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 2013  febbraio 19 Martedì calendario

I PADRONI DELLO SPORT

[Oggi si vota il presidente del Comitato Olimpico Nazionale doveva essere sciolto nel ‘45 ma resiste a forza di voti e favori] –
Capitava, poi, che in Parlamento, negli esiziali pomeriggi da duello in Commissione a discutere di prebende e versamenti al Coni, ai deputati pungesse vaghezza di simulare un po’ di lotta. Ed erano insulti e incongrue collocazioni geografiche per tornare poi alla dipendenza originaria. “Hai dato due calci al pallone, di sport non capisci niente” flautava verso l’ex calciatore Massimo Mauro del Pd, il deputato di Forza Italia Sabatino Aracu da L’Aquila. E riceveva dall’altro dolcezze ad alto tasso di incompetenza geografica: “Zitto tu che sei stato fino a ieri con le pecore” da diluire nella buvette sentimentale in cui al teatrino, si preferiva la realtà. E la realtà era la stessa da sempre. Lo Stato pagava lautamente lo spettacolo, il Comitato Olimpico Nazionale fingeva autonomia redistribuendo tessere, voti e favori e ogni partito, per mezzo (e fine) della propria associazione, faceva sentire il proprio peso nelle Federazioni da Bolzano a Siracusa. A volte, prima di entrare nel tunnel del rompicapo irrisolvibile, la Corte dei conti indagava. Pignoramenti e luci sulle assunzioni sospette (960 nel biennio ’90-’92) e sugli affitti a prezzo agevolato. Poi l’oblio e la nuova stagione che somigliava all’antica. Così, ora, a vederli da vicino, Lello & Giovannino, Pagnozzi e Malagò, i due rivali in corsa, i ‘giovani’ interpreti di una liturgia secolare, si fatica a distinguerne il ruolo tra cene movimentiste negli alberghi a 5 stelle, alleanze precarie, proclami di vittoria e presentazioni lievemente manichee. Al suocero dell’ex laziale Nesta, ‘Lelluccio’, dinosauro della gestione di atleti e spedizioni transcontinentali, quello dell’esperto conservatore. Al fascinoso gestore di un fortunato concessionario di famiglia, il galante Malagò, organizzatore dei Mondiali di Pallavolo del 2005, dei famigerati omologhi di nuoto nel 2009 e di un generoso numero di convivi nella terza Camera del circolo Canottieri sulle sponde dell’Aniene, quello del rivoluzionario. Naturalmente (e non solo perché la sede del contendere, appoggiata all’ombra dello stadio, tra vestigi mussoliniane e motti del ventennio pretende un capo certo) le sfumature complicano il quadro. Meno florido che in passato quando i 39 voti che stamane designeranno l’erede di Petrucci erano gocce nel bulgaro mare del plebiscito. La banda degli Onesti aveva un solo faro.
L’AVVOCATO astigiano Giulio, più riservato del conterraneo Paolo Conte e convinto, come l’amico Andreotti, che il vero potere si esercitasse in un’assente, costante presenza: “Non somiglio a Gregory Peck, se mi vedono in tv cambiano canale”. Onesti, chiamato da Nenni a liquidare il Coni a guerra finita, vi rimase per più di 30 anni. Con l’aiuto di Ossicini, di De Gasperi e del giovane portavoce dell’Alcide, il futuro Divo Giulio, Onesti passò attraverso 40 governi e la storia, per poi cadere, su un banale ricorso del Tar nel ‘78, dopo aver definito per sempre la categoria dei presidenti nel pallone: “Ricchi scemi” e messo in piedi due olimpiadi. A Cortina nel ’56 e a Roma nel ’60. Polizze a vita.
Solo dopo vennero i delfini, gli eterni Franco Carraro e Pescante, Mario, poi deputato Pdl, uno che (per dare l’idea dell’immutabilità dello scenario) fu segretario generale del Coni nel ’73 per poi presiederlo 20 anni dopo e dimettersi poi uno scandalo d’epoca. Al tempo, quasi a dar plastica forma alla leggendaria lungimiranza di Veltroni e alla contiguità tra sport e politica (c’era da sostenere lo sforzo di Pescante, portare a Roma le Olimpiadi del 2004) Walter sprizzò per un istante desiderio di innocenza: “Sono un garantista per cultura, un processo per abuso d’’ufficio non vuol dire che Pescante sia colpevole”. E poi, lapidario: “Lo sport italiano ha dimostrato sul campo autorevolezza, capacità organizzativa e forza”. Una minimizzazione comune. Un linguaggio tenue, distante dalle avvelenate di Gianni Clerici sull’inamovibile Paolo Galgani (caro leader del tennis per 20 anni): “Dittatorello, avvocaticchio, tennista che ruba i punti, bellone da balera con il vizio di sedurre” e figlio di un’ipnosi voluta. Di una tacita tregua tra il veicolo principe di consenso e la politica, 2 universi la cui reciproca salute era essenziale, che in casi di pericolosa tangenza (accadde per le inchieste sui fondi erogati al ‘missinissimo’ centro sportivo Fiamma ) poteva far vibrare di indignazione il giovane Pagnozzi, lo stesso, non un omonimo, che oggi forse sarà Presidente: “Il pm contesta un abuso d’ufficio, un reato minore, cose che in un grande ente pubblico come il Coni possono succedere”. Succedevano. In un gorgo di pelosi distinguo e casse ‘battute’ (411 milioni nel solo 2012) che tra una lobby e l’altra, alimentavano messaggi trasversali: “Visco mi ha rassicurato” precisò Carraro “ ci sarà una soluzione ragionevole”. Pochi nitidi orizzonti abbacinati da provincialismi, eccessi e vanteria. L’uscente Petrucci, ad esempio, 14 anni di mandato: “Da sindaco di San Felice Circeo resto presidente del Coni, saluterò da Londra i miei concittadini: saranno contenti di vedere che il loro sindaco è conosciuto nel mondo”. O Vezzali, poi precipitata nella lista Monti: “Sogno di diventare la prima donna presidente del Coni”. Non è un fioretto, ma in pedana, nell’attesa, si combatte per finta.