Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 21/02/2013, 21 febbraio 2013
CONDANNA A MORTE SOSPESA. LE TRE VITE DI WARREN HILL
Sapere che è tutto stabilito, il giorno e l’ora: che hai un mese di vita, poi una settimana, poi una giornata, poi un pomeriggio, poi solo una serata e un pasto in solitudine, infine un’ora, solo un’ora prima che ti facciano la puntura letale per mandarti all’altro mondo. E allo scoccare dell’ora che ti separa dalla morte, quando già ti hanno sedato e sei mezzo morto ma non ancora del tutto, succede qualcosa in cui più non potevi sperare, anche se lo sapevi che fuori urlavano e manifestavano contro la pena di morte, che si erano mobilitate le associazioni per la difesa dei diritti umani, che anche l’ex presidente Jimmy Carter aveva lanciato un appello, che il New York Times aveva scritto editoriali in tua difesa e che — te l’avevano detto gli avvocati — persino i parenti della tua vittima avevano chiesto un gesto di indulgenza.
È successo all’afroamericano Warren Hill, che ha passato quasi metà dei suoi 52 anni nel penitenziario di Augusta, Georgia, Stati Uniti, prima condannato all’ergastolo per avere ucciso la fidanzata, poi, nel 1992, all’esecuzione capitale per avere ammazzato un compagno di cella. È successo che appena tre ore prima la Corte Suprema aveva respinto l’ultima richiesta di salvargli la vita in quanto disabile, con un quoziente intellettivo del 70 per cento. Infatti dal 2002 la legge americana è diventata più clemente per le persone con ritardi mentali e ha stabilito di escluderle dalle esecuzioni. Poi, in extremis, la Corte ci ha ripensato e ha sospeso la condanna, così Warren Hill è uscito dal sopore, ha sollevato le palpebre e non ha creduto ai suoi occhi neri quando ha capito che doveva essere ancora vivo, sempre lì nel braccio della morte, se respirava come i vivi e poteva persino parlare e magari ricominciare a sperare che la sospensione diventasse definitiva. Perché il suo quoziente intellettivo non gli ha certo compromesso la capacità di sperare.
E siccome la condanna a morte e il quoziente intellettivo ridotto non ti cancellano neanche l’umanità, per l’ennesima volta hai rivissuto istante per istante tutti gli sbagli che hai fatto e che non puoi negare di aver fatto. E siccome i ricordi non può toglierteli nessuno, hai anche ripensato a quel che già era successo in luglio, quando esattamente un’ora prima, come questa volta, i giudici ci avevano ripensato, in extremis, e sei uscito dal sonno e ti sei ritrovato vivo mentre pensavi di svegliarti nell’altro mondo. E siccome il tuo 70 per cento non intacca neanche il risentimento, hai urlato con tutta la rabbia che la crudeltà non è soltanto quell’iniezione fatale ma sono anche i preparativi e l’attesa di quel momento: il congedo dagli altri detenuti, il sarto che viene a prenderti le misure per la sepoltura, l’ultimo incontro con gli avvocati e con i parenti, l’ultimo pasto con le uova fritte e le patate, l’ultima rasatura (i baffi te li hanno lasciati), l’ultima doccia, l’ultimo cambio degli abiti, la lettiga, il catetere, il sonno che arriva lento pensando che sia l’ultimo anche quello. E visto che le ultime cose della tua vita le hai già vissute due volte, anche se sei disabile mentale pensi che se davvero ci fosse una giustizia non dovresti viverle più.
Paolo Di Stefano