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 2013  febbraio 21 Giovedì calendario

2 articoli - LA RESA DI GIANNINO. LASCIA LA GUIDA DI FARE (MA RESTA CANDIDATO) — Una riunione «carbonara» durata quasi cinque ore, un leader che rassegna dimissioni irrevocabili (e però resta candidato premier) e una nuova presidente

2 articoli - LA RESA DI GIANNINO. LASCIA LA GUIDA DI FARE (MA RESTA CANDIDATO) — Una riunione «carbonara» durata quasi cinque ore, un leader che rassegna dimissioni irrevocabili (e però resta candidato premier) e una nuova presidente. Giovane, spigliata, fascinosa. È l’epilogo del caso Oscar Giannino, una storia che sta vivacizzando gli ultimi giorni di campagna elettorale e interrogando gli italiani sulla natura dei nostri politici e sugli insondabili risvolti dell’animo umano. La carta a sorpresa con cui Fare prova a riconquistare i potenziali elettori è un «semplice avvocato» ligure di 36 anni, che a tre giorni dal voto si ritrova sulla ribalta con l’incarico di coordinatore nazionale, le deleghe di presidente e il compito di traghettare i «fattivi» fino al congresso. Si chiama Silvia Enrico, è laureata in Giurisprudenza a Genova col massimo dei voti, non ha master e il suo look è appena meno eccentrico di quello del predecessore: pantaloni a sigaretta tempestati di strass, scarpe d’argento modello duilio e pelliccia grigio piombo, all’apparenza poco ecologica. Si occupa di diritto societario ed è socia dello studio «4Legal» di Genova, che si definisce «boutique di consulenza legale». Fresca di elezione, è subito a suo agio nella parte: «Basta, che non sono fotogenica! Oscar? È molto amareggiato, noi però non ci vergogniamo di lui. Resta il nostro candidato, saranno gli elettori a giudicarlo». Dall’India Michele Boldrin gli rivolge parole di affetto: «Oscar ha fatto errori, ma non ha nipoti di Mubarak nel curriculum. È stata una debolezza umana, si è costruito un personaggio... Io però gli voglio tanto bene e so che dobbiamo stargli vicino». Il messaggio di «addio» del fondatore arriva via Twitter, rilanciato 1200 volte: «Dimissioni irrevocabili da presidente — scrive Giannino —. I danni su di me per inoffensive ma gravi balle non devono nuocere a Fare2013». Sono le tre, l’Hotel Diana è assediato da cronisti, cameramen e fotografi, ma il giornalista che si spacciò per economista li dribbla tutti, corre alla stazione Termini e sparisce dentro un treno per Milano. Stanco, affranto, ma deciso a smentire di aver mollato per fare un favore a Berlusconi: «Vero niente!». Dopo il fattaccio le simpatie di Monti nei suoi confronti sono aumentate e anche sul web c’è chi lo difende, ma giudizi critici e ironie si moltiplicano in modo esponenziale e salta fuori un’intervista al Foglio, novembre 2009, in cui Giannino racconta di aver cantato allo Zecchino d’Oro. Vero o falso? Negli atti del celebre concorso canoro il suo nome non c’è, a suo tempo Oscar disse di avervi partecipato, per ragioni familiari, «con le generalità di un altro parente». A sera, alle «Invasioni barbariche», giura: «Ho preso la maturità con il massimo dei voti. Avevo 9 e 10, le pagelle ce le ha mia madre...». E adesso sulla rete, oltre a battute (come «Giannetto mitomane perfetto») circolano anche veleni sulla veridicità della sua malattia, per la quale da anni si dedica ai pazienti terminali. Giannino presenta dimissioni irrevocabili e i diciotto membri dell’organismo le accolgono. Il candidato premier offre anche la rinuncia al seggio, ma qui il parlamentino respinge il bel gesto. La discussione è a tratti aspra, la porta della sala conferenze resta sbarrata per ore, i giornalisti vengono allontanati con scuse di ogni genere: «La direzione è saltata, quando si riunirà ve lo faremo sapere». Dentro c’è tensione, preoccupazione. Finché il professor Luciano Mauro propone che sia la Enrico a ereditare la «pesante croce» di Giannino. Perché proprio lei? «Perché è brava, molto brava. L’idea è stata di mia moglie...». Ai tempi della politica spettacolo, un leader può anche nascere così. Monica Guerzoni SE L’INTELLIGENZA CADE NELLA TRAPPOLA DI UN EGO DA ESIBIZIONE - Molti dei fondatori di Fare per Fermare il declino, economisti di punta, conosceranno la legge di Gresham: quando una moneta sopravvalutata e una sottovalutata coesistono nello stesso spazio, la prima prevale sulla seconda. La moneta cattiva scaccia quella buona. A questo punto però qualcuno dovrebbe tradurre il principio nei termini, più feroci, della lotta politica. Magari suonerebbe così: intelligenza sopravvalutata scaccia la sottovalutata, l’ego scaccia il cervello, la creatività, l’efficacia delle buone idee. Va subito detto che niente di tutto questo si applica a Oscar Giannino, per il quale vale piuttosto una legge più tipicamente italiana: quanto meno è grave la marachella e meno forte il suo autore, quanto più spietato è il dileggio, più lunghi e compiaciuti i chiacchiericci sul conto dell’interessato (specie alle spalle), più alto il prezzo che questi finisce per pagare. Per un diploma di studi mai preso, Giannino si è dimesso in un Paese nel quale ogni giorno constatiamo ben altre deficienze individuali e menzogne. Lo ha fatto conoscendo ciò di cui parla meglio di tanti che il master lo hanno preso davvero, magari solo perché i genitori potevano pagarlo. E come dimenticare che c’è chi rifiuta di dimettersi per molto di più, senza che ciò sorprenda in alcun modo. A nessuno, forse neanche a quelli di Fermare il declino, verrebbe mai in mente di chiedere a un Denis Verdini («politico e banchiere» secondo Wikipedia; indagato per truffa aggravata ai danni dello Stato, secondo le Procure) di lasciare una qualsivoglia posizione solo per un’eventuale bugia su un master. Sanno tutti che non lo farebbe, e questo basta. La spiegazione, anch’essa tipicamente nazionale, è che Verdini ha posizionato la sua asticella più in basso ed è su quella che implicitamente chiede al mondo di essere misurato: lui non parla di trasparenza, di meritocrazia, di riforma radicale della politica e del rapporto con le banche. Ma, appunto, tutto questo non basta a capire. Le dimissioni di Giannino e ancor più le polemiche che le hanno precedute, dentro e fuori il suo movimento, lasciano gli spettatori come con un vuoto logico. È possibile in questo Paese avere idee coraggiose e originali senza sentirsi in dovere di obbligare gli altri a pensare che sei un genio? È possibile essere intelligenti senza avere un ego così vasto da tenere a distanza le maggioranze alla quale si chiede il voto? Ripetuti esperimenti nella storia repubblicana inducono a sospettare che non sia facile. Dove c’è intelligenza, com’è certamente il caso di Fare, si rileva spesso anche una concentrazione di ego nella quale un master mai preso funziona come una prevedibile scintilla in un pagliaio d’estate. Fosse vero anche stavolta, sarebbe un peccato. Tipicamente italiano è anche il malcostume di attaccare le persone per non doversi confrontare con le idee scomode che esse portano. Nessuno, con master o no, dovrebbe facilitare la pratica di questo vecchio vizio. Federico Fubini