Claudio Siniscalchi, il Giornale 20/2/2013, 20 febbraio 2013
ALBERTONE, RE INDISCUSSO (E UN PO’ SPRECATO) DELLA COMMEDIA ITALIANA
A dieci anni di distanza dalla morte di Alberto Sordi, si può esprimere un giudizio sereno sulla sua sterminata attività di attore. Insieme con Totò è stato il più grande comico del cinema italiano. Entrambi fanno la prima apparizione nell’universo della celluloide nel 1937. Totò (nato nel 1898) è già un grande divo del palcoscenico. Alberto Sordi (nato nel 1920) è un ragazzetto, semplice figurante in Il feroce saladino di Mario Bonnard. È l’ultima interpretazione di Angelo Musco.
Mussolini, in visita a Cinecittà nel giorno dell’inaugurazione, si reca sul set di Bonnard. Musco improvvisa per lui una scenetta, molto apprezzata dal Duce. L’attore catanese morirà pochi mesi dopo a Milano, per un attacco cardiaco. Da quella prima apparizione, a causa della frenetica passione per il cinema, «tormento ed illusione» (come recitava una canzonetta dell’epoca),Alberto Sordi mette le ali. Spicca un volo maestoso, che lo porterà ad interpretare film di ogni fattura. Pregevole od orrida. Da rammentare ai posteri o da dimenticare. Sordi diverrà la maschera del boom economico. Il re incontrastato della commedia all’italiana. L’italiano medio. Piccolo piccolo o grande grande. Furbo o scemo. Megalomane o ordinario. Buono o cattivo. Elegante o cialtrone. Irreprensibile padre di famiglia o puttaniere. Il ruolo di comico gli va a pennello e al tempo stesso gli va stretto. Deve essere qualcos’altro. Deve oltrepassare la corporeità.
E Sordi ci riesce. Se c’è un limite, scorrendo le decine e decine di film interpretati da Sordi, è l’abbondanza. Albertone non si risparmia. Si butta a capofitto nella risata confezionata per il grande schermo. I comici, ciò è riscontrabile anche nella carriera di Totò, come le cortigiane devono concedersi. Lo fanno per danaro, certo! Lo fanno anche per amore, certo! Ma lo fanno perché quella è la loro natura. Non possono tirarsi indietro. I grandi comici hanno bisogno di rassicurazioni. Il pubblico deve sbellicarsi dalle risate ammirandoli negli abiti eleganti dell’industriale; in jeans e maglietta bianca delle americanate romane; nei panni curiali del vescovo o in quelli del Marchese del Grillo. I comici dissipano il talento. Non possono (e non vogliono) scegliere. Ed ecco allora che Alberto Sordi lo trovi in un capolavoro di Federico Fellini o in un insignificante filmetto di Antonio Petrucci. In un gioiello della commedia di Steno o di Mario Monicelli o in uno sbiadito lavoretto di Ferruccio Cerio.
E neppure Steno e Monicelli messi assieme rappresentano una garanzia, come dimostra il non eccelso Totò e i re di Roma. Alberto Sordi raggiunge la piena maturità negli anni Sessanta del secolo passato. Dei mattatori di quella stagione dal «sapore di sale» è una spanna sopra tutti: Gassman, Tognazzi, Mastroianni, Manfredi. Basterebbe solo ricordare Una vita difficile (1961) di Dino Risi. Non è un film, ma un trattato antropologico sull’Italia com’era e come sarebbe diventata, nel bene e nel male. Poi, col decennio successivo, Albertone comincia ad appannarsi. Non a caso la sua migliore interpretazione è in Un borghese piccolo piccolo (1977) di Monicelli. Ad Albertone, felice di andare col figliolo un po’ scemo la domenica alla partita, quel figliolo così amato glielo portano via. E da maschera divertente- lavoro tranquillo, utilitaria modesta, divano, ciabatte, pastasciutta, oltre alla fede calcistica - si trasforma in mostro.
È il «cane di paglia» italiano: non dovrebbe, ma prende fuoco, perché fuori dalle rassicuranti mura domestiche il mondo sta ardendo. Del finale di carriera di Sordi c’è poco da dire. Un lento declino, ravvivato solo dal Marchese del Grillo, un’iniezione di gerovital, e il tassinaro televisivo. Poi basta. Ma perché Albertone non ha mollato tutto e, con l’età avanzata, è passato dalla commedia alla tragedia? Facile a dirsi. I comici restano sempre comici. Non puoi chiedere loro di dimenticare perché sono nati, cresciuti, hanno sofferto fame, offese, sputi, improperi, pernacchie, ortaggi in faccia e incomprensioni di scribacchini e parolai. Hanno vissuto per far ridere. E così devono morire. Possibilmente in scena. Lì ogni comico vorrebbe chiudere gli occhi per sempre, accompagnato da un fragoroso applauso, senza che nessuno si accorga di nulla. Quindi che dire di Alberto Sordi a dieci anni dalla sua morte? Meno male che è nato. Meno male che ha fatto il comico. Meno male che ha lavorato tanto. Meno male che lo abbiamo conosciuto.