali, quelle più scadenti e borgatari però. Conosceva a memoria gli imbonitori di Rete A, i banditori d’asta di Canale 66, i chiromanti di GBR, le maghe di Telestudio, i tappetari di Teletevere, i pranoterapeuti di Rete Oro, i podologhi di Telemeno» (Roberto D’Agostino)- «Dell’incapacità di accettare le regole del mondo fece una bandiera. Fece credere di non sapere che sulla spiaggia di Forte dei Marmi, dove aveva una casa, i bagni alla moda avevano sostituito i pini e i gligli selvatici, rivendicò l’artisticità dell’atto di pisciare all’alba dal balcone di un albergo di provincia sull’impermeabile inglese di un’elegante ciclista. Rifiutò, come ogni grand’uomo, di portare denaro, si rabbuiò cinesamente ogni qualvolta una donna riuscì a sottrargli un po’ di creatività con il liquido seminale. Non nascose, o forse inventò, di essere minato a quarant’anni dalla cirrosi epatica e dall’enfisema polmonare. Si servì dei polmoni malati per dare fiato alla voce più modulata che si sia mai sentita. Si compiacque quando fu osservato che i suoi spettacoli erano sempre più concerti per una sola voce» (Il Foglio). «A nulla ci serve recitare la storiella del genio mai nato e dunque mai morto. Che mille gradi Celsius sono bastati a ridurlo in cenere. Ma non a riscaldarlo. Aveva sempre freddo, Carmelo. E odiava l’idea di diventare un mucchio di gelatina in fondo a una bara. "Delle mie ceneri fate quello che volete", ripeteva, "magari una crostata per colazione". Abbiamo smesso da tempo di chiederci da dove sia mai piovuto questo essere così speciale che ora qualunque sternuto può disperdere nella volgare polluzione del pianeta. Non è solo l’amico che manca, ma quella voce, chissà dove è andata, quella voce che ci dava calma e forza, quella voce che era la nostalgia di tutto ciò che abbiamo perduto senza avere mai avuto. Che solo a sentirla ci spediva in paradiso. Lui, quella creatura speciale, lui non c’è più. Peggio per noi» (Giancarlo Dotto). «Il novantanove per cento di me è contento di morire, ma c’è un uno per cento a cui invece rode. E io, quell’uno, proprio non lo capisco».