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 2013  febbraio 21 Giovedì calendario

NORMAN MAILER – L’ARTE DELLA NARRAZIONE

Ho incontrato Norman Mailer ad aprile, in due diverse occasioni, a casa sua a Cape Cod. Il sole è rimasto abbastanza a lungo perché potessi vedere i travestiti di Provincetown mentre passeggiavano lungo Commercial Street in un carrozzone di ricci finti, ma poi è arrivato un temporale e ci siamo messi al riparo nel soggiorno al piano di sotto della sua casa sull’oceano. Ci siamo seduti su due sedie vicino a un’ampia finestra, e mentre parlavamo una strana luce proveniente da nord si è infiltrata tra la pioggia attraverso il vetro creando una gradevole aureola intorno alla testa dell’ottantaquattrenne. La moglie di Mailer, Norris Church, di ventisei anni, si trovava a New York per il fine settimana, ma la sua presenza aleggiava nei suoi dipinti che ci stavano intorno.
L’ultima intervista rilasciata da Mailer a questa rivista risale al 1964, l’anno in cui pubblicò il suo settimo libro. Quest’anno ha pubblicato il quarantaduesimo, Il castello nella foresta, e lo ha dedicato ai suoi dieci nipoti, ai vari figliocci e a una pronipote. Mailer è più magro di un tempo, e cammina con l’ausilio di due bastoni. È un vecchio principe del doppio, e non sorprende scoprire che usa anche due apparecchi acustici, che gli hanno permesso di sentire al primo colpo quasi tutte le mie domande. Avevamo cenato insieme la sera prima dell’intervista al Michael Shay’s, un ristorante della zona la cui specialità sono le ostriche. Mailer conosce per nome i camerieri e ancora meglio tutto il menù. Solitamente si porta a casa le conchiglie delle ostriche perché gli piace ripulirle, guardarle, e a volte disegnarci sopra. "Guardi questa", dice, sollevandone una. "La conchiglia dell’ostrica spesso ricorda il volto di un dio greco."
Mailer stesso ricorda a tratti Zeus, anche se in alcuni momenti fa pensare alla concretezza terrena di Studs Lonigan. Mentre mi diceva quanto spesso deve fare la pipì un uomo della sua età, i suoi occhi azzurri brillavano. "Alla commemorazione funebre di George Plimpton", ha detto, "alla Saint John The Divine, all’improvviso mi scappava e sapevo che non ce l’avrai fatta a percorrere la navata. Così sono andato in un corridoio laterale dove c’era Philip Roth. A volte mi capita di doverla fare in una cabina telefonica, Phil, gli ho detto. Alla mia età non riesci proprio a trattenerla. Lo so, ha risposto Roth – è lo stesso anche per me. Beh, sei sempre stato uno precoce, gli ho fatto."
Ogni tanto, durante l’intervista. Mailer si è fermato per bere qualcosa. Oggi non è più un grande bevitore, e quando beve si prepara dei curiosi miscugli. A un certo punto gli ho preparato un bicchiere di vino con succo d’arancia; poi rum e pompelmo. La sua intelligenza non vacilla mai, e ho capito presto che Mailer sarebbe la persona giusta con cui trovarsi nell’esercito. È incline alla conversazione e attento agli appetiti dell’avversario. Ad esempio, dopo diverse ore di introspezione reciproca come due carcerati in un romanzo russo, Mailer ha proposto di sdraiarci, e dopo poco ci siamo addormentati sui nostri rispettivi letti con il vento fuori che ululava sulle vecchie rotte di navigazione di Melville.
In alcuni momenti, a mano a mano che l’intervista procedeva, sembrava che le travi della casa si piegassero seguendo il ritmo dei pensieri di Mailer. Muove le mani come un regista o un allenatore di pugilato, dando continua forma all’idea del movimento. Ma durante la tempesta era come il Capitano Achab, esausto sulla penisola che fa un cenno al Nord Atlantico, ancora in lotta con il grosso pesce. Era bello osservarlo mentre volteggiava con l’inconoscibile. Dopo quella prima cena al Michael Shay’s, l’ho aiutato a entrare in macchina dicendogli che avrei raggiunto la città a piedi. Era una serata tipica del New England, e la lunga strada dritta che porta alla zona commerciale era scura e silenziosa. La casa di Mailer si trova molto vicina, sono arrivato prima io e mi sono fermato dall’altra parte della strada. Dopo poco è arrivato con la sua macchina e con molta cautela è salito sul marciapiede, le stampelle a sorreggerlo. Sono rimasto fermo a osservarlo per un minuto fino a quando non è sparito oltre il cancello. Allontanandomi ho notato una targa su una casa un po’ più giù, c’era scritto che John Dos Passos aveva abitato lì ottant’anni prima, proprio quando Norman Kingsley Mailer stava appena imparando a leggere. È stato bello vedere queste abitazioni così da vicino, mentre le luci brillavano intense nell’oscurità.

Andrew O’Hagan, 2007

Dwight MacDonald una volta ha definito Provincetown la "Eighth Street vicino al mare". Da quanto tempo viene qui?
La prima volta avevo circa diciannove anni. Avevo una relazione con una ragazza che poi sposai, Beatrice Silverman, la mia prima moglie. Avevamo deciso di trascorrere il fine settimana da qualche parte e lei aveva sentito parlare di questa bellissima città sulla punta di Cape Cod. Doveva essere il 1942 o ’43 e mi innamorai perdutamente di questo luogo. Era un momento di terrore per paura che i nazisti potessero atterrare all’improvviso sulla spiaggia — ci sono più di sessantaquattro chilometri di costa aperta qui. Quindi non c’erano luci in città. Camminare per strada la sera era come ripiombare nel passato dell’America coloniale. Per tutta la guerra non ho fatto altro che scrivere a mia moglie che la prima cosa che avremmo fatto una volta tornato — se e quando fossi tornato sarebbe stata andare a Provincetown.
Ed è più o meno in questo periodo che cominciò a scrivere Il nudo e il morto?
Lasciai l’esercito nel maggio del ’46 e venimmo qui a giugno. Cominciai il libro a giugno, forse all’inizio di luglio. Iniziai a scrivere in una capanna in affitto sulla spiaggia, a Truro. Di solito mi servono un paio di settimane di riscaldamento su un libro.
Aveva preso appunti?
Prendo sempre molti appunti prima di cominciare. Tendo a leggere molto su questioni collaterali e poi penso e rimugino. Oggi mi ci vogliono sei mesi per entrare in un romanzo. Mi pare di averci messo poche settimane per Il nudo e il morto, perché ero giovane e molto preso dal libro e dalla guerra. Non fu necessario fare particolari ricerche — avevo tutto in mente. Scrissi quasi duecento pagine nell’estate che passai qui.
E sapeva di aver fatto un buon lavoro?
A seconda dell’umore pensavo di aver scritto pagine meravigliose, e poi. Oh, non sai proprio scrivere. Non ero un maestro di stile a quei tempi — me ne intendevo abbastanza di scrittura da saperlo. Ieri sera a cena io e lei abbiamo parlato di Theodore Dreiser. Abbiamo più o meno concordato sul fatto che lo stile non fosse il suo forte e che tuttavia avesse qualcosa di più importante dello stile, non è vero? Dreiser era uno di quelli che leggevo in quei giorni, e chiamavo a raccolta le mie truppe letterarie ogni qualvolta il morale desse segni di cedimento pensando fra me, Beh, Dreiser non ha poi un grande stile.
Esiste anche chi ha troppo stile. L’unico a cui lo si perdona credo sia Proust. Aveva sintetizzato la perfetta unione di materiale e stile. Solitamente quando si ha un grande stile il materiale risulta più forzato. Vale per Henry James come per Hemingway. La tendenza opposta è rappresentata da Zola, il cui stile è discreto, non particolarmente degno di nota, ma il cui materiale è formidabile.
Nelle mie opere credo di aver toccato i poli opposti dello stile. In Un sogno americano è al suo massimo mentre nel Canto del boia è praticamente inesistente, visto il materiale prodigioso che aveva. Un sogno americano era tutto frutto della mia immaginazione. Ero io a cucinare il piatto.
Si potrebbe obiettare, nel suo caso, che un argomento importante abbia la tendenza a svelare un elemento segreto del suo stile, qualcosa che prima non era così evidente.
Sorrido perché lei gli attribuisce un’incisività molto piacevole. Le mie ragioni ai tempi del Canto del boia non erano poi così onorevoli. Avevo ricevuto molte critiche per il mio stile barocco, e cominciavo a risentirne. In pratica la questione divenne — voi imbecilli là fuori, pensate che lo stile barocco sia cosa facile? Non è facile. È una cosa difficile da ottenere. Ci vogliono anni di lavoro. Non fate che parlare delle virtù della semplicità – ora vi faccio vedere io. Non c’è nulla di più facile della semplicità, e con questo libro lo dimostrerò, perché credo di avere il materiale perfetto per provare che sono in grado di scrivere un libro semplice. E cosi mi sono messo a lavorare. Ciò che mi rende più orgoglioso di quel libro è la lettera di Gary Gilmore a circa due terzi dall’inizio. Il migliore esempio di scrittura di tutto il romanzo. L’ho citata fedelmente. Niente di ciò che avevo scritto fino a quel momento poteva superare quella lettera, perché è la lettera che gli dà vita, e all’improvviso ci si rende conto che quest’uomo era un uomo di sostanza, nonostante tutto. Sarà stato anche un punk, come lo definivano, avrà anche ucciso due persone in maniera atroce, ma, per dio, aveva una mente e uno stile letterario personale, tutto contenuto in quella lettera.
Uno dei miei principi fondamentali da molto tempo dice che là fuori esiste una montagna chiamata realtà. E noi romanzieri tentiamo sempre di scalarla. Siamo degli scalatori, e la domanda è, qual è il lato da affrontare? I diversi lati richiedono diversi approcci, alcuni uno stile inferiore ingarbugliato e attorcigliato. Altri una grande semplicità. Il fatto è che lo stile approccia la natura della realtà.
Quindi scrissi il libro su Gilmore usando la semplicità. Forse mi ha portato a pensare di poter fare un tentativo alla Hemingway, ma il centro della questione è che quando si tratta di scrivere in maniera semplice, non sono al livello di Hemingway. La mia grande ammirazione nei confronti di Hemingway non è necessariamente nei confronti dell’uomo, del suo carattere. Io credo che se ci fossimo incontrati sarebbe stato un piccolo disastro per me. Ma ci ha mostrato, come nessun altro, che forza potrebbe avere la frase inglese.
Soffermiamoci per un attimo su Hemingway. Si potrebbe dire che abbia mostrato a una generazione come dare emozione a una frase senza parlare di emozione?
Sì, più di chiunque altro prima di lui e dopo. Ma Hemingway può rappresentare anche una trappola. Se non stai attento rischi di finire per scrivere come lui. È molto pericoloso scrivere come lui, ma d’altro canto è quasi un rito di passaggio. Direi che potrei arrivare a non fidarmi di un giovane romanziere – e mi limito a parlare dei romanzieri di sesso maschile, senza riferimenti alle donne – che nella sua giovinezza non abbia tentato di imitare Hemingway.
Si ricorda dov’era quando venne a sapere che Hemingway si era sparato?
Me lo ricordo molto bene. Mi trovavo in Messico con Jeanne Campbell, prima che ci sposassimo. Ne rimasi completamente scioccato. Una parte di me non l’ha ancora superato. In un certo senso, mi è servito da avvertimento. Stava dicendo, Ascoltatemi, voi scrittori là fuori. Diciamoci la verità: quando decidi di fare lo scrittore stai per intraprendere un viaggio estremamente pericoloso dal punto di vista psicologico, e ti si potrebbe ritorcere contro.
Ha pregiudicato l’idea che si era fatta del suo coraggio?
Non sopportavo che la sua morte potesse comprometterla. Arrivai ad elaborare una tesi: Hemingway aveva imparato presto nella vita che se sfidava la morte sempre più da vicino, soltanto allora si sarebbe sentito meglio. La vedeva come la medicina perfetta, osare avvicinarsi alla morte. E cosi mi immaginavo che ogni sera, quando si trovava da solo, dopo avere dato la buonanotte a Mary, Hemingway se ne andasse in camera sua, appoggiasse il pollice sul grilletto del fucile, si infilasse la canna in bocca e premesse leggermente il grilletto, e poi – rabbrividendo, tremando – cercasse di capire quanto si sarebbe spinto in là senza arrivare fino in fondo. L’ultima sera andò troppo in là. Aveva più senso questo, e non che di punto in bianco avesse deciso di mandare tutto per aria. Ad ogni modo, è solo una teoria. La verità è che Hemingway si è suicidato.
Si potrebbe dire che la scrittura sia, per certi versi, una specie di annientamento?
Ti consuma profondamente. Quando finisci un libro non sei più tutto intero, ed è per questo che gli scrittori a volte si infuriano tanto per le critiche feroci che ritengono ingiuste. È come se ci fossimo tolti la vita una volta scrivendo il libro, e adesso tentassero di ucciderci di nuovo per troppo poco. Gary Gilmore una volta disse, "Padre, non c’è nulla di giusto". E l’ho ripetuto all’infinito. Tuttavia se stai scrivendo un buon romanzo stai facendo l’esploratore — stai prendendo una strada di cui non conosci la fine, dove la fine non è data. C’è un miscuglio di paura ed eccitazione che ti fa andare avanti. A mio parere, non vale la pena scrivere un romanzo a meno che non si affronti qualcosa per cui esistono possibilità di successo. Potresti fallire. Stai giocando con le tue riserve psichiche. È come se fossi il generale di un esercito composto da un solo uomo, e questo generale potesse condurre quell’esercito in un vicolo cieco.
Affrontiamo l’argomento età, invecchiamento, cercando di essere precisi. In che modo influisce l’età che avanza sulla sua vanità di scrittore? Non credo esista niente di più dannoso per la propria vanità dell’idea di avere gli anni migliori ormai alle spalle.
Dunque, io credo che se si invecchia senza una piena obiettività ci si ritrova ad affrontare dei seri problemi. Ciò che rende potente la vecchiaia è l’obiettività. Se dici a te stesso, Oggi il mio karma è più equilibrato, adesso che ho meno cose di quante io ne abbia mai avute in tutta la vita, può esserti di conforto. Riesci ad avere una chiara idea di cosa ti resta come scrittore, e anche di ciò che non hai più. Invecchiando non c’è ragione per cui non dovresti essere più saggio come scrittore di quanto tu non lo sia mai stato. Ogni anno che passa dovresti avere una maggiore consapevolezza della natura umana. Ne scrivi bene e con la stessa vena brillante di un tempo? No, non proprio. Ti manca qualche numero in questo senso.
Perché?
Credo si tratti semplicemente di danni al cervello e niente più. Il cervello si deteriora. Perché una macchina vecchia non è in grado di fare le stesse cose di una nuova? È un dato di fatto. Non faresti affidamento su una vecchia auto per poi dirle, Mi hai tradito! L’aspetto positivo è che conosci ogni rumore di quella vecchia auto.
Mi hanno detto che un certo anziano scrittore americano andò a trovare un altro anziano scrittore americano al crepuscolo della sua vita e gli disse. Ora basta, non scrivere più.
Gli disse di non scrivere più?
Sì. È una di quelle storie che si raccontano a New York. Se è vero, potrebbe passare quasi per un atto d’amore. Un elegante e abile spadaccino che ne disarma un altro.
No, non posso crederci. Sia chiaro, se qualcuno venisse a dirmi una cosa del genere, gli direi, finché si scherza si scherza, ma schioda il culo dal mio cuscino.
Ritiene che l’America sia il posto giusto per dedicarsi all’arte?
Quando ero giovane era un luogo fantastico per uno scrittore. Motivo per cui in America siamo pieni di tanti autori così bravi — la maggior parte della nostra letteratura non era ancora stata prodotta. Gli scrittori inglesi avevano i grandi geni del diciottesimo e diciannovesimo secolo da superare. Noi chi dovevamo superare? Qualche grande scrittore, Melville e Hawthorne. L’elenco è cortissimo. Avevamo campo libero. Oggi siamo assediati. Il cinema era di poco conto, e comunque gli scrittori americani hanno sempre sentito un senso di superiorità rispetto a ciò che succedeva a Hollywood. Con i film non si approfondiva la conoscenza della natura umana, ci si divertiva e basta — con qualche danno per la voglia di imparare qualcosa in più sul perché siamo qui, che credo sia una delle ultime domande fondamentali.
Oggi la gente cresce con la televisione, che contiene un elemento completamente avverso alla lettura vera, ed è la pubblicità. Ogni qualvolta ci si interessi a una narrazione, sai che verrà interrotta ogni sette o dieci minuti, cosa che annienta la concentrazione. I bambini guardano la televisione e perdono ogni interesse verso la lettura prolungata. In quanto scrittore, mi sento davvero come uno dei più vecchi di un mestiere che sta morendo. Un tempo era un’arte, oggi si è ridotto a mestiere, e un mestiere destinato a scomparire. La risposta alla sua domanda è: l’America non è più un bel posto per uno scrittore, mentre una volta era un posto magnifico.
C’è stato un tempo in cui il paese si rivolgeva a scrittori in cerca di verità?
Ai miei tempi, nei primi anni Quaranta, gli scrittori importanti erano per me molto più delle stelle del cinema. Le stelle del cinema erano stravaganti, delle curiosità. Gli attori erano dinamici, attraenti, ma non erano importanti, in un senso più ampio. Gli scrittori lo erano. Non so dire come ci si senta a farsi prete, ma è questo che sentivo in quanto scrittore – la vocazione. Non c’era niente di più importante.
Il paese sembrava assetato di grandi autori — di un grande romanzo americano. Questo elemento ha contribuito alla sua idea di vocazione?
Senza alcun dubbio. Io credo che molti di noi, cinquanta o sessant’anni fa, sognavano proprio questo — scrivere il grande romanzo americano. Direi che il sogno è duro a morire.
C’è una storia che raccontava Shelley Winters su di lei. Da quello che so, venne da lei intorno al 1950 chiedendole di aiutarla a capire il romanzo di Dreiser, Una tragedia americana. Desiderava ardentemente essere scritturata per la parte dell’operaia nell’adattamento cinematografico di George Stevens. Alla fine uscì come Un posto al sole, con Montgomery Clift. Una storia tenera.
E del tutto vera.
È bella l’idea di una ragazza che va dallo scrittore per imparare.
Beh, ci conoscevamo. Shelley mi chiamò un giorno. Era isterica. Mi disse, Devo vedere George Stevens domani. A quei tempi veniva considerata una bionda vanitosa e non una grande attrice. Prendeva molto sul serio il suo mestiere di attrice ma interpretava il ruolo di bionda svampita in stupidi film, e voleva qualcosa di meglio.
Disse, Devo leggere questo libro, Una tragedia americana, e sono settecento pagine, non riesco a farlo entro domani, e così via. Allora le dissi, Va bene, vengo da te. E ovviamente avevo anche i miei scopi in tutto questo. Voglio dire, mi troverò da solo con un’attrice bionda chissà che ne venga fuori qualcosa di buono. Arrivo da lei e ha un’orticaria incredibile, con una bandana intorno al capo, il mento gonfio, e un aspetto orribile, indossava un vecchio kimono, priva di qualunque forma di sex appeal, e sembra sul punto di scoppiare in lacrime.
A quei tempi non ero sempre molto reattivo, ma quel giorno sì. Le dissi. Senti, innanzitutto è un libro di settecento pagine, ma la tua parte è solo a metà, e le mostrai il libro intorno a pagina duecentocinquanta. Stasera leggine più che puoi, e non farti prendere dal panico. La chiave è che sei in grado di interpretare questo ruolo, e ciò che devi tenere in mente è che si tratta di una ragazza della classe operaia, una ragazza completamente priva di artificio. È ciò che è. Questo è il nucleo di Roberta Alden. È ciò che la porta a vivere la relazione con Clyde, ed è ciò che gliela fa perdere.
Dopodiché vado a casa. Avrei potuto trovarmi nel deserto per il sesso che riuscii a fare quel giorno. E mi rivolgo a mia moglie, con il tono virtuoso dell’uomo che è riuscito a fare il galante non essendo riuscito a concludere. E poi, ovviamente, dopo ventiquattro ore Shelley viene a dirmi, Norman, ho ottenuto il ruolo. Mi dice, Gli stavo parlando e ho detto, signor Stevens, a mio parere Roberta Alden è una ragazza totalmente priva di artificio. E lui ha risposto. Ehi, sai che non sei la stupida che pensavo che fossi. E così ottenne la parte. Dopo averci lavorato per qualche settimana, mi chiamò di nuovo e disse, Norman, ho bisogno di altre battute. Di qualche altra frase. Ho usato quell’osservazione sull’artificio diverse volte e ora sembra essersi stufato.
L’arte dell’intervistatore si concentra per lo più sulla questione del movente. Cosa l’ha portata a scrivere questo? Perché ha sposato questa donna? Come si è lasciato coinvolgere in quella particolare azione? Perché ha fatto questa determinata cosa? E mi rendo conto che il suo nuovo romanzo, Il castello nella foresta, ruota intorno alla questione del movente, dove la domanda ricorrente è: Cosa ha portato Adolf Hitler a diventare la personificazione del male? L’incesto in famiglia? L’esempio delle api? La durezza delle botte ricevute dal padre?
Niente di tutto questo. Nulla di ciò che ha elencato.
Un attimo. Intende dire che non è rilevante? Ma in che misura l’argomento del movente ha rappresentato il suo di movente per scrivere il libro?
Oh, il mio movente è separato da qualunque movente io abbia attribuito a Hitler. Detesto quando gli scrittori danno spiegazioni psicologiche che fingono di rispondere a domande quando invece non lo fanno.
Però lei ha deciso di metterci queste cose nel libro...
Beh, sono elementi che contribuiscono. Ma l’idea che stava dietro il libro era, fin dall’inizio, quella del diavolo che narra. Nel romanzo c’è un lungo commento sul fatto che oggi l’intellettuale che ha un’intelligenza media trova difficile credere in Dio, figurarsi nel diavolo. E io ritengo che per Hitler non ci sia spiegazione migliore, era ispirato dal diavolo, come Gesù lo era da Dio. Se la gente è disposta a credere che Gesù è il figlio di Dio non vedo perché non si possa considerare Hitler il discendente del diavolo. È la spiegazione più semplice. Non ve ne sono altre.
La pensa come Milton e Il paradiso perduto che al diavolo a volte spettano le battute migliori?
Oh si, più di questo. Io credo davvero che vi sia una guerra serrata fra Dio e il diavolo che riguarda ogni ambito. La gente odia il solo pensiero, perché viviamo in tempi altamente tecnologici in cui gli esseri umani sono stanchi di portarsi dietro l’eredità del Medioevo, quando tutti ci prostravamo pregando Dio piangendo e dicendo, Oh, Dio, per favore tienimi in considerazione. Oh, Dio, per favore salvami. Oh, Diavolo, stai lontano da me. Beh, c’è stato l’Illuminismo. Abbiamo avuto Voltaire. Abbiamo avuto diversi secoli per formare la nostra vanità di essere umani, e oggi siamo diventati una terza forza. Da una parte c’è Dio, dall’altra il diavolo, e poi ci siamo noi a occupare l’enorme centro. E la metà di noi non crede né in Dio né nel diavolo.
Lei crede in Dio?
Oh, certo che sì. Non che io creda in un Dio legislatore, come Geova. Questo risale ai preti e alla loro presa di potere tempo addietro, un potere implicito nell’idea che se sei in grado di impaurire la gente, facendogli credere che una forza potente li punirà se non faranno la cosa giusta, gli agenti di quella forza acquisiranno un enorme potere. Dunque non esiste un sacerdozio che non creda in un Dio onnipotente che punisce. Ma non credo in tutto questo. Io credo in un Dio creatore. Io ritengo che Dio ci abbia creati, e che come ogni creatore non ha il comando della situazione. Dio è il meglio che lui o lei possa fare in circostanze molto difficili.
Un Dio esistenziale?
Certamente. Non sa come andranno a finire le cose, non sa se lui o lei riuscirà o fallirà. E in lotta con il diavolo. Questo Dio è un dio locale, se vuole. E ci sono divinità locali in tutto l’universo. Ognuno con idee diverse sull’esistenza. E alcuni sono in guerra tra loro e altri invece sono talmente distanti da non doversi preoccupare. Ma volendo ricorrere a speculazioni assolute, del tutto sleali e illegali, direi che il diavolo probabilmente è stato mandato qui come controforza di Dio. In pratica, c’erano forze più in alto nell’universo che non apprezzavano questo Dio venuto dal niente con una visione dell’umanità.
Un gran numero di americani oggi ritiene che Dio e il diavolo facciano parte della vita di tutti i giorni.
Credo sia cosi. Non che abbiano un controllo — non penso che il diavolo possa prendere possesso di te e che tu sia perduto per sempre. Ma possiamo dire che non ci sia mai stato un cazzo di momento in cui per un attimo non ci siamo sentiti malvagi?
Vagamente angelici, forse.
No. Un po’ malvagi. E credo sia questa la risposta.
Nel Castello nella foresta, mi chiedo se non stia mistificando il processo suggerendo che Hitler sia stato Hitler solo perché al momento del suo concepimento era presente il diavolo. Potrebbe essere questa una mia obiezione al libro: uno scrittore non può ignorare la capacita degli essere umani di creare terrore all’interno dei confini della propria mente, nella struttura delle loro stesse vite.
La sua obiezione è lecita. Tuttavia, Hitler è unico nel suo genere: non esiste una spiegazione a Hitler. Stalin era un mostro intellegibile. Siamo in grado di leggere la biografia di Stalin, di studiare il movimento bolscevico, la condizione della Russia, e le abominevoli conseguenze della rivoluzione russa. Siamo in grado di ricomporre Stalin, pezzo per pezzo, e di comprenderlo secondo dei criteri tipici dell’essere umano. Forse è uno degli esseri umani più malvagi che siano mai esistiti, ma era un essere umano. Non è necessario ricorrere al diavolo per spiegare Stalin. Ma Hitler è un caso differente. Hitler non ha la forza di Stalin. Hitler è quasi un debole. E impossibile da spiegare, a meno che non si accetti l’idea che fosse una scelta del diavolo per ragioni radicate nel profondo della natura germanica.
E mi spingerei anche oltre. E cosi facendo anticipo il mio prossimo libro, quello che sto per scrivere. Chissà se vivrò abbastanza da riuscire a scriverlo, ma se cosi sarà, Hitler sarà descritto come la scelta del diavolo. Alla fine del Castello, sarà uno tra le decine di centinaia di candidati che il diavolo avrà designato tra l’umanità intera come possibile mostro. Il diavolo, come Dio, ordina molte cose, ma lo svolgimento della Storia non è del tutto prevedibile. Dio e il diavolo sono in guerra. Gli esseri umani sono in guerra con loro due, e fra di loro. E il diavolo non cerca di creare un unico Hitler nel modo in cui Dio creò un unico Gesù Cristo. Il diavolo è pragmatico e crea centinaia di migliaia di potenziali Hitler, e quello che conosciamo è l’unico a essere sopravvissuto. Perché? Per le condizioni straordinarie in cui versa la Germania, e che ancora non e’erano quando Hitler venne concepito, ed è questo che esplorerò nel mio prossimo libro. Come questo orribile bambino si trasforma nella grande potenza che conosciamo.
Viviamo in un mondo sempre più popolato da gente che crede davvero che I’altro lato della forza sia il diavolo.
Già.
Viviamo secondo questi termini. L’Asse del Male. Il Grande Satana. L’Impero del Male.
Il grosso del mio impegno è per garantire che il pane venga imburrato in maniera equa. In America esiste il male? Si. Nell’Islam esiste il male? Si. Una parte è più malvagia dell’altra? Chi può dirlo. Siamo entrambi estremamente malvagi, e siamo entrambi estremamente buoni. Fa parte delle nostre credenze religiose essere dei miscugli, dei miscugli radicati. Gli atei sostengono di essere perfettamente contenti non credendo in Dio. Ma filosoficamente non possono essere contenti, dato che non trovano risposta alla domanda: come siamo arrivati qui. È molto difficile descrivere le complessità della natura umana essendo emersi ex nihilo. Se esiste un Dio creatore che fa del suo meglio allora troviamo una spiegazione perfetta del perché siamo qui. Siamo la creazione di Dio, e Dio ci rispetta profondamente, come un padre, un buon padre, rispetta i suoi figli desiderando che diventino più interessanti di lui. E lo stesso vale per la madre. E in questo senso si potrebbe dire che siamo l’avanguardia per Dio. L’idea di un paradiso stile Club Med o di un inferno simile a una caldaia surriscaldata non ha alcun senso, a mio avviso.
Lei crede nella reincarnazione. Quindi in cosa rinascerà, Norman?
Beh, sono in attesa, giusto? Mi trovo nella sala d’aspetto. E alle fine chiamano il mio nome. Io entro e mi trovo davanti un angelo che mi dice, signor Mailer, siamo molto lieti di incontrarla. Aspettavamo con piacere questo momento. Mi lasci dire che la buona notizia, l’ottima notizia, è che lei ha superato la prova ed è idoneo, può reincarnarsi. Io rispondo. Oh grazie, si. Non avevo proprio voglia della pace eterna. E l’angelo dice, Beh, detto tra noi, non è che poi sia necessariamente una pace eterna. Può risultare vagamente febbrile. Però, ciò che conta è che lei sia idoneo. Dunque, prima di verificare cosa le è stato assegnato, chiediamo sempre a tutti. Cosa vorrebbe essere nella sua prossima vita? E io rispondo. Beh, direi che mi piacerebbe essere un atleta di colore. Non mi interessa dove, mi assumerò il rischio, ma si, è quello che vorrei essere, un atleta di colore. E l’angelo mi risponde, Ascolti, Mailer, c’è un esubero per quel settore. Tutti vorrebbero essere un atleta di colore nella loro prossima vita. Ora non so... non posso cominciare a... mi faccia vedere per cosa l’abbiamo destinata. Apre il grosso libro, guarda, e dice, Allora, le abbiamo dato le sorti di uno scarafaggio. Ma ecco la buona notizia: lei sarà lo scarafaggio più veloce del gruppo.
Non male.
La reincarnazione è la miglior prova dello spirito e del senso del giudizio di Dio. Dio, lo ripeto, non è un legislatore. E un creatore, e i creatori hanno giudizio.
Ciò che la attirò di Gary dimore fu la sua fede nella reincarnazione?
Oh si. Ma l’idea ce l’ho da anni. Nel 1954, quando ero un ateo orgoglioso, orgoglioso e sicuro di me, decisamente sicuro del fatto che si potesse fare a meno di Dio, andai nell’Illinois da James Jones. Cominciò a parlare della reincarnazione. Ora, Jones era uno degli scrittori più pratici che io abbia mai conosciuto, un vero nativo del Midwest. Era davvero solido nel senso che aveva di ciò che è reale e sicuro e di come andava affrontato. Dal modo in cui superava nello specifico le difficoltà della realtà sapeva trarre il gusto della vita. Credeva fermamente nella realtà, eppure credeva nella reincarnazione. Gli dissi. Sono sicuro che non credi in questa roba, vero? Mi rispose, Diamine, si invece! E l’unica cosa che abbia un senso. Ho dovuto convivere per i successivi dieci anni con quella frase prima che mi entrasse in testa.
Le capita di fare sogni violenti?
No. Metto quei sogni nelle mie opere.
I suoi interessi di scrittore dimostrano una certa attitudine alla violenza, cosi come la sua reputazione.
La reputazione è peggio. La leggenda è più grossa di me.
Soffermiamoci sulla reputazione. La questione viene sollevata anche in due recenti pellicole. Uno è Infamous, il film di Douglas McGrath su Truman Capote. In una scena c’è Capote che cena con alcune delle ricche ragazze che amava. Una gli chiede se non ha avuto paura a trovarsi nella cella insieme agli assassini della famiglia Clutter, e Capote risponde, “A essere sinceri, ho più paura per la mia incolumità quando mi trovo in presenza di Norman Mailer”.
Se per caso ti è capitato di essere coinvolto in cinque risse – diciamo, cinque – nell’arco della tua vita, il pubblico le considera cinquanta o centocinquanta.
E nell’altro film, Factory girl, su Edie Sedgwick, e è una scena in cui Andy Warhol si trova nel confessionale e dice al prete, “Ho un amico e un giorno Norman Mailer gli si è avvicinato e gli ha dato un pugno nello stomaco, e non facevo altro che pensare. Un giorno Norman Mailer prenderà a pugni anche me?”.
Le persone rimangono sempre perplesse quando mi conoscono.
E ne è stufo?
Oh, ormai ben oltre esserne stufo. Bisogna rassegnarsi.
Eppure nelle sue opere la violenza non manca mai.
L’interesse per la violenza è legittimo. Ho sempre pensato che fosse una delle frontiere che restava agli scrittori come me. I grandi autori del diciannovesimo secolo si occupavano dell’amore, si occupavano di delusioni e amori, si occupavano dell’onestà, e per certi aspetti della corruzione, si occupavano delle forze della società in quanto generiche forze astratte in grado di piegare la volontà della persona. Poi è arrivato il ventesimo secolo. Hemingway era affascinato dalla violenza perché il suo corpo fu devastato durante la guerra. Per lui la violenza era una questione centrale. Leggendo Hemingway rimasi affascinato dal modo in cui gestiva la violenza, ma mai soddisfatto.
La consapevolezza che l’uomo vive sotto la minaccia della violenza di massa ha avuto il suo ruolo?
Era questa l’ironia. Il fatto che la violenza individuale fosse un tabù mentre convivevamo seriamente con l’idea di una violenza di massa. Nell’Unione Sovietica e in America e’erano in quegli anni persone serie che passavano giorni e notti intere a sognare il modo di distruggere completamente l’altro paese. Voglio dire, si chiedevano che tipo di danno avremmo dovuto subire per distruggere completamente l’Unione Sovietica. Erano questi i calcoli che si facevano costantemente.
Non usciamo dai binari. Arriviamo al periodo in cui la sua generazione di scrittori americani comincia ad acquisire la sfumata consapevolezza di come la violenza esista sia nella nostra immaginazione sia nella società in cui viviamo. Continui da qui.
Sono sempre stato conscio dell’ostilità dimostrata dal mondo letterario quando si trattava di affrontare la violenza. Era un periodo in cui non c’era la certezza di poter arrivare alla fine del secolo. Convivevamo con questa incertezza, come ci conviviamo ancora oggi. Allo stesso tempo, la violenza individuale viene considerata una cosa sgradevole di cui non si deve parlare, e per me i momenti di violenza sono sempre momenti esistenziali. Sono fondamentali. Li osservi e pensi, Forse potrei tirarci fuori qualcosa di grandioso.
Quindi se guarda una figura come Lee Harvey Oswaid, un uomo il cui nome sarà per sempre associato a un unico atto di violenza devastante — cosa vede?
Beh, innanzitutto, devo decidere se ha commesso Fatto o meno. Quando cominciai Il racconto di Oswaid avevo idea che se fossi riuscito ad andare in Russia avrei scoperto moltissimo. Credevo ci fosse un complotto. E più imparavo a conoscere Oswaid più mi convincevo del fatto che se davvero avesse fatto parte di una cospirazione non sarebbe stato altro che una propaggine, non era il tipo di persona utile a un complotto perché era uno solitario. Era troppo orgoglioso. Voleva fare tutto da solo. Potrei sbagliarmi su questo. Quando dico che credo che Oswaid abbia ucciso John E Kennedy, arrivo a questa conclusione come ci arriverebbe un ufficiale dei servizi segreti, il che significa che sono sicuro al settantacinque percento che sia lui ad aver assassinato Kennedy. Ovviamente se qualcuno venisse a portarmi delle prove inconfutabili che faceva parte di un complotto, dovrei dire di essermi sbagliato. Ma credo che sia stato lui, per una ragione molto semplice, perché voleva diventare famoso. Voleva essere immortale. È una cosa evidente. Data la sua esperienza in Unione Sovietica e in America, passò dalla violenza di massa alla violenza individuale, e forse ha davvero pensato che gli sia stato offerto un ruolo speciale nella vita.
Crede ancora nel suo libro The White Negro?
Ci credo ancora nel senso che sono sicuro che esista un certo numero di persone — soprattutto fra i giovani uomini — che vive la vita secondo la qualità dell’orgasmo. In pratica trovano una fanciulla che gli procuri un orgasmo migliore rispetto a un’altra e seguono questo percorso, è la loro idea di amore. E chi può dargli torto? L’orgasmo è un’espressione profonda di noi. Molti uomini di colore si sono offesi perché ho attribuito la ricerca dell’orgasmo più a loro che non ai bianchi. Dato che cosi tante via al successo gli erano state chiuse, mi sembrava che questa avesse perfettamente senso.
Vorrei parlare del modo in cui lo scrittore trasfigura la materia dei fatti. Lawrence Schiller le procurò le interviste per la storia di Gary Gilmore e per il libro su Lee Harvey Oswald. Potrebbe cominciare a spiegare cosa fa si che i fatti si trasformino in arte?
Ciò che li rende romanzeschi? Va bene, Per quanto riguarda Gilmore, Larry mi portò un terzo delle interviste, o la metà — una grossa parte, insomma. E poi ne feci diverse io, e la mia assistente Judith McNally si occupò di tutte quelle agli avvocati, era molto brava in questo genere di cose. E cosi ci ritrovammo con circa trecento interviste, a più o meno metà delle quali partecipai. Da quel momento, fu un po’ come trasformare la linfa dell’acero in sciroppo – la fai bollire tutto il giorno finché non ottieni l’estratto. Poi il passo successivo, trasformarlo in forma narrativa.
A questo punto mi sono reso conto che esiste un curioso rapporto reciproco fra i fatti reali e la fiction; Ebbi la sensazione difficile da giustificare o spiegare, che più il libro si fosse attenuto alle dichiarazioni reali più sarebbe risultato narrativo. Quando hai una raccolta di semplici fatti, il problema è che gran parte di questi non sono — qual è la parola che cerco — raffinati. Sono deformati. Incrostati. Distorti. Molto spesso sono finti. E se non sei costretto a conviverci viene la tendenza a raggruppare tutti questi fatti insieme, cosi che la storia spesso finisce per tradire la realtà, nonostante tutta la buona volontà e gli sforzi.
Bellissimo concetto. Lo scomponga.
Va bene. Arriverei al punto di affermare che qualunque storia costruita interamente sui fatti sarà piena di errori e ingannevole. E la mente umana a essere capace di sintetizzare cosa avrebbe potuto essere la realtà. Ora, quella realtà non dev’essere quella avvenuta, dev’essere una realtà con cui le persone possono convivere nelle loro menti ristrette, in quanto eventualità di come potrebbe verificarsi qualcosa. Ed è questa la differenza fondamentale. Se leggi un libro e pensi. Si, è cosi che sarebbe potuto succedere, allora la tua mente è stata arricchita. Con il canto del boia ebbi la sensazione che questi fatti, se attentamente analizzati e rianalizzati e ridotti e affinati, avrebbero cominciato a creare un evidenza del dato certo che definirei narrativo. Narrativo perché respirava, ed ecco la differenza. Se metti insieme i fatti in modo che davanti agli occhi del lettore respirano di vita propria, stai scrivendo narrativa. Fiction non significa racconti o leggende o narrazione di fatti non reali rispetto a quelli veri. Una cosa può essere vera e comunque narrativa.
Non è mai stato del tutto soddisfatto in questo senso. Quando scrisse Le armate della notte lo riteneva un romanzo?
Si, beh, non è che io mi sia molto adattato all’etichetta “la Storia come romanzo, il romanzo come Storia”. Ancora oggi non sono molto sicuro di cosa stessi facendo quando ho scritto quel libro. Ritengo che Le armate della notte non sia narrativa. Il libro rappresenta la realtà al massimo di come sono riuscito a rappresentarla. E una narrazione autobiografica, che non vuoi dire narrativa.
La infastidisce il fatto che i due Pulitzer li ha vinti per opere basate su fatti reali?
Alcuni dicono con una certa sicurezza, Ovviamente Mailer è un bravo scrittore di saggistica – non è un granché come romanziere. Questo mi irrita, si. Perché chi lo dice non conosce la mia opera. Nessuno dopo aver letto Il fantasma di Harlot potrebbe affermare che sia un saggio. Nessuno dopo aver letto Antiche sere, per dio, potrebbe affermare che sia un saggio. Non conoscono questi lavori, tutto qui. Hanno già deciso basandosi su ciò che hanno letto, vale a dire quasi sempre saggi.
Ammetto di aver affrontato la saggistica negli anni e di essermi accontentato di scrivere opere di saggistica perché più facili del romanzo. Non devi preoccuparti della storia.
No, questo non basta, Norman. Nel modo più assoluto.
No, mi lasci continuare. Quando scrivi un romanzo rischi di perderlo nell’arco di una mattinata. In un determinato momento fai compiere al tuo protagonista un atto che ti piace, poi devi seguirlo in quello che sta facendo, e devi gestire le conseguenze di quello che ha fatto. Poi magari, due mesi dopo, sei mesi dopo, oppure orrore degli orrori, due anni dopo, ti svegli e pensi. Quel giorno ho sbagliato a prendere quella decisione. Quando scrivi un romanzo può succedere, ed è sufficiente a spaventarti a morte.
D’accordo. Ma non vorrà mica dire di essersi dedicato alla saggistica perché è più facile?
No — non proprio. Ho scritto saggi perché mi sono stati offerti dei lavori. Per esempio, per quanto riguarda Marylin, Scott Meredith, mio agente all’epoca, mi telefonò per dirmi che aveva un bei mucchio di soldi per venticinquemila parole su Marilyn Monroe. E disse la cifra.
Vale a dire?
Per dovere di cronaca, cinquantamila dollari. A quei tempi era moltissimo. E Scott mi disse. Senti, Norman. E ottimo. Ma non scrivere troppo. Mi feci prendere a tal punto da Marilyn che finii per scrivere novantacinquemila parole. Alla fine dei conti, cinquantamila risultò un modesto compenso invece che un affare. Ma il punto è che fu un libro bellissimo da scrivere. Nessun pensiero da elaborare. Nessuna vita incredibile di un incredibile diva bionda da creare — il materiale e’era già tutto. E soprattutto, scrivere il libro mi ha insegnato moltissimo sui fatti veri e su quelli finti. Vede, avevo a che fare con un gruppo di bugiardi. A Hollywood tutti quanti esagerano e distorcono e decorano e manipolano le storie, e fu quasi come fare l’agente segreto. Dovevo decidere cosa era vero o cosa no.
C’è una parte di lei che si diverte all’idea di fare l’agente segreto?
Eccome! Una volta scrissi un racconto su Warren Beatty per Vanity Fair. Mi piaceva molto, e credo gli piacessi anch’io. Volevo che si candidasse alla presidenza. Questo accadeva nel 1991, ma lui aveva qualche obiezione. Poi Arianna Huffington scrisse che doveva candidarsi alla presidenza. Allora telefonai a Warren e gli dissi. Ti potresti accontentare della vicepresidenza? E rispose, Va bene, va bene, tu cosa vuoi? La direzione dell’intelligence, gli dissi. E’ tua, rispose. Quanto abbiamo riso. Ah, se solo Warren Beatty fosse diventato presidente.
Flaubert riteneva che il modello per Emma Bovary si potesse trovare molto vicino all’autore. Quanto c’è di lei nelle grandiose persone che ha preso come suoi soggetti, e potrebbe mai arrivare a dire, Adolf Hitler, c’est moi?
Mentre scrivevo il racconto su Warren, andai a vedere Bugsy, che ancora non era uscito. E la violenza presente in Bugsy era solo apparente. Ora, Warren Beatty è evidentemente abile dal punto di vista fisico, è una specie di atleta, ma non viene da associarlo a comportamenti violenti. E fu davvero sconvolgente vedere che meravigliosa e convincente rappresentazione della violenza riuscì a dare. E gli dissi, Non hai il minimo timore che i tuoi amici possano sentirsi a disagio accanto a te ora? E lui, Oh, no, quasi tutti i miei amici sono attori, in grado di capirlo. Non è necessario avere dentro di te più del cinque percento di un personaggio per poterlo interpretare. Poi sorrise e disse, Ovviamente se ne hai dentro il settantacinque percento è molto più facile. Per quanto riguarda Adolf Hitler, direi che un cinque percento è quanto mi bastava.
Ha ottenuto molto con quel cinque percento.
Devi far convergere tutte le forze necessarie. E per questo che pochissimi sono capaci di diventare scrittori di successo o di continuare a esserlo. Magari hanno il talento ma si tratta anche di far convergere le forze. Implica questioni sgradevoli. Per esempio, fare lo scrittore significa essere pronti a condurre un’esistenza monastica. Quando stai lavorando seriamente a un romanzo potrebbero passare dieci giorni di fila di solo lavoro senza che tu abbia la possibilità di offrire niente al tuo compagno e niente a nessun altro. Non vuoi essere disturbato, non vuoi rispondere al telefono, non vuoi nemmeno parlare più di tanto con i tuoi bambini – vuoi essere lasciato in pace mentre lavori. Ed è dura. E ovviamente ogni mattina devi entrare in quella stanza ad affrontare la pagina bianca e ricominciare da capo. Quindi, mettere a fuoco le proprie forze non e questione di routine. Devi pensare di procurarti un malessere spirituale per poter raggiungere quel luogo dove sei in grado di pensare. E non di pensare come faresti tu, ma come dovrebbe fare chi sta creando quel romanzo.
C’è mai stato un caso del settantacinque percento, quando ha sentito di conoscere in maniera davvero approfondita il soggetto? Voglio dire, una conoscenza innata, non una che ha a che fare con le date, i nomi e le loro mogli? Sto pensando a Picasso.
E stato più facile. Ma no, mai un caso del settantacinque percento. Sempre meno della metà. Voglio dire, stiamo parlando di persone straordinarie. Lei ha citato Lee Harvey Oswaid, Gary Gilmore, Marilyn Monroe, Hitler. Qual è il loro minimo comune denominatore? Sono tutte persone fondamentalmente senza radici – che hanno affrontato la crisi d’identità.
Muhammad Ali?
Oh, credo abbia dovuto rifarsi un’identità anno dopo anno.
Perché?
Ali non abbraccia solo l’avversario ma anche il ring, e il pubblico. Ha il senso di una consapevolezza assoluta. E ogni volta che ha cambiato status, ed è successo in maniera notevole varie volte, si è ritrovato a essere una persona per certi aspetti diversa. E cosi ha avuto delle crisi di identità. O degli scossoni, delle mutazioni.
Gesù Cristo?
Se pensi di essere il figlio di Dio, sei soggetto a diverse crisi di identità.
Lei è stato attratto dalle icone e dalle fatiche della celebrazione di un ego, ma non cosi tanto dalle inezie della vita familiare o della periferia americana. Saul Bellow metteva tutto ciò che gli succedeva nei suoi romanzi. Lei è stato sposato sei volte ma non ha mai usato la sua vita privata in questo senso.
Mai, e per una ragione – vale a dire, io ritengo che le esperienze fondamentali della propria vita formino dei cristalli ali’interno della nostra immaginazione, e che si possa prendere l’immaginazione e irradiarla da diverse angolature. Colpisci il cristallo, fai attraversare la luce da una parte, poi da un’altra e ti ritrovi con diversi racconti, diversi sguardi, diversi romanzi. È esattamente ciò che fanno gli attori. Non ho mai scritto direttamente di nessuna delle mogli che ho avuto mentre ero sposato. Non credo di averlo mai fatto. Penso di scrivere di alcuni loro aspetti, di quelli dei miei bambini, perché non credo nell’uso diretto della propria esperienza. Facendolo si escludono altre possibilità.
Sarebbe impossibile parlare con lei dell’arte della narrazione senza parlare di politica. Lei una volta si è definito un conservatore di sinistra.
E lo penso tutt’ora. Sono un conservatore di sinistra.
Ma parliamo di neoconservatorismo. È diventato cosi rilevante in America. Mi interessa il suo rapporto con persone come Norman Podhoretz, gente che ha fatto un percorso molto lungo dal punto di partenza.
Beh, lo posso capire. E, in realtà, mi sento in parte responsabile per Podhoretz. Siamo stati molto amici a un certo punto. Scrisse un libro intitolato Making It che venne duramente criticato. Non era benvoluto a sinistra. Non ho mai capito perché fosse cosi poco amato. Ma stroncarono il libro in maniera inaudita. Era davvero brutto. E io non lo avevo ancora letto – o forse ne avevo letto la prima metà, che non era per niente male. Fui testimone di queste stroncature e gli dissi. Scriverò una recensione. Cosi lo lessi per intero. Il libro si tradisce. La seconda metà è davvero tremenda. Nella prima metà, la tesi che porta avanti è che il piccolo e sporco segreto all’interno della sinistra, fra artisti e intellettuali, è che vogliono davvero farcela, e vogliono farcela alla grande. E lo nascondono a se stessi e agli altri. Ma è questo il fattore motivante di cui non si parla mai. Si può parlare di sesso ma non dell’ambizione e del desiderio di fama. E lui parla di tutto questo. Poi fa una serie di ritratti di tutti quelli a sinistra che ce l’hanno fatta — ritratti buoni e affettuosi, di persone che sappiamo benissimo essere tutt’altro che questo. E rimasi inorridito da come fosse riuscito a tradire il suo stesso libro. Manca di coraggio in questo – voglio dire, se vuoi essere forte sul piano teorico, devi esserlo anche nel dettaglio. E necessario per arrivare all’universale. Bisogna essere forti sui due fronti. E lui non lo è stato.
E finii anch’io per deridere il libro. E fui piuttosto crudele. Ripensandoci, forse anche troppo. Fu colpito da una depressione che durò circa un anno... non faceva granché. Lavorava alla sua rivista e ascoltava musica e non vedeva quasi nessuno. E alla fine di questo periodo, si era spostato a destra. Podhoretz è tutto tranne che passivo e senza iniziative. E nel momento in cui passò a destra, non gli bastava essere a destra, doveva spostarsi all’estrema destra. E quindi mi sento responsabile, in qualche misura, di averlo fatto spostare dove si è spostato. Ed è un peccato, perché adesso sta pagando per i suoi peccati a destra, per aver sostenuto la guerra in Iraq ed è costretto a conviverci — deve convivere con tutte le idiozie dei neoconservatori.
La politica è stata per lei una passione divorante— sul piano dell’azione, per un certo periodo, tanto quanto sul piano della scrittura. Ha ottenuto I’effetto politico che desiderava?
Se sei uno scrittore con una mente politica, passi la vita ad attaccare ciò che detesti politicamente. E forse non ottieni altro che piccoli risultati. Ma c’è dentro di te un’urgenza interiore che ti spinge. A un certo punto sono anche entrato in politica provando due volte a candidarmi come sindaco di New York pensando di poter fare la differenza. Poi ho scoperto che avrei potuto tranquillamente entrare in una squadra di calcio, non sapendo niente di calcio.
La campagna da sindaco del 1969 ha segnato la fine della sua carriera politica.
Ho capito alcune cose dopo. Una è che non avevo la fibra necessaria. Nei tre o quattro mesi della campagna invecchiai ed ero sempre stanco. La stampa se ne occupava poco. E, per gran parte del tempo, sembrava di sbattere i pugni contro il muro e basta. Ciò che dissi quando tutto fini fu che una matricola non può essere eletta presidente di una confraternita. E dopo questa mia osservazione, ecco che arriva Jimmy Carter. Infranse la regola ma non ebbe molto successo come presidente.
Quindi deve interessarle molto capire come abbia fatto Vaclav Havel ad essere sia scrittore sia presidente.
Non conosco molto bene la sua carriera. Ci incontrammo una volta e fu sgradevole perché ero stato all’Havana e raccontai del mio incontro con Castro, e di che uomo interessante fosse, cosa innegabile, e Havel si ammutolì. Evidentemente non ero uno con cui voleva avere niente a che fare, questo pensai, Ah, mi mandi a quel paese? E allora sono io a mandare te! Tirò fuori la mia parte di giovane di Brooklyn.
Ma da un certo punto di vista credo che lei lo capisse.
Lo capivo, ma mi sembrava anche molto ottuso. Si, aveva passato la vita a lottare contro i comunisti, e li detestava, ma bisogna essere in grado di fare delle distinzioni. Se sulla terra esiste un esempio di comunista relativamente buono quello era proprio Fidel Castro. Voglio dire, c’è una differenza enorme — il comunista medio che opprimeva Havel era un burocrate col sedere al caldo ed era un oppressore per via della sua mediocrità. E poi cera Castro, detestato da ogni presidente americano per una ragione molto semplice, perché era diventato capo di una nazione osando vincere. E loro come erano diventati presidenti? Stringendo mani alle persone che avevano detestato per decenni. E Havel avrebbe dovuto essere in grado di cogliere questa differenza.
Flannery O’Connor fece la domanda: “Oggi chi parla per l’America?”. La sua risposta fu le agenzie pubblicitarie. Riesce a immaginare un momento in cui la risposta a questa domanda tornerà a essere lo scrittore americano?
No, non adesso. Mi sento sfiduciato. Vorrei poter essere più ottimista al riguardo. Ma i sostenitori del marketing hanno preso il potere nel paese. C’è stato un mutamento profondo nell’etica americana. Un tempo eravamo una nazione orgogliosa della qualità dei nostri prodotti. Non erano necessariamente i prodotti migliori più belli o finemente confezionati, ma facevamo prodotti di ottimo livello e avevano senso dal punto di vista economico. Oggi l’orgoglio del paese è il marketing.
F. Scott Fitzgerald sapeva che l’America aveva sviluppato una dipendenza dalle illusioni. Ma oggi sarebbe più giusto dire che l’America crede fino infondo alle sue bugie?
Quando si tratta di politica estera, conviviamo con le bugie dai tempi della Seconda guerra mondiale. Forse per i primi cinque o dieci anni dopo la Seconda guerra mondiale, la Russia rappresentava una minaccia ideologica perché era una forte attrazione per alcuni paesi più poveri, senza ombra di dubbio. Dopodiché arrivarono gli anni più difficili. La Russia non è mai stata una grande minaccia per noi. Eppure per più di quarant’anni, durante la Guerra fredda, abbiamo fatto credere agli americani di essere impegnati in una battaglia ideologica che doveva essere vinta. Una marea di stronzate che colava lentamente, come lava, sulla mente degli americani.
La maggior parte della nazione crede in Gesù Cristo. E crede che la compassione sia la virtù più grande. Ma ci crediamo solo la domenica. E gli altri sei giorni della settimana siamo una nazione estremamente competitiva. Ci affanniamo come dannati per fare più soldi del nostro vicino. Gran parte degli americani non reagisce di istinto alla parola cultura. Un europeo sa esattamente cosa si intende per cultura. Ce l’hanno nella loro architettura. Ce l’hanno nelle curve delle loro vie, mentre noi abbiamo stradoni dritti perché è il modo più veloce per arrivare al mercato. Quindi c’è un grande senso di colpa nella vita americana, e questo senso di colpa è che non siamo dei buoni cristiani. Qui entra in gioco lo stratagemma di Karl Rove – stupidità unita a patriottismo. La tattica propagandista generale dei partiti, soprattutto dei repubblicani, è quella di applicare l’idea che siamo una nazione nobile e buona che desidera solo il bene per il resto del mondo, che siamo benedetti da Dio, che Dio vuole il nostro successo, e che siamo il progetto di Dio. E sotto tutto questo scorre, sempre, questo senso di vergogna, un costante senso di colpa, la sensazione che non siamo poi cosi buoni come fingiamo di essere.
Gli scrittori americani più giovani hanno espresso la loro preoccupazione riguardo alla negligenza della cultura di alto livello e l’ascesa dell’Oprah’s Book Club. Ma mi pare che stiano andando bene, in realtà; è la critica a trovarsi nei guai. Lei è cresciuto in un panorama in cui cera reciproco riconoscimento, se cosi possiamo dire, tra scrittori e critici letterari —persone dotate di senso politico e rispettosi della cultura di alto livello. Sto pensando a Irving Howe e Alfred Kazin, Lionel Trilling, ovviamente, ed Edmund Wilson. Risponda a due domande: resistenza di un pubblico critico ha influito sull’idea di cultura che aveva e per la quale scriveva? E due, là scomparsa della cultura critica ha tolto qualcosa alla qualità del romanzo?
La risposta a entrambe le domande è si, nel modo più assoluto. Quei critici erano i miei pari in termini di giudizio. Per me era più eccitante incontrare gente come Trilling e Howe che non le stelle del cinema. Edmund Wilson era ciò che più si avvicinava a Geova. Volevi ottenere il loro rispetto, e temevi la loro disapprovazione. Al contempo, crescendo ed evolvendoti, non ti sentivi del tutto inferiore a loro. Arrivò il momento — un momento felice e benedetto — in cui potevi dire, Beh, forse su questo ne so più di Irving Howe. Fu un bel periodo. Non esiste più. Questi critici sono tutti morti. E non vedo nessuno che possa rimpiazzarli.
Lei era amico dei Trilling. Aveva la sensazione che persone come loro fossero d’aiuto al suo stile?
Lionel era molto distante, e non si è mai davvero occupato di nessuno dei miei libri in particolare. Ma era bello trovarsi in sua compagnia. Era un uomo molto intelligente. E c’era quel libro che aveva scritto, La letteratura e le idee — potevi discuterne, condividerlo, potevi rifletterci. E lui era una persona incredibile, ed era piacevole passarci una serata insieme per via della sua grande intelligenza. Diana era entusiasta, emotiva, aperta, appassionata, sfrenata, prendeva posizione su ogni cosa, intollerante, divertentissima — l’esatto opposto di Lionel. Mi sentivo più vicino a Diana. Eravamo come cugini. Discutevamo in continuazione e ci volevamo bene. E naturalmente e’era Lillian Hellman: avevano un amicizia impossibile, i Trilling con gli Hellman, perché Lillian aveva delle simpatie per il partito, e loro erano molto anticomunisti. Eppure non fecero mai affiorare la questione fino alla fine, quando le loro strade si separarono,
“Il matrimonio è un istituzione praticabile”, dice il narratore del nuovo libro, “soprattutto per persone orribili”. Mi ha fatto ridere.
Beh, era il diavolo a parlare. Non io.
Come preferisce. Ma continuo a chiedermi se i suoi matrimoni non l’abbiano resa uno scrittore migliore.
Facciamo una trasposizione. I matrimoni di Picasso – o forse dovremmo dire le relazioni – lo resero un pittore migliore o peggiore? E un argomento interessante.
Sicuramente gli garantirono una certa varietà.
Ogni moglie è una cultura, e cosi ti ritrovi a entrare nel profondo di un’altra cultura, una che non è la tua, e impari molto. E poiché il matrimonio non è sempre un’istituzione agevole, ti ritrovi a scontrarti con quella cultura. Ad esempio, poniamo di dover passare dieci anni della tua vita in Francia. E alla fine decidi di andartene. Non passeresti il resto della vita a dire. Io odio la Francia. Diresti, la Francia ha moltissimo da offrire. Non tutto mi è piaciuto, ma sono felice di aver passato dieci anni in Francia. Le donne non amano questo tipo di argomentazioni perché le ritengono offensive. Oh, ecco quest’uomo che si è preso la mia gioventù, ha goduto completamente di me, e poi se n’è andato. Ma non è cosi. Gli uomini invecchiano tanto quanto le donne all’interno del matrimonio. Non ho dubbi sul fatto che Picasso per ciascuno dei suoi matrimoni fosse un pittore diverso. E penso di poter dire — non volendomi paragonare a Picasso, che ha avuto sul mondo un effetto molto più potente di quello che mai potrò avere io — che la mia scrittura si è modificata con ogni moglie. Ogni relazione ha avuto un effetto profondo sull’opera. Una ha un tipo di fedeltà diversa, interessi diversi una comprensione diversa. Un’altra ha un diverso senso del bene e del male.
Del bene e del male?
Il nostro modo di concepire il bene e il male comincia con i nostri genitori. Lungo la strada viene alterato dai rapporti sentimentali e dai figli.
Se la si pensa cosi — o se si ha questa tendenza — è una buona idea che uno scrittore faccia dei figli?
Io non detto regole per gli scrittori. Voglio dire, se Henry James avesse seguito le mie istruzioni, dove sarebbe finito?
James stesso era pieno di istruzioni.
Il punto di vista divenne un feticcio per lui. La cosa più vicina a una vera e propria religione.
Il suo saggio più famoso si intitola “L’arte del romanzo”. In questo saggio pone le regole per la buona scrittura. “Essere generosi e delicati e andare alla ricerca del riconoscimento”. “Non pensare troppo all’ottimismo e al pessimismo; e tentare di cogliere il colore stesso della vita”. James aveva delle idee ben precise riguardo al mestiere.
Non avrei mai voluto vivere la sua vita. Troppo sforzo per tutto quello che c’era di irrilevante. E non necessariamente nel lavoro, anche nella quotidianità. Cosa indossare una determinata sera. Preoccuparsi se il livello della conversazione riusciva a mantenersi alto dall’inizio alla fine. Roba del genere. No, bisogna essere liberi da tutto questo.
Però c’è la questione dell’amicizia. Gli scrittori americani sono spesso stati indirizzati dalle loro amicizie — Fitzgerald ed Hemingway, o Sherwood Anderson e Theodore Dreiser.
L’amicizia fra Fitzgeraid e Hemingway non era certo a corto di problemi.
No, ma fu importante per entrambi.
Va bene, allora posso citare anche me e James Jones.
E William Styron?
A un certo punto sono stato piuttosto sgradevole con William Styron. Era un uomo molto talentuoso. Va detta una cosa. C’eravamo io, Jones e Styron, ed eravamo tutti estremamente competitivi. Non lo si capisce mai abbastanza quanto siano competitivi gli scrittori. Siamo competitivi quanto gli atleti di punta. Soprattutto quelli che riescono a diventare famosi. E non diciamo, Oh, ma perché siete tutti cosi invidiosi gli uni degli altri? Non ci basta il fatto di essere tutti cosi dotati di talento? Perché non possiamo essere felici gli uni per gli altri? Non funziona cosi. Siamo competitivi. Non diremmo mai agli atleti. Perché siete competitivi? Non è meraviglioso sapere afferrare una palla da football con tanta facilità e poi correre velocemente? Perché dovete essere in competizione con gli altri uomini? Chiunque parli cosi è il più stupido dei liberali.
Allo stesso tempo ci rispettavamo profondamente. Ricordo quando ho ricevuto una copia di Da qui all’eternità, che se non sbaglio avevo chiesto, sulla quale Jones aveva scritto la dedica: “A Norman – il mio più temuto amico; il mio più caro rivale”. Questo è il tipo di amicizia fra scrittori. Gòre Vidal – che non si è mai sconvolto nel vedere il lato negativo dell’essere umano — ha affermato che, “Ogni volta che un amico ha successo, muore qualcosa dentro di me”. Questo è un eccesso del tipo di competizione di cui parlo. Ma col tempo si potrebbe cercare di arrivare al punto in cui, anche se qualcosa muore dentro di tè, un altra parte invece si sente stimolata. Pensi, Beh, se ci riesce lui, posso farcela anch’io.
Ma Styron?
Era lo stile. Era un maestro di stile meraviglioso. Forse il migliore fra noi. Non era un intellettuale ma aveva una grande abilità a creare l’atmosfera. E credo fosse molto importante per lui essere un grande scrittore. Talmente importante che quando cominciò ad avere problemi con la scrittura, ecco che arrivò la depressione.
E il motivo della vostra rottura?
Non voglio entrarci a fondo. A un certo punto gli scrissi una lettera orribile per dirgli di smetterla di stroncare mia moglie. La lettera mancava di consapevolezza per giustificare la forza delle parole usate.
E finì anche la sua amicizia con James Jones?
Io e Jim eravamo molto amici e poi sposò Gloria. Io ero sposato con Adele all’epoca, e credo che Gloria, una donna molto ambiziosa dal punto di vista sociale, vedesse Adele come impedimento alle sue ambizioni sociali. Cosi decise di porre fine ali’amicizia. Disse a Jim, Adele mi ha insultata, e Adele era molto dispiaciuta. Rispose, Non l’ho insultata. Non so di cosa stia parlando. E ho pensato. Beh, Jim ha semplicemente preso una decisione dura e crudele. Gloria era una donna forte. Io e Jim non ci parlammo per anni, e non riprendemmo mai la nostra amicizia, fu una grande perdita, ma è cosi che andò. E poi, stranamente, dopo che Jim se ne era andato, io e Gloria riallacciammo una specie di amicizia. Solo per una sera, divertendoci a ballare insieme durante una festa a New York. Cinque anni prima non avrei mai pensato che sarebbe stato possibile.
Gran parte di quello che sta dicendo non è altro che un breve aggiornamento di quello che scrisse in un suo saggio famoso. Si intitolava: Valutazioni: commenti veloci e cari sul talento qui presente. Deluse molte persone a quel tempo, ma chi fu il più sorprendente di quel gruppo di scrittori di cui scriveva?
Per il suo talento?
Si.
Updike e Rodi. Perché li liquidai, se ricorda. E mi sbagliai di grosso. Vista la perversione degli scrittori, mi prenderò una piccola parte di merito. Credo di averli fatti infuriare abbastanza da dire, Si pentirà di queste parole! E la sorprende tutto il successo postumo di Truman Capote? Era una persona straordinaria. Straordinaria. Non straordinaria per la profondità della sua intelligenza, ma straordinaria per quanto osava. Una volta dissi che era una delle persone più coraggiose di New York. E non ha idea di cosa significasse andare in giro per strada come ci andava lui quando era giovane. Ricordo quando viveva a Brooklyn, e c’era questo scenografo – mi pare fosse Oliver Smith – che abitava a circa due isolati da dove stavo io a Brooklyn Heights. Truman abitava nel seminterrato dello stesso edificio, e ogni tanto ci incontravamo casualmente per strada. Una volta ci mettemmo a passeggiare insieme e dissi, Andiamo a bere qualcosa, cosi ci recammo nel bar più vicino. Era un vecchio pub irlandese. Era lungo un centinaio di metri, o cosi sembrava, e tenevano tutti un piede sulla sbarra di ferro quegli operai irlandesi, e forse qualche scozzese, che bevevano li.
Entriamo, e c’è Truman, con i suoi capelli biondi che portava ancora con la frangetta, che indossa un piccolo impermeabile in gabardine. Non aveva infilato le braccia, lo portava sulle spalle tipo mantella. Entrò, e io dietro di lui e all’improvviso mi resi conto. Oh mio Dio. Ci sedemmo in fondo al locale e chiacchierammo per un po’, nessuno venne a infastidirci, ma era una di quelle situazioni in cui non ti rilassi nemmeno per un attimo. Pensavo che prima di uscire di li avremmo potuto trovarci nei guai. Capii in quel momento che Truman faceva i conti con quella situazione ogni minuto di ogni giorno della sua vita – non rinunciava a essere se stesso. Ed era pronto ad assumersi il rischio. Era la cosa che più mi colpiva di lui.
E qual è il nemico più ostinato? La vanità?
Può rischiare di farti sprofondare. Pensiamo al povero Truman. Il suo atteggiamento divenne, Se non vengo riconosciuto finché vivo significa che sta succedendo qualcosa di assolutamente orribile nella società. E quel tipo di vanità è qualcosa che dobbiamo affrontare tutti con grande attenzione. Può rischiare di distruggere molti di noi. Vede, bisogna essere in grado di espirare, semplicemente espirare e dire, Perché non lasciamo che sia la storia a decidere?

Numero 181, 2007

BIOGRAFIA
Norman Mailer (1923–2007) è nato a Long Branch, nel New Jersey. Si specializzò in ingegneria ad Harvard, dove studiò anche scrittura creativa. Poco dopo la laurea, nel 1943, venne chiamato alle armi. Il suo primo romanzo, Il nudo e il morto (1948), che ritrae le sue esperienze di guerra, fu candidato al Pulitzer e rimase nella classifica del New York Times per più di un anno, rendendolo una celebrità letteraria a soli venticinque anni. Per decenni è stato un prolifico scrittore di romanzi, poesia, biografie, sceneggiature, saggi, giornalismo politico, pubblicando per vari periodici fra cui Esquire, Dissent, Partisan Review e Village Voice di cui fu cofondatore nel 1955. È stato una figura chiave per il movimento del New Journalism, che applicava le tecniche della narrativa alla saggistica. Tra le sue opere: Un fuoco sulla luna (1971), Il prigioniero del sesso (1971), Marilyn (1973) e Il match (1975). Nel 1968 gli venne conferito il National Book Award e il Pulitzer per la saggistica grazie a Le armate della notte, cronaca in terza persona del suo coinvolgimento nel movimento contro la guerra, e nel 1980 vinse un secondo Pulitzer con Il canto del boia. Nel 2005 la National Book Foundation gli conferì la Medal for Distinguished Contribution to American Letters. Andrew O’Hagan è romanziere e saggista, e vive a Londra. Scrive per la London Review of Books e per The New York Review of Books.