Carlo Verdelli, la Repubblica 19/2/2013, 19 febbraio 2013
L’ITALIA CHE IGNORA L’ESEMPIO DI BILL GATES
E poi ci sono uomini come Bill Gates. Da ragazzi inventano Microsoft, diventano in fretta i più ricchi del pianeta, capiscono però che, anche per loro, la vita è una sola.
E così, a 45 anni, se ne inventano un’altra, apparentemente opposta. Se la missione della prima vita è stata cambiare il mondo guadagnandoci, la missione della seconda è cambiare il mondo restituendo parte di quel tantissimo che ci si è messi in tasca. Nel 2000, insieme alla moglie Melinda, apre una fondazione per fare del bene nei Paesi dove si sta male. A fronte di un patrimonio personale intorno agli 80 miliardi di dollari, quasi un terzo lo mette nell’impresa. Non solo: ci si dedica a tempo pieno, lasciando completamente ogni incarico in Microsoft (compare solo in brevi saluti via video alle convention annuali a Redmont, il quartier generale, nello Stato di Washington). E anche se, periodicamente, c’è chi lo accusa di essere il campione della carità pelosa da multinazionale, oggi la sua fondazione, Bill e Melinda Gates, ha più di mille impiegati, sei sedi (da Seattle a Pechino), una potenza d’intervento umanitario che non ha paragoni e una bussola elementare: «Tutte le vite hanno uguale valore».
Per inaugurare il 2013, Bill Gates ha mandato un messaggio ai Grandi della Terra in nome e per conto dei Piccoli. «La vita dei diseredati del mondo ha fatto più progressi negli ultimi 15 anni di quanto fosse mai accaduto in passato. Nuovi e meno costosi farmaci contro l’Hiv, creazione di sementi che permettono agli agricoltori poveri di produrre di più. Buonissime notizie, come il fatto che alcuni Paesi, dal Regno Unito all’Australia, stanno aumentando i loro fondi per gli aiuti internazionali. Altri però, come Giappone e Olanda, li hanno ridotti. Per altri ancora, come Stati Uniti, Francia e Germania, la direzione non è chiara». E l’Italia, signor Gates? L’Italia non viene nemmeno nominata, per nostra fortuna.
Qualche giorno fa, la Corte dei conti ha stimato in 300 milioni di euro gli sprechi e le frodi del 2012, mettendo insieme, a mucchio, il giro di mazzette nelle camere mortuarie di Milano, il mancato collegamento Termoli-Croazia e i danni ai turisti del costosissimo e scivolosissimo ponte di Calatrava a Venezia. Detto che 300 milioni sono un calcolo clamorosamente per difetto, rappresentano comunque una cifra che fa impallidire gli 86 milioni messi a bilancio dall’Italia nella Finanziaria 2012 per le attività cosiddette “umanitarie”. Per il 2013 si salirà a 228 milioni. Un’inversione di tendenza, è indubbio, rispetto a quanto non fatto fino a oggi. Ma pur sempre una miseria, incivile e miope.
Il primo aggettivo si spiega da solo. Il secondo ha a che fare con la nostra reputazione all’estero. Nel 2005 l’Europa si era presa un impegno: destinare lo 0,7 per cento del Pil in aiuti allo sviluppo per quella parte di mondo che senza aiuti, e senza sviluppo, non ha speranze. Secondo gli ultimi dati disponibili, rispetto ai contributi previsti, siamo sotto del 40 per cento. E uno dei maggiori colpevoli di tanto ammanco è proprio l’Italia, con il suo 0,19 per cento, che è poi un dato sospetto perché mette nel conto anche capitoli di spesa impropri come i costi per l’accoglienza dei profughi o il taglio dei debiti a Paesi impossibilitati a restituirli. Il nostro contributo “vero”, quindi, si aggirerebbe intorno allo 0,13 per cento del Pil: 2 mila 110 milioni di euro, la gran parte dei quali (1500 milioni) sono però trasferimenti “obbligatori” al Fondo di Sviluppo della Ue e il resto diviso in tanti rivoli senza un coordinamento centrale e trasparente (missioni di pace, accordi bilaterali, contributi a banche multilaterali eccetera).
Peggio di noi, solo la Grecia. In termine di immagine, una picconata alla nostra credibilità, meno eclatante dell’epopea del bunga bunga o del naufragio di coraggio e di pudore della Costa Concordia, ma non meno devastante. Vero, l’Italia è in recessione profonda. Vero anche che ha un debito pubblico che ormai sfiora i 2 mila miliardi e che tutti gli indicatori danno la situazione in ulteriore peggioramento. Ma è altrettanto vero che gli “aiuti” sono una parte talmente minima dei bilanci che ridurli non ha alcun impatto sul deficit: è come tagliarsi i capelli per cercare di perdere peso. In compenso, secondo Oxfam International, una delle maggiori Organizzazioni non governative, «i 2 miliardi e mezzo di euro che mancano all’appello per insolvenze dell’Unione europea basterebbero per pagare un anno di cure a metà dei bambini del mondo malati di Aids». Con mille euro si salva un bambino. Con mille euro in meno non si salva un bambino.
L’Italia non ha fatto questo calcolo o l’ha fatto male. Tra il 2008 e il 2012, il governo Berlusconi ha privilegiato altre emergenze, conquistando così la palma di Paese europeo col più alto spread tra aiuti promessi e promesse mantenute. Qualcosa, col governo Monti, timidamente ha cominciato a cambiare. Per esempio, c’è stato per la prima volta un ministro per la Cooperazione, sia pure senza portafoglio. I fondi in Finanziaria sono aumentati, come dicevamo, a 228 milioni (ma nel 1997 erano 700 milioni). Poi siamo entrati in campagna elettorale e l’argomento, già non esattamente alla ribalta, si è disperso in tanti fiumi carsici, attivissimi sulla rete ma di fatto invisibili alle platee record di Sanremo, alle folle sgomente per le dimissioni del Papa, agli italiani frastornati dagli arresti nella grande industria e nella grande finanza.
Eppure, nel 2014, ovvero dopodomani, ci aspetta il semestre di presidenza dell’Unione europea e non sarebbe un buon viatico presentarsi con la macchia del Paese più sordo alla richiesta di aiuto di chi non ha possibilità di aiutarsi da solo. La politica del fare del bene non è soltanto un tranquillante per la coscienza. «Se gli elettori non saranno informati dell’impatto positivo che può avere, che sta già avendo, la loro generosità, inevitabilmente si concentreranno su cose a loro più vicine». Un consiglio, anche ai leader italiani, firmato Bill Gates.