Giuseppe Scaraffia, Il Sole 24 Ore 17/2/2013, 17 febbraio 2013
QUELLE CATTIVE «SIGNORINE»
«Una cocotte... / Che vuol dire mammina?/ "Vuol dire che è una cattiva signorina..." / Co-co-tte... La strana voce parigina / dava alla mia fantasia bambina / un senso buffo d’uovo e di gallina», scherzava Guido Gozzano. Cocotte nel senso di "donna dai costumi leggeri" appariva già in un Cahier des plaintes et doléances del 1789, quando, con la rivoluzione, la leggerezza di costumi tipica del Settecento raggiunse il suo vertice. Però bisognò attendere un’altra epoca di licenza, il Secondo Impero, perché prevalesse su altri sinonimi. Nelle Excentricités du langage, Lorédan Larchey la definisce apertamente «donna galante. – Una volta si diceva gallinella».
Ma è la dolcezza gorgogliante della parola, talmente prossima a coquette, che bisogna ascoltare, come dimostra un delizioso libro splendidamente illustrato, di Catherine Guigon. Le bellissime protagoniste sono le donne che, cortigiane, artiste o semplicemente disinvolte, avevano saputo capovolgere il rapporto con gli uomini in una società ostile all’emancipazione.
Nude o vestite, non erano mai volgari, ma sapevano imporre le loro regole ai maschi più arroganti. Certo non era facile. Per la leggiadra Liane de Pougy, «una cortigiana non deve mai piangere, non deve mai soffrire. Deve soffocare ogni tipo di sentimentalismo e deve recitare senza sosta la parte di un’eroina».
Colette si faceva fotografare in succinti costumi orientaleggianti, a metà tra Matha Hari e la vamp Theda Bara. Ma non esitava neppure, malgrado i larghi fianchi, a vestirsi da uomo. Nessuna quanto lei sapeva passare dal nudo al travestimento rinnovandosi continuamente, senza perdere un grammo del suo fascino e del suo prestigio letterario. Tradita dall’anziano marito, Colette si era data allo spettacolo. Sulle scene era stata una delle prime a sostituire il nudo alla tradizionale calzamaglia rosa. Sul palcoscenico di La carne, a un tratto la tunica della scrittrice veniva lacerata da uno strappo sapiente, liberando il seno. Molti anni dopo Maurice Chevalier ricordava: «Aveva un seno pesante, pieno... il più appetitoso del mondo».
Dietro le quinte l’attendeva la sua amante del momento, Missy, Mathilde de Morny, celebre per le sue ascendenze napoleoniche, quanto per la sua abitudine a vestirsi e comportarsi da uomo. Solo quando Missy si era azzardata a recitare una scena d’amore con Colette gli spettatori avevano reagito, prima insultando le due donne, poi aggredendo il marito della scrittrice, Willy.
Le cocottes si muovevano senza imbarazzo tra i due sessi. Le più audaci mettevano alla prova il loro fascino con degli omosessuali. La piccante Laure Hayman, amante del padre e dello zio di Proust, fece provare al giovane Marcel sensazioni inedite. L’impavida Liane de Pougy, dopo essere riuscita per una volta a sedurre il compagno di Proust, Reynaldo Hahn, ne fece il suo confidente. Alle feste della bellissima Natalie Barney, l’ereditiera americana che regnava sulla comunità saffica di Parigi, l’attenzione di tutti era stata catturata dal l’arrivo, tra le quinte di verzura, di Mata-Hari, interamente nuda su un cavallo bianco bardato di turchesi. D’altronde Mata-Hari era un’ottima cavallerizza. Ogni mattina montava al Bois de Boulogne un cavallo grigio pomellato, vestita come un’amazzone del Secondo Impero, con un velo svolazzante dal cilindro e la gonna drappeggiata.
La facilità delle cocottes non era arrendevolezza, ma spregiudicatezza. «Dicono che la bellezza è una promessa di felicità. Inversamente la possibilità del piacere può essere un inizio di bellezza», notava Proust. La Barney, che puntualizzava: «Se qualche volta arrossisco è di piacere», non amava le donne mascoline: «Perché cercare di somigliare ai nostri nemici?». Anche se non aveva esitato a travestirsi da paggio per penetrare in casa di Liane de Pougy e sedurla.
Spesso amiche, potevano diventare acerrime rivali. A Montecarlo, la bella Otero per eclissare la rivale Liane de Pougy si presentò al Casinò coperta di sontuosi gioielli. Liane, informata delle intenzioni dell’Otero, entrò nella sala per ultima, accompagnata da una donna piccola e brutta letteralmente coperta di diamanti. Lei, in un abito nero semplicissimo, avanzò verso la bella Otero e, indicando la donna, disse: «Le presento la mia cameriera. Le faccio portare i miei gioielli e le mie valige.»
Tra le debuttanti dell’Opera, insidiate da maturi signori, era impossibile non notare la virginale avvenenza di Cléo de Merode. «Io ero al singolare, e le altre al plurale». Apparentemente assorta in un sogno lontano da ogni carnalità, aveva sedotto ricchi e potenti, come Leopoldo del Belgio, non a caso soprannominato Cléopoldo.
Al grande Cecil Beaton, che la fotografò quando era ormai quasi novantenne, Cléo de Mérode raccomandò: «Ricordatevi, sono molto civetta. Mi promettete di distruggere le foto venute male?».