Donald Hall, The Paris Review vol. 4 (Numero 28, 1962), Fandango Libri, Milano 2012, 20 febbraio 2013
EZRA POUND L’ARTE DELLA POESIA
[biografia alla fine]
Da quando è tornato in Italia, Ezra Pound è rimasto perlopiù in Tirolo, nel castello di Brunnenburg con la moglie, la figlia Mary, il genero, il principe Boris de Rachewiltz, e i nipoti. Peccato che le montagne del meranese siano fredde d’inverno e che Ezra Pound ami il sole. A fine febbraio, l’intervistatore stava per partire dall’Inghilterra alla volta di Merano, quando sulla porta ricevette il seguente telegramma: “Merano bloccata dal ghiaccio. Venga a Roma”.
A Roma Ezra Pound era da solo e alloggiava a casa di Ugo Dadone, un suo vecchio amico. Era l’inizio di marzo e faceva un caldo eccezionale per la stagione. Imposte e finestre della camera d’angolo erano spalancate sui rumori di via Angelo Poliziano. L’intervistatore si accomodò su una grande poltrona mentre Ezra Pound si spostava di continuo da una poltrona al divano e dal divano alla poltrona. La sua presenza nella stanza si riassumeva in due valigie e tre volumi: i Cantos di Faber, un Confucio e l’edizione Robinson di Chaucer che stava rileggendo.
Nelle ore conviviali della serata cena da Crispi, un tour nei luoghi del suo passato, un gelato in un caffè Ezra Pound camminava con il vigore spavaldo di un giovanotto. Il grande cappello, il solido bastone, la sciarpa gialla buttata addosso con nonchalance, e il cappotto portato a mantello, era ancora il leone del quartiere latino. Poi venne fuori la sua grande mimica e le risate gli animarono la barba grigia. Durante le ore diurne dell’intervista, che durò tre giorni, Ezra Pound parlava con attenzione, e a volte le domande lo sfinivano. E il mattino seguente, appena l’intervistatore si ripresentava, era impaziente dì rivedere le imprecisioni del giorno prima.
Donald Hall, 1962
I Cantos sono in dirittura d’arrivo e questo mi porta a chiederle come hanno avuto inizio. In una lettera del 1916, lei parlava del tentativo di scrivere una versione di Andreas Divus con i ritmi di The Seafarer. Sembra tanto un’allusione al Canto I. Cominciò i Cantos nel 1916?
Ho cominciato i Cantos verso il 1904, mi pare. Avevo diversi schemi quando iniziai, nel 1904 o 1905. Il problema era trovare una forma, qualcosa di abbastanza elastico che potesse contenere il materiale necessario. Doveva essere una forma che non avrebbe mai escluso nulla solo perché non ci stava. Negli abbozzi iniziali, la prima stesura di quello che sarebbe stato il primo Canto era al terzo posto.
Naturalmente non e’era una bella cartina come quella del Paradiso nel Medioevo. Solo una forma musicale avrebbe potuto contenere il materiale, e l’universo confuciano, come lo vedo io, è un universo di forze e tensioni che interagiscono fra loro.
Il suo interesse per Confucio cominciò nel 1904? No.
Innanzitutto c’erano sei secoli che non erano stati mai presi ed elaborati, si trattava di materiale che non era presente nella Divina Commedia. Hugo aveva fatto una Légende des Siècies che non aveva un taglio valutativo, erano soltanto pezzi di storia legati insieme. Il problema era costruire un cerchio di riferimento, portare la mentalità moderna a essere medievale, con tutte le lavate di cultura classica che erano arrivate dal Rinascimento in poi. Questa era la psiche, se preferisce. Bisognava confrontarsi con il proprio soggetto.
Devono essere passati trenta o trentacinque anni da quando ha scritto una poesia che non fosse inclusa nei Cantos, a parte le poesie di Alfred Venison. Come mai?
Sono arrivato al punto in cui, a parte un impulso occasionale più leggero, quello che avevo da dire rientrava nello schema generale. Avevo dovuto buttar via un bei po’ di lavoro, perché capita di trovare un personaggio storico che ti intriga e poi di scoprire che non aderisce alla tua forma, che non incarna un valore necessario. Ho cercato di rendere storici i Cantos (si veda G. Giovannini sulla relazione della storia con la tragedia. Due articoli a distanza di dieci anni su qualche rivista filologica, non fonti di riferimento, ma pur sempre importanti), e non narrativi. Il materiale che si vuole inserire non sempre funziona. Se la pietra non è abbastanza dura per mantenere la forma, va scartata.
Quando scrive un canto, adesso, come lo progetta? Segue un particolare percorso di lettura per ciascuno?
Non necessariamente, io lavoro sulla vita che mi è data. Del metodo non so dirle. Il cosa è molto più importante del come.
Eppure quando era giovane il suo interesse per la poesia si concentrava sulla forma. La sua competenza e la sua devozione per la tecnica divennero proverbiali. Negli ultimi trent’anni lei è passato da un interesse per la forma a un interesse per il contenuto. Uno scambio di principio?
Credo di aver trattato la forma a sufficienza. La tecnica è la cartina al tornasole della sincerità. Se una cosa non è ali’altezza della tecnica usata per esprimerla, vuoi dire che è di valore inferiore. Tutto questo deve essere considerato come un esercizio. Vede, Richter nel suo Trattato d’armonia scrive: “Sono questi i principi di armonia e contrappunto; non hanno niente a che vedere con la composizione che è un attività completamente a sé stante”. Qualcuno ha detto che non si possono scrivere canzoni provenzali in inglese, ma non è così. Se poi fosse consigliabile o meno, quella era un’altra storia. Quando non c’era ancora il principio di lingua naturale senza inversione, le forme naturali erano quelle e venivano create con la musica. In inglese la musicalità ha una natura limitata. Abbiamo la perfezione francese di Chaucer, la perfezione italiana di Shakespeare, abbiamo Campion e Lawes. Non credo di essermi cimentato con quel tipo di forma fino a quando non sono arrivato ai cori delle Trachinie. In realtà, non so se ero approdato a qualcosa, ma ho pensato che fosse un estensione del gammaùt. Può essere una mia illusione. L’attenzione ruotava sempre intorno ali’implicazione di cambio di tono nell’unione di motz et son, della parola e della melodia.
Il suo interesse tecnico si è esaurito nel comporre i Cantos, oppure tradurre, come nel caso delle Trachinie che ha appew citato, la appaga dandole altro lavoro di battitura?
Quando vedi che c’è un lavoro da fare, lo fai. Alle trachinie sono approdato grazie a un reading del teatro No di Fenollosa per la nuova edizione, spinto dal desiderio di vedere cosa succederebbe a una tragedia greca se sfruttasse quello stesso mezzo con la speranza che venisse messa in scena dalla compagnia Minorou. Vedere Cathay in greco – che sembrava poesia ha stimolato correnti trasversali.
Crede che il verso libero sia una forma particolarmente americana? Immagino che per William Carlos Williams probabilmente sia cosi, che consideri il giambico squisitamente inglese.
Per citare una frase di Eliot a me molto cara, “Nessun verso è libre per colui che vuole un lavoro ben fatto”. Penso che il miglior verso libero sia frutto di un tentativo di ritornare al metro quantitativo.
Immagino possa essere non-inglese senza per questo essere specificatamente americano. Ricordo Cocteau che suonava la batteria in un gruppo jazz come se fosse un astruso problema di matematica.
Le dirò una cosa, una forma veramente americana è la parentesi jamesiana. Ti accorgi che la persona alla quale stai parlando non ha colto tutti i passaggi e ci ritorni sopra. Di fatto l’uso della parentesi jamesiana è aumentato moltissimo oggigiorno. Credo che sia qualcosa di molto americano. L’enorme sforzo che si fa quando si incontra un’altra persona che ha parecchia esperienza è trovare un punto d’incontro fra le due esperienze, in modo che l’altro capisca veramente di cosa stiamo parlando.
La sua opera comprende una vasta gamma di esperienza, oltre che di forma. Qual è secondo lei la qualità più grande per m poeta? Parliamo di forma oppure di qualità del pensiero?
Non so se le qualità necessario possano essere messe in ordine gerarchico, ma il poeta deve avere una curiosità continua che naturalmente non fa di lui uno scrittore, ma senza la quale inaridirà. E per riuscirci deve avere un’energia costante. Un uomo come Agassiz non è mai stufo, non è mai stanco. Il passaggio dalla ricezione degli stimoli alla registrazione, alla correlazione, è questo che richiede l’energia di una vita.
Crede che il mondo moderno abbia cambiato il modo di scrivere poesia?
Non c’è mai stata competizione come adesso. Prenda il lato serio di Disney, l’aspetto confuciano di Disney. Nell’aver saputo cogliere un ethos, come in Ferri, quel film dello scoiattolo, dove i valori di coraggio e tenerezza sono espressi in modo comprensibile a tutti. E genialità assoluta. C’è un legame con la natura che non era così stretto dai tempi di Alessandro Magno. Alessandro Magno aveva ordinato ai pescatori che se avessero scoperto qualcosa di interessante sui pesci, qualcosa di particolare, avrebbero dovuto informare Aristotele. E quel rapporto fece evolvere l’ittiologia al livello scientifico in cui si è poi attestata per duemila anni. Oggi, la cinepresa permette una grandissima correlazione di particolari. Quella capacità di entrare in contatto è una sfida straordinaria per la letteratura, solleva la questione su ciò che è necessario fare e ciò che invece è superfluo.
Forse è anche un’opportunità. Quando era giovane, in particolare, e anche nel corso dei Cantos, lei ha cambiato in continuazione il suo stile poetico, non si è mai accontentato. Era un tentativo consapevole di ampliare il proprio stile? L’artista ha bisogno di andare sempre avanti?
Penso che l’artista debba sempre andare avanti. Cercare di raccontare la vita senza annoiare la gente e provare a mettere sulla carta quello che vede.
Mi chiedo cosa pensa dei movimenti contemporanei. I suoi commenti sui poeti risalgono tuttalpiù a Cummings, da quello che mi risulta, a parte Bunting e Zukofsky. Immagino che sia stato preso da altro.
Non si può leggere tutto. Immerso com’ero nelle mie indagini storiche, non riuscivo a vedere nient’altro. Non credo ci sia mai stato nessuno che abbia potuto criticare chi è venuto dopo di lui. Dipende semplicemente dal numero di letture che si possono fare.
Non so se sia sua o una di quelle perle che aveva sentito altrove, ma tra le cose che Frost disse a Londra nel 1912 – o che anno era – c’era questa: “Compendio di preghiera: ’Oh Dio, fai attenzione a me”. Ed è proprio questo l’approccio dei giovani autori, non alla divinità ovviamente! E in generale ci si deve limitare a quei giovani poeti a loro volta raccomandati da almeno un altro giovane poeta che fa loro da garante. Ovviamente un andazzo del genere potrebbe portare alla congiura, ma comunque sia... Quanto a criticare i più giovani, non si ha il tempo di fare una valutazione comparativa. S’impara dagli altri, ci si misura a vicenda. In questo momento vedo fermento ma... in generale c’è senz’altro una certa vitalità. E Cal [Robert] Lowell è molto bravo.
Lei ha passato la vita a consigliare i giovani. C’è qualcosa ^particolare che vorrebbe dire alle nuove leve?
Di affinare la loro curiosità e di non fingere. Ma non baita. Non basta buttare lì i propri mal di pancia e i propri stati d’animo. Come recitava il motto della rivista studentesca Punchbowl dell’Università di Pennsylvania: “Qualsiasi emerito stupido può essere spontaneo”.
Una volta ha scritto di aver avuto quattro utili dritte da maestri ancora viventi quali Thomas Hardy, William Butier Yeats, Ford Madox Ford e’Robert Bridges. Quali erano questi consigli?
Quello dì Bridge era il più semplice: mi metteva in guardia dalle omofonie. Quello di Hardy riguardava il grado di concentrazione sul soggetto, più che sul modo. Quello di Ford, in generale, era sulla freschezza del linguaggio. E lei dice che il quarto era Yeats? Beh, Yeats nel 1908 aveva scritto semplici poesie in cui non si discostava molto dall’ordine naturale delle parole.
Lei ha fatto da segretario a Yeats nel 1913 e nel 1914. Che tipo di cose faceva per lui?
Perlopiù leggere a voce alta. The Dawn in Britain di Doughty e cose così. E discutere. Gli irlandesi adorano il contraddittorio. A quarantacinque anni si era messo in testa di imparare a tirare di scherma, il che era spassoso. Affondava dì fioretto con la leggerezza di una balena. A volte dava l’impressione di essere ancora più scemo di me.
C’è una disputa accademica a proposito della sua influenza su Yeats. Lavorava con lui alle sue poesie? Ne ha mai tagliata qualcuno come ha fatto con La terra desolata?
Non credo di ricordare niente del genere. Gli avrò sicuramente obiettato qualche particolare espressione. Una volta, a Rapallo, cercai in tutti i modi di non fargli stampare una cosa, gli dissi che faceva schifo, e lui la stampò lo stesso con una prefazione in cui spiegava che io avevo detta che faceva schifo.
Ricordo quando Tagore sì era messo a fare disegnini a margine delle sue bozze e gli dissero che quella era arte. Ci fecero pure una mostra a Parigi. “È arte questa?” Nessuno era molto entusiasta di quegli schizzi, ma ovviamente gli mentirono tutti.
Quanto al cambiamento di Yeats, credo che Ford Madox Ford possa averlo influenzato. Yeats non avrebbe mai chiesto consiglio a Ford, ma credo che Fordie l’abbia aiutato, attraverso me, ad arrivare a un modo naturale di scrivere.
Qualcuno l’ha mai aiutata nel suo lavoro tanto quanto lei ha fatto con gli altri? Con critiche o tagli, intendo.
A parte Fordie, che si rotolava indecorosamente per terra e si teneva la testa fra le mani e a volte grugniva, non penso che qualcuno mi abbia aiutato con i miei manoscritti. La roba che Ford scriveva all’epoca sembrava troppo slegata, ma lui sferrò una lotta contro gli arcaismi scolastici.
Lei è stato associato ad artisti visivi quali Gaudier-Brzeska eWyndham Lewis che gravitavano nel movimento vorticista, e poi più tardi anche a Picabia, Picasso e Branchi. Questo l’ha influenzata come scrittore?
Non credo. Si guardavano i quadri di un museo, pensando di aver trovato qualcosa. La mia poesia “Una partita a scacchi” mostra l’influenza dell’arte astratta moderna, ma il verticismo, dal mio punto di vista, era un rinnovamento del senso della costruzione. Il colore era diventato smorto e Manet e gli impressionisti lo avevano rianimato. Poi quello che chiamo il senso della forma si era fatto confuso, e il verticismo, diversamente dal cubismo, era diventato il tentativo di rivitalizzare il senso della forma, la forma del De prospectiva pingendi di Piero della Francesca, il suo trattato sulle proporzioni e sulla composizione. Ero stato iniziato all’idea della forma comparativa ancora prima di lasciare l’America. Un tizio di nome Poole aveva scritto un libro sulla composizione. Quando arrivai a Londra qualche idea in testa ce l’avevo e avevo sentito Catullo prima della poesia francese moderna. C’è un po’ di biografia che andrebbe rettificata.
Mi sono chiesto quali fossero state le sue esperienze letterarie in America, prima di venire in Europa. A proposito, quando è venuto in Europa per la prima volta?
Nel 1898, avevo dodici anni. Con la mia prozia. Leggeva poesia francese all’epoca?
No, mi pare che stessi leggendo “Elegia scritta in un cimitero campestre” di Thomas Gray... no, non stavo leggendo poesia francese. Avrei cominciato latino l’anno seguente.
È entrato al college che aveva quindici anni, giusto?
Ci andai per evitare l’accademia militare.
Come stato avviato alla poesia?
Da una parte c’era mio nonno che intratteneva un carteggio in versi con il presidente della banca locale, e dall’altra avevo mia nonna e i suoi fratelli che si scrivevano lettere in versi. Era scontato che tutti sapessero scrivere in versi.
Nel corso dei suoi studi universitari ha imparato qualcosa che l’ha aiutata come poeta? Ha fatto sette, otto anni all’università se non sbaglio.
Soltanto sei, o meglio sei anni e quattro mesi per la precisione. Scrivevo sempre, specialmente al liceo. Ho cominciato al primo anno studiando il Bruto di Layamon e il latino. Se sono entrato al liceo è stato grazie al mio latino, fu l’unica ragione per la quale mi presero. A quindici anni volevo già avere una panoramica generale. Naturalmente solo il cielo avrebbe stabilito se ero o non ero un poeta, ma scoprire quello che era stato fatto, almeno quello dipendeva da me.
Ha insegnato solo per quattro mesi da quel che ricordo, ma. sa che al giorno d’oggi, in America, quasi tutti i poeti fanno gli insegnanti. Secondo lei a cosa è dovuta questa correlazione fra l’insegnamento all’università e lo scrivere poesie?
A un fattore economico. Bisogna pur pagarsi l’affitto in qualche modo.
Come riuscito a mantenersi tutti quegli anni in Europa?
Oddio, fu un vero miracolo. Dall’ottobre del 1914 all’ottobre del 1915 il mio reddito ammontava a 4210.0 sterline. Ho ancora quella cifra ben impressa nella memoria... Non sono mai stato molto bravo a scrivere per le riviste. Una volta feci un articolo satirico per Vogue, mi pare, su un pittore che non mi piaceva. Pensarono che avessi il tono giusto e poi Verhaeren morì e mi chiesero di scrivere un necrologio su di lui. Andai da loro e dissi: “Volete un bei necrologio brillante e brioso dell’uomo più triste d’Europa?”.
“Cosa? Un tipo triste? Davvero?”
“Proprio così, scriveva di baggiani”, risposi io.
“Baggiani o fagiani?”
“Baggiani. Contadini.”
“Oh, meglio non farne parola.”
Fu così che mi giocai una fonte di guadagno per non aver saputo tacere al momento giusto.
Ho letto da qualche parte, mi pare che lo avesse scritto proprio lei, che una volta cercò di scrivere un romanzo. Era approdato a qualcosa?
Sì, per fortuna! Al caminetto di Langham Piace! Credo di aver fatto due tentativi prima di avere una qualche idea di come avrebbe dovuto essere un romanzo.
Avevano per caso qualcosa a che vedere con “Hugh Selwyn Mauberley”?
Erano molto prima di “Mauberley”. “Mauberley” è venuto dopo, ma era un chiaro tentativo di arrivare a un romanzo tagliato a misura di verso. A dire il vero s’intitolava “Contacts and Life”. Wadsworth pensava che “Properzio” fosse difficile perché parlava di Roma, così la stessa cosa valeva per il mondo contemporaneo esterno.
Ha detto che è stato Ford ad aiutarla ad arrivare a un linguaggio naturale, dico bene? Torniamo di nuovo a Londra.
Ero alla ricerca di un linguaggio semplice e naturale, Ford aveva dieci anni più di me e accelerò quel processo. Discutevamo in continuazione di questo genere di cose. Vede, Ford conosceva i grandi che c’erano prima di lui, e non aveva nessuno con cui giocare fino a quando non siamo arrivati io e Wyndham e la mia generazione. Era decisamente contrario al dialetto, diciamo così, di Lionel Johnson e di Oxford.
Per almeno due o tre decenni lei è stato a contatto con tutti i più grandi scrittori di lingua inglese del momento e con molti pittori, scultori e musicisti. Fra tutte queste persone, quali sono state le più stimolanti per lei come artista?
Frequentavo soprattutto Ford e Gaudier. Mi verrebbe da dire che le persone più importanti sono state, per me, quelle di cui ho scritto. E non serve che ci stia tanto a pensare.
Posso aver limitato il mio lavoro e ridotto l’interesse A mio lavoro, concentrandomi così sulla particolare intelligenza di persone particolari, invece di avere una visione d’insieme del carattere e della personalità dei miei amici. Wyndham Lewis ha sempre sostenuto che non vedevo mai nessuno perché non mi accorgevo mai della cattiveria degli esseri umani, di che razza di figli di una buonadonna fossero. I difetti dei miei amici non mi interessavano minimamente, mi interessava la loro intelligenza.
James era una specie di modello per lei a Londra?
Quando morì ci sentimmo come se non avessimo più nessuno a cui rivolgerci. Fino alla sua morte avevamo la sensazione che ci fosse qualcuno che sapesse il fatto suo. Compiuti i sessantacinque anni non mi capacitavo davvero di essere più vecchio di James all’epoca in cui l’avevo incontrato.
Conosceva personalmente Remy de Gourmont? Lo ha nominato spesso.
Solo per lettera. Ce n’era una che anche Jean de Gourmont considerava importante, in cui lui diceva: “Scrivere francamente quel che si pensa è l’unico piacere per uno scrittore”.
E incredibile pensare che appena arrivato in Europa fosse subito entrato in contatto con i più grandi autori viventi. Conosceva i poeti che scrivevano in America prima che lei se ne andasse’:’Le dice niente Robinson?
Aiken cercò di vendermi Robinson, ma io non ci cascai. Anche questo succedeva sempre a Londra. E poi riuscii a fargli confessare che c’era un ragazzo ad Harvard che faceva cose buffe. Eliot venne fuori un anno dopo.
No, direi che verso il 1900 c’erano Carman e Hovey, Carwine e Vance Cheney. L’impressione allora fu che la poesia americana non fosse esattamente all’altezza di quella inglese, in nessun momento. E poi c’era Mosher con le sue edizioni piratate della roba inglese. No, andai a Londra perché pensai che Yeats di poesia ne sapesse più di chiunque altro. Le mie giornate a Londra si dividevano fra i pomeriggi con Ford e le serate con Yeats. Bastava fare il nome di uno ali’altro per intavolare una discussione. L’esercizio era questo. Andai a studiare con Yeats e scoprii che Ford non era d’accordo con lui. E così continuai a discutere con entrambi per una ventina d’anni.
Nel 1942 scrisse che lei ed Eliot avevate delle frizioni e vi davate del protestante a vicenda. Quando avete avuto delle divergenze?
Oh, io e Eliot abbiamo sempre avuto divergenze, fin dal principio. La cosa divertente di un’amicizia intellettuale è dissentire su questo o quello, ed essere d’accordo su poche cose. Con la proverbiale pazienza cristiana della tolleranza che dimostrò per tutta la vita, insieme al grande lavoro che aveva da fare, Eliot deve avermi trovato davvero esasperante. Dall’attimo in cui ci incontrammo ci trovammo in disaccordo su moltissime cose. Ma ce n erano altre sulle quali la pensavamo allo stesso modo e suppongo che entrambi avessimo ragione sull’una o sull’ altra.
C’è mai stato un momento in cui vi siete sentiti particolarmente lontani a livello poetico e intellettuale?
Su tutta la faccenda del rapporto fra cristianesimo e confucianesimo, e su quella riguardante i diversi tipi di cristianesimo. Sulla lotta per l’ortodossia — Eliot era per la Chiesa mentre io ero per dare addosso a qualche teologo in particolare. In un ceno senso la curiosità di Eliot si sarebbe concentrata su un numero minore di problemi, ma anche questo è dire troppo. Di fatto la posizione della generazione sperimentale si risolveva tutta in una questione di ethos personale.
Come poeti, la vostra era una divergenza di natura tecnica, che non centrava con il contenuto?
Sarei incline a pensare che la divergenza fosse innanzitutto una differenza di contenuto. Era indubbio che Eliot possedesse un linguaggio naturale. Mi pare abbia dato un notevole contributo alla lingua del teatro. E mi pare sia riuscito a stabilire un contatto con il contesto che lo circondava, con lo stato di comprensione vigente.
Questo mi fa venire in mente due opere — Villon e Cavalcanti — che lei scrìsse. Come arrivò a comporre musica?
Volevo la parola e la melodia. Grande poesia cantata, e la tecnica del libretto operistico inglese non era soddisfacente. Con la qualità dei testi di Villon e Cavalcanti volevo arrivare a qualcosa di più esteso della singola poesia. Tutto qui.
Immagino che quell’interesse per le parole cantate fosse particolarmente stimolato dal suo studio della Provenza. Crede che la scoperta della poesia provenzale sia stata la sua conquista, pìù grande? O forse i manoscritti di Fenollosa? Il mio interesse per il provenzale si manifestò molto presto, per cui non si trattò propriamente di una scoperta. E Fenollosa fu una manna dal ciclo e mi trovai a lottare contro la mia stessa ignoranza. Avevo una conoscenza profonda degli appunti di Fenollosa e l’ignoranza di un bambino di cinque anni.
Come che la signora Fenollosa rimase colpita da lei?
Beh, la incontrai da Sarojini Naidu e mi disse che Fenollosa era contro i professori e le accademie di ogni risma, che aveva letto qualche mio scritto e che ero l’unica persona in grado di completare quegli appunti come Ernest avrebbe voluto. Fenollosa aveva visto quello che restava da fare ma non ebbe il tempo di farlo.
Mi permetta di cambiare argomento e di farle qualche donanda di natura più biografica. Ho letto che è nato a Hailey, nell’Idaho, nel 1885. Immagino che all’epoca fosse piuttosto selvaggio...
Lasciai l’Idaho che avevo diciotto mesi e non ricordo nulla di quella bestialità.
Non è cresciuto a Hailey?
Non sono cresciuto a Hailey.
Che cosa ci facevano i suoi lì quando è nato?
Mio padre ci andò per aprire l’ufficio governativo che valutava le concessioni ai minatori. Io sono cresciuto vicino a Filadelfia, nei sobborghi di Filadelfia.
Ma allora il selvaggio indiano dell’Ovest non era...?
Il selvaggio indiano dell’Ovest è apocrifo, e il vice assaggiatore alla Zecca non era uno dei più famosi banditi della frontiera.
E vero che suo nonno costruì una ferrovia? Come andò esattamente?
Beh, fece arrivare la ferrovia a Chippewa Falls, e per mettergli i bastoni fra le ruote gli impedirono di comprare le rotaie. È nei Cantos. Allora lui andò a nord dello Stato di New York, trovò delle rotaie lungo una strada abbandonata, le comprò e se le fece spedire, dopodiché sfruttò il suo ascendente fra i taglialegna per far arrivare la strada a Chippewa Falls. Come s’impara a casa propria non s’imparerà mai sui banchi di scuola.
Il suo particolare interesse per le monete viene dall’incarico di suo padre alla Zecca?
Potremmo parlarne per ore. Gli uffici governativi all’epoca erano più informali, anche se non so quanti altri bambini ebbero l’opportunità di metterci piede, di farsi un giro. Oggi i visitatori vengono accompagnati attraverso tunnel di vetro e vedono ogni cosa da una cena distanza, mentre allora ti portavano a vedere la sala della fonderia e i lingotti d’oro impilati nella cassaforte. Ti regalavano un gran borsone pieno d’oro e ti dicevano che potevi tenerlo se ce la facevi a portartelo via. Non riuscivi nemmeno a sollevarlo!
Quando finalmente i democratici tornarono al potere, ricontarono tutti i dollari d’argento, quattro milioni di dollari d’argento. Tutti i borsoni erano marciti in quegli enormi sotterranei e con pale più grandi di quelle che si usano per il carbone fecero caricare le monete nelle macchine per contarle. Quello spettacolo di monete che venivano spalate come fossero spazzatura — quegli uomini a torso nudo che spalavano alla luce delle fiaccole a gas — cose del genere colpiscono l’immaginazione di un bambino.
E poi c’è tutta la tecnica per forgiare la moneta di metallo. Tanto per cominciare testare l’argento è molto più difficile che testare l’oro. Con l’oro è semplice: viene pesato, raffinato e poi pesato di nuovo. Si può dedurre il grado di oro dalle rispettive pesate. Il test per l’argento, invece, consiste in una soluzione torbida; l’accuratezza dell’occhio umano nel misurare la densità dell’intorbidamento è una percezione estetica, come il senso critico. Mi piace l’idea della finezza del metallo e fa pensare per analogia alla consuetudine di saggiare le manifestazioni verbali. Vede, all’epoca i lingotti d’oro e i campioni di pirite di ferro che venivano scambiati per oro, erano portati nell’ufficio di mio padre. Giravano racconti sull’ultimo tizio che si era presentato con un lingotto d’oro che poi oro non era.
So che per lei la riforma monetaria è la chiave di un buon governo. Mi domando quale sia il processo che l’ha spinta a passare da problemi estetici a problemi governativi. È stata la Grande guerra nella quale sono stati massacrati tanti suoi amici a far scattare la molla?
La Grande guerra è arrivata come una sorpresa, e sicuramente vedere gli inglesi, un popolo che non ha mai fatto niente, prendere su e andare a combattere, fu davvero stupefacente. Ma una volta finita, loro erano come spenti e per i vent’anni successivi si cercò di impedire un secondo conflitto mondiale. Non potrei dire con esattezza quando è cominciato il mio studio sul governo. Penso che l’incarico al New Age mi abbia aiutato a vedere che la guerra non era un evento a sé stante, ma parte di un sistema, una guerra dopo l’altra.
Nei suoi scritti c’è un punto di contatto fra politica e letteratura che mi interessa particolarmente. Nell’ABC del leggere lei dice che i bravi scrittori sono quelli che mantengono la lingua efficace, ed è quella la loro funzione. Lei esclude i partiti da questa funzione. Un uomo del partito sbagliato può usare la lingua in modo efficace?
Certo, è proprio questo il guaio! Una pistola è efficace indipendentemente da chi la impugna.
Può uno strumento ordinato essere usato per generare disordine? Supponiamo che il buon linguaggio venga usato per promuovere un cattivo governo, un cattivo governo poi non produce un cattivo linguaggio?
Certo, ma un cattivo linguaggio renderà un governo ancora peggiore, mentre un buon linguaggio non è detto che porti a un cattivo governo. Anche qui entriamo nel confucianesimo: se gli ordini non sono chiari, non possono essere eseguiti. Le leggi di Lloyd George erano un tale ginepraio che gli avvocati non capivano mai cosa volessero dire. E Talleyrand dimostrò che da una conferenza ali’altra il significato delle parole veniva cambiato. I mezzi di comunicazione hanno fallito ed è quello di cui evidentemente stiamo soffrendo in questo momento. Stiamo vivendo l’impulso di lavorare sul subconscio senza far appello alla ragione. Ci ripetono un po’ di volte il nome di una marca accompagnato da una musica, poi solo la musica in modo che, nell’udirla, ci verrà in mente la marca. Penso all’assalto. Noi subiamo un uso del linguaggio finalizzato a occultare il pensiero e nascondere tutte le risposte vitali e dirette. C’è un uso specifico della propaganda, del linguaggio forense, pensato espressamente per nascondere e fuorviare.
Dove finiscono l’ignoranza e l’innocenza, e dove comincia l’inganno?
C’è l’ignoranza naturale e quella artificiale. In questo momento direi che quella artificiale si aggira intorno all’85 per cento.
Che tipo di azione spera di intraprendere?
L’unica possibilità di vittoria contro il lavaggio del cervello è il diritto che ogni uomo ha a farsi giudicare le proprie idee una alla volta. Non avremo mai chiarezza fino a quando ci saranno queste parole preconfezionate, fino a quando una parola verrà usata da venticinque persone diverse in venticinque modi diversi. La prima lotta da fare a mio avviso è questa, se vogliamo che rimanga un po’ di intelletto.
Dubito che lasceranno sopravvivere lo spirito individuale. Ora c’è un movimento buddista che ha tutto tranne Confucio. Una Circe indiana di negazione e dissoluzione.
Ci troviamo di fronte a talmente tanti misteri. C’è il problema della benevolenza, il punto in cui la benevolenza ha smesso di essere operativa. Eliot dice che passano il loro tempo a cercare di immaginare sistemi talmente perfetti che nessuno dovrà essere più buono. Ci sono diverse questioni in quel saggio di Eliot che non possono essere evitate, come quella sulla necessità di cambiamenti rispetto alla scala di valori dantesca o a quella chauceriana. E nel caso, in che misura? Chi ha perso il rispetto ha perso molto. E stato su questo che ho litigato con Tiffany Thayer. Tutti quei paroloni che scadono nel cliché.
C’è il mistero della dispersione, il fatto che la gente che presumibilmente si capisce, sia sparpagliata geograficamente. Un uomo come Frost, che sta bene nel suo ambiente, è da considerarsi felice.
Oh, la fortuna di un uomo come Mavrocordato che è in contatto con altri studiosi e ha una possibilità di verifica! Quando io ho bisogno di una verifica, c’è un tale Dazzi a Venezia al quale scrivo e lui mi risponde, per esempio sul falso della Donazione di Costammo. Ma i presunti vantaggi offerti dall’ambiente universitario dove ci sono altre persone che contròlent l’opinione o che contròlent i dati erano enormi. Peccato non averli avuti. Per più di dieci anni ho cercato un membro di una facoltà americana che facesse il nome di un collega della stessa facoltà, all’interno o ali’esterno del suo dipartimento, che rispettava per la sua intelligenza o con il quale discuteva di questioni importanti. Un esimio interpellato si disse spiacente che il collega avesse lasciato la facoltà.
Non sono riuscito a ottenere risposte dirette su quelle che per me erano questioni vitali. Forse era dovuto alla violenza o ali’astrusità con le quali formulavo le mie domande. Credo che, spesso, la cosiddetta astrusità non sia dovuta a un astrusità del linguaggio, ma all’incapacità altrui di capire perché stai dicendo una cosa. Per esempio, l’attacco a Endimione fu complicato perché Gifford e compagnia bella non riuscivano a capire perché quel diamine di Keats lo stesse scrivendo.
Un’altra lotta è stata quella per preservare il valore di un carattere locale e particolare, di una particolare cultura in quest’orribile vortice, in questa orribile valanga verso l’omologazione. È una lotta per la conservazione dell’individuo. Il nemico è la soppressione della storia; contro di noi remano, disorientandoci, propaganda e lavaggio del cervello, lussuria e violenza. Sessant’anni fa, la poesia era l’arte del povero: un uomo che vaga nella natura, o Frémont, che se ne andava in giro con un libro di greco in tasca. Un uomo che il massimo che poteva volere era una fattoria isolata da tutto. Poi è arrivato il cinema e ora anche la televisione.
Fra le sue azioni politiche tutti ricordano gli interventi alla radio italiana durante la guerra. Quando parlava a quelle trasmissioni, era consapevole di trasgredire la legge americana?
No, ne rimasi molto sorpreso. Vede, mi era stato promesso. Mi avevano concesso la libertà di parlare alla radio due volte a settimana. “Non le verrà chiesto di dire niente che vada contro la sua coscienza o i suoi doveri di cittadino americano.” Pensai che bastasse.
La legge contro il tradimento non parla di dare “aiuto e conforto al nemico”, e il nemico non è il paese con cui si è in guerra?
Pensavo di combattere per una causa costituzionale. Voglio dire, sarò anche stato completamente fuori di testa, ma di sicuro non pensavo di commettere un tradimento.
Wodehouse parlò alla radio e gli inglesi gli avevano chiesto di non farlo. A me nessuno chiese niente. Non ci fu alcun avveramento fino a quando gli eventi non precipitarono, per cui chi aveva parlato alla radio sarebbe stato processato.
Dopo aver lottato anni per evitare un conflitto, e aver visto la follia dell’Italia e l’America che erano in guerra, non stavo certo incitando le truppe alla rivolta! Credevo di lottare per una questione interna di governo costituzionale. E se c’è qualcuno, anche un solo uomo, che può dire di essere stato discriminato da me per ragioni di razza, credo o colore della pelle, che si faccia avanti e lo dimostri in modo circostanziato. Il mio libro Guida alla cultura lo dedicai a Basii Bunting e a Louis Zukofsky, un quacchero e un ebreo.
Non so se lei pensa che i russi debbano restare a Berlino o meno. Non so se stavo facendo del bene o meno, se stavo facendo del male a qualcuno. Oh, probabilmente ero fuori dai giochi. Ma la sentenza a Boston decretò che non c’è tradimento se non c’è intenzione di tradire.
Quello su cui avevo ragione era la difesa del diritto individuale. Se, quando l’esecutivo o qualsiasi altro organo abusa dei suoi poteri legittimi, nessuno protesta, si perdono tutte le libertà. Il mio metodo per oppormi alla tirannia non andava bene su un arco di tempo di trent’anni, non aveva niente a che vedere con la Seconda guerra mondiale in particolare. Se il singolo, o l’eretico, riesce a cogliere una verità essenziale o a intravedere qualche errore nel sistema vigente, è il primo a commettere così tanti errori marginali da essere sfinito prima di riuscire a dimostrare la sua posizione.
In vent’anni il mondo ha accumulato isteria — l’ansia di una Terza guerra mondiale, la tirannia burocratica e l’isteria da scartoffie. L’immensa e inconfutabile perdita delle libertà, così come erano nel 1900, è lampante. Abbiamo assistito a un accelerazione nell’efficacia dei fattori tirannici. Ci sono tutte le ragioni per preoccuparsi. Le guerre sono fatte per creare debito. Immagino ci sia una possibile via d’uscita con i satelliti spaziali e altri modi di creare debito.
Quando venne arrestato dagli americani si aspettava di essere condannato? Di essere impiccato?
Sulle prime mi scervellai per cercare di capire se mi ero perso qualche passaggio. Mi aspettavo di costituirmi e di essere interrogato su ciò che sapevo. Lo feci e non fui interrogato. So di essermi chiesto diverse volte durante le trasmissioni se era il caso di fare certe cose o di prendere le parti di un paese che non era il mio. Oh, era paranoico pensare di potermi schierare contro le usurpazioni, contro quelli che avevano scatenato la guerra per farci entrare gli Stati Uniti. Eppure detestavo l’idea di ubbidire a qualcosa di sbagliato.
Poi, dopo, fui portato davanti al tribunale di Chiavar!. Li avevano fucilati e pensai che fosse finita anche per me. Ma alla fine arrivò un tipo e disse che non mi avrebbe mai e poi mai consegnato agli americani, a meno che non lo volessi io.
Nel 1942, quando l’America entrò in guerra, so che lei cercò di lasciare l’Italia e rientrare negli Stati Uniti. Quali furono le motivazioni del rifiuto?
Le so per sentito dire. Nella mia testa i ricordi di un lungo periodo di tempo sono confusi e penso che... So di aver avuto la possibilità di arrivare fino a Lisbona, e di essere rimasto lì rinchiuso per il resto della guerra.
Perché voleva rientrare negli Stati Uniti in quel momento?
Volevo rientrare durante le elezioni, prima delle elezioni.
Le elezioni si svolsero nel 1940, giusto?
Sì, dovrebbero essersi svolte nel 1940. A dire la verità non ricordo cosa accadde. I miei genitori erano troppo vecchi per viaggiare. Avrebbero dovuto restare a Rapallo, papa sì ritirò lì quando andò in pensione.
Scrisse poesie in quegli anni di guerra, in Italia? I Canti pisani li scrisse quando venne internato. Cosa scrisse in quegli anni?
Elucubrazioni su elucubrazioni. Oh, e tradussi un po’ di Confucio.
Come mai cominciò a scrivere poesia solo dopo essere stato internato? Non aveva scritto nessun Canto durante la guerra, vero?
Mi faccia pensare. La cosa su Adams fu subito dopo la fine della guerra. No. C’era Oro e lavoro. Scrivevo roba di economia in italiano.
Da quando venne internato, pubblico tre raccolte di Cantos — Troni di recente. Dovrebbe essere quasi alla fine. Può dirmi cosa scriverà nei restanti Cantos?
È difficile scrivere un paradiso quando tutto ciò che ti circonda ti porterebbe a scrivere un apocalisse. E molto più facile, ovviamente, trovare gli abitanti di un inferno o anche di un purgatorio. Sto cercando di stabilire il primato del volo più alto della mente. Avrei fatto meglio a mettere Agassiz al primo posto anziché Confucio.
E in. una fase di stallo, per così dire?
E va bene, sono in una fase di stallo. Il punto è, sono morto come i signori Tizio, Caio e Sempronio vorrebbero? Nell’eventualità che schiatti, ecco cosa devo fare preventivamente: devo chiarire le astrusità; devo rendere più chiare cene idee o certe dissociazioni. Devo trovare una formula verbale per combattere la brutalità dilagante — il principio di ordine contro l’atomo scisso. Fra parentesi, e era uno al manicomio che insisteva a dire che l’atomo non era mai stato scisso.
Un’epopea è un poema che contiene storia. La mente moderna contiene elementi eterocliti. Le epiche del passato hanno avuto successo quando tutte o una buona parte delle risposte erano presunte, perlomeno fra autore e pubblico, o una grande massa di pubblico. Ogni tentativo in un’epoca sperimentale è dunque sconsiderato. La conosce la storia:
Che cosa stai disegnando Johnny?
Dio.
Ma nessuno sa come è fatto.
Lo sapranno quando lo avrò finito!
Quella sicurezza non è più possibile.
Ci sono soggetti epici. La lotta per i diritti individuali è un soggetto epico, che viene dai processi con giuria ad Atene, che va da Anselmo contro Guglielmo il Rosso all’assassinio di Becket, fino a Coke passando per John Adams.
Poi è come se la lotta andasse a cozzare contro un muro. La natura della sovranità è una questione epica, anche se può essere stata un po’ adombrata dalle circostanze. Una parte può essere tracciata, identificata, ovviamente va condensata per entrare nella forma. La natura dell’individuo, i contenuti eterocliti della coscienza contemporanea. E la lotta della luce contro il subconscio; richiede oscurità e penombre. Molta parte della scrittura contemporanea evita le zone scomode del soggetto.
Io scrivo per resistere all’idea che l’Europa e la civiltà stiano andando a scatafascio. Se mi stanno “crocifiggendo per un’idea” ovvero l’idea coerente intorno alla quale si sono accumulate le mie confusioni probabilmente è per l’idea che la cultura europea dovrebbe sopravvivere, che le sue qualità migliori dovrebbero sopravvivere insieme a qualunque altra cultura, in qualsiasi universalità. Contro la propaganda del terrore e la propaganda della lussuria, lei ce l’ha una bella risposta semplice, semplice? Uno lavora su certi materiali per cercare di stabilire basi e assi di riferimento. Quando si scrive per essere compresi, c’è sempre il problema della rettifica senza dover rinunciare a quel che va bene. C’è la lotta per non firmare sulla linea tratteggiata della parte avversa.
Le diverse sezioni dei Cantos — le ultime tré sono uscite con nomi distinti — stanno a indicare che lei sta affrontando problemi particolari in sezioni particolari?
No. “Rock Drill” era pensata per esprimere la resistenza necessaria all’avallo di una certa tesi stroncandola. Non stavo seguendo esattamente le tre divisioni della Divina. Commedia. E impossibile attenersi al cosmo dantesco in un epoca di sperimentazione. Però ho fatto una distinzione fra le persone dominate dall’emozione, quelle che lottano verso l’alto, e quelle che godono di parte della visione divina. I troni del Paradiso di Dante sono riservati alle anime di chi ha condotto un buon governo. I troni nei Cantos sono un tentativo di uscire dall’egoismo e stabilire una qualche definizione di un ordine possibile o comunque percorribile sulla terra. La bassa percentuale di raziocinio che governa le vicende del genere umano non aiuta di certo. Troni è sulla disposizione mentale delle persone responsabili di qualcosa che va oltre la propria condotta personale.
Ora che la fine si avvicina, ha già un piano di revisioni dei Cantos una volta che li avrà terminati?
Non so. C’è bisogno di elaborare, di chiarire, ma non so dirle se sia prevista una revisione generale. La scrittura è senz’altro troppo oscura così com’è, ma. spero che l’ordine di ascensione nel Paradiso vada verso una maggiore limpidezza. Ovviamente dovrà esserci un’edizione emendata da tutti gli errori che sono sfuggiti.
Mi permetta di cambiare di nuovo argomento. In tutti quegli anni al St. Elizabeths ha avuto una qualche percezione dell’America contemporanea attraverso le visite che riceveva?
Il guaio con chi ti viene a trovare è che non hai abbastanza resistenza. Io soffro di un isolamento d’accumulo per non aver avuto abbastanza contatti quindici anni passati perlopiù in compagnia di idee che di persone.
Ha intenzione di rientrare negli Stati Uniti? Ne ha voglia?
Certamente, ma se è una nostalgia per un’America che non c’è più, questo non saprei dirglielo. E una differenza tra un’America astratta Adams-Jefferson, Adams-Jackson, e l’effettiva realtà. Ho sicuramente dei momenti in cui mi piacerebbe molto vivere in America. Ci sono difficoltà concrete che si scontrano con un desiderio di fondo. Richmond è una bella città, ma se non guidi è invivibile. Mi piacerebbe almeno passare uno o due mesi l’anno negli Stari Uniti.
L’altro giorno ha detto che man mano che invecchia si sente sempre più americano. Com’è che succede?
Succede. L’estraneità era necessaria come tentativo per trovare un proprio substrato. Vieni trapiantato, cresci e poi sei sradicato e riportato nel luogo da cui eri stato trapiantato e che non è più lì. I contatti non ci sono più e immagino che si ritorni alla propria natura organica e che sia un sollievo. Ha mai letto i mémoir di Andy White? È stato il fondatore della Cornell University. Era il periodo dell’euforia, quando chiunque credeva che tutte le cose buone dell’America avrebbero funzionato, prima del declino, verso il 1900. White copre un periodo storico che va indietro fino a Buchanan. Lui si divideva fra l’incarico di ambasciatore di Russia e la direzione della Cornell.
Il suo ritorno in Italia è stata una delusione, allora.
Senza dubbio. L’Europa fu uno shock. Lo shock di non sentirsi più al centro di qualcosa probabilmente ha avuto la sua parte. Poi c’è l’incomprensione, l’incomprensione di un’America organica da parte dell’Europa. Ci sono tantissime cose che io, da americano, non posso dire a un europeo, perché non ho la minima speranza che mi capirà. Qualcuno ha detto che sono l’ultimo americano a vivere la tragedia dell’Europa.
NOTA: Le condizioni di salute di Ezra Pound non gli hanno consentito di rivedere le bozze di questa intervista. Il testo è integrale, ma può contenere dettagli che, in circostanze più felici, egli avrebbe modificato.
NUMERO 28, 1962
biografia:
Ezra Pound (1885-1972) è nato a Hailey, Idaho Territory, ma la sua famiglia si trasferì a Philadelphia quando era ancora bambino. Nel 1906 si laureò in filologia romanza all’Università di Pennsylvania e per un breve periodo insegnò al Wabash College. Nel 1908 si trasferì a Londra e trascorrerà gran parte della sua vita in Europa. Dal 1912 al 1919 fece l’inviato dall’estero per la rivista Poetry e fu fondatore ed editor della piccola rivista The Exile. Pound curò molte delle più grandi poesie di T.S. Eliot fra cui "La terra desolata". La sua critica è stata raccolta nel volume Saggi letterari (1954). Tra le antologie poetiche precedenti ci sono Hugh Selwyn Mauberley (1920) e Omaggio a Sesto Properzio (1934), ma la sua opera per eccellenza furono i Cantos, una raccolta di poemi usciti nel corso della sua vita e raccolti nel volume The Cantos of Ezra Pound (1948, edizione rivista 1954). Nel 1945 venne arrestato con l’accusa di tradimento per le trasmissioni radio filomussoliniane che aveva curato durante la guerra. Fu internato al St. Elizabeths Hospital di Washington per dodici anni. Trascorse gli ultimi anni della sua vita in Italia.