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 2013  febbraio 20 Mercoledì calendario

LA DOPPIA VITA DELL’UOMO CHE UCCISE IL FRATELLO E ALLEVÒ IL SUO BAMBINO


Il passato che non passa torna prepotentemente a galla nel primo pomeriggio di ieri nell’aula della prima sezione della Corte d’assise d’appello di Palermo: Natale Romano Monachelli, 51 anni, titolare di un ristorante a Stoccolma, viene condannato a 24 anni, dopo l’assoluzione in primo grado. Il crimine che gli viene contestato: l’uomo, palermitano, avrebbe ucciso il fratello, Filippo, detto Sandro, e la moglie, Elena Lucchese. Sandro era tossicodipendente e picchiava la madre, Natale adorava la donna e riteneva che la cognata istigasse il marito: per questo li avrebbe uccisi entrambi a colpi di pistola, il 20 novembre 1994, prima lui e dopo lei, in posti diversi. Poi avrebbe bruciato i loro corpi, facendoli ritrovare carbonizzati dentro un furgoncino Fiat Fiorino, sul lungomare di Villagrazia di Carini, a pochi chilometri dal capoluogo siciliano.

Un fitto mistero ha avvolto questo delitto per anni e anni, fino a quando Erika Stjernquist, la moglie svedese di Natale Romano Monachelli (emigrato a Stoccolma poco dopo l’omicidio) non si presentò dai carabinieri, per accusare il suo uomo. Era il 2001 e le dichiarazioni furono ritenute non sufficientemente riscontrate: per questo non furono mai divulgate. Nel 2009 riparlò del fatto, più o meno negli stessi termini, un pentito di mafia, Angelo Fontana. Si rimise in moto così la macchina che ieri, dopo un’assoluzione piena di dubbi in primo grado, dovuta alla ritrattazione della Stjernquist, ha portato comunque alla condanna.

La storia è da film giallo alla Stieg Larsson, visto che si parla di Svezia, ma ha anche aspetti laceranti, dal punto di vista umano. Perché la coppia assassinata aveva un bimbo di pochi mesi e il presunto assassino lo portò con sè in Svezia crescendolo come un figlio proprio, come un fratello maggiore del proprio figlio, nato qualche tempo dopo a Stoccolma. Oggi entrambi i ragazzi sono maggiorenni, chiamano il presunto assassino papà e non credono alla sua colpevolezza. Lo aiutano nel ristorante Piazza Italia di Bromma, un sobborgo della capitale svedese, dove, dopo due anni di cella e l’assoluzione del novembre 2011, è tornato lo stesso Natale Romano Monachelli: «Qui ti accolgono per quello che sei e che sarai, non per quello che sei stato», aveva commentato dopo l’assoluzione. Ieri l’uomo, che ha la cittadinanza italiana e svedese non ha risposto al telefono. Lapidaria la madre, Giovanna Vitale, detta Wanda, ritenuta la causa indiretta del duplice delitto: «Non abbiamo commenti da fare».

La sentenza è del collegio presieduto da Giancarlo Trizzino, che ha accolto in gran parte la tesi del pm Giuseppe Fici, titolare dell’accusa in assise e in appello. Lui aveva chiesto l’ergastolo, ma i giudici hanno escluso l’aggravante della premeditazione, sebbene i due delitti siano avvenuti non contemporaneamente. Centrale, nel processo, l’atteggiamento ondivago della superteste svedese, oggi indagata per calunnia: «Avevo accusato Natale per screditarlo – aveva tentato di spiegare – perché temevo che potesse portarmi via mio figlio». Forse, in realtà, Erika temeva ritorsioni, ma in ogni caso la difesa non è riuscita a spiegare come mai le dichiarazioni della donna combaciassero con quelle del pentito Fontana. Che aveva raccontato che, dopo avere ucciso Filippo Romano Monachelli e Elena Lucchese, Natale avrebbe chiesto aiuto a Giovanni Bonanno, boss mafioso di San Lorenzo, poi a sua volta assassinato. Bonanno lo avrebbe aiutato a sbarazzarsi dei due cadaveri, bruciandoli e facendo credere così a un regolamento di conti nell’ambiente della droga. Mentre il fratello assassino volava in Svezia con il figlio delle sue vittime.