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 2013  febbraio 19 Martedì calendario

SUDAFRICA ARCOBALENO DOVE C’ERA L’APARTHEID ORA C’È LA PAURA


C’è una parola olandese di cui tutti in tutto il mondo conoscono il significato: «apartheid». Si scrive e pronuncia allo stesso modo anche in afrikaans, un idioma che del nederlandese è una variante contaminata di dialetti africani. Quel vocabolo, contrassegno ormai di un brutto ricordo, resta come suggello del legame profondo e oscuro tra due culture e civiltà diverse come l’estremo Nord europeo e il Sud del continente nero.

C’è un motivo per cui, sulla situazione del Sudafrica, tornato oggi sotto gli occhi sconcertati del mondo all’indomani del delitto del campione Oscar Pistorius, abbiamo interrogato lo scrittore olandese Adrian Van Dis. Figlio del mondo post-coloniale, nato da padre olandese e madre indonesiana, fratello di tre sorelle «brown», in Sudafrica ha studiato la letteratura afrikaans negli Anni Settanta: gli anni dei nazionalisti afrikaner al potere, della legalizzazione dei bantustan, della rivolta di Soweto, della morte di Biko. Ci è tornato nel ’94, all’indomani della vittoria di Mandela, per registrare i segni del grande cambiamento, descritti nel romanzo-reportage La terra promessa . E ha dedicato il suo ultimo romanzo Tradimento – uscito in questi giorni da Iperborea (pp. 275, € 16) – alle aspettative deluse dal nuovo Paese arcobaleno.

Come è possibile che dopo vent’anni di democrazia un campione di fama internazionale viva nella zona più protetta della capitale con un arsenale in casa, che dichiari di aspettarsi che un teppista gli sbuchi in camera da letto in piena notte e che uccida la sua fidanzata nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne?

«Il caso di Oscar Pistorius è eccezionale, fitto di risvolti legati all’esperienza e all’indole dell’atleta: non so se il delitto in cui è coinvolto si possa considerare esemplare per il Sudafrica. Lo sfondo sul quale l’assassinio è stato commesso è però chiaro. Il Paese è dominato dalla paura, la gente – sia i bianchi sia i neri – vive nel terrore. È normale asserragliarsi in casa propria, erigere mura difensive, trincerarsi dietro porte blindate e sistemi di allarme, tenere armi da fuoco a portata di mano. Ci sono 17 mila omicidi l’anno. La percentuale di vittime di violenza è altissima: su una popolazione di 50 milioni di abitanti ne vengono uccisi 34 ogni centomila».

È un’eredità dell’apartheid?

«Senza dubbio. Lo smantellamento del sistema di segregazione ha creato una nuova classe privilegiata di neri ricchi, spaventati quanto i bianchi dalla criminalità diffusa tra le fasce più povere della popolazione. La conquista della libertà non ha migliorato il tenore di vita di tutti. Resta un gap abissale, una divergenza incolmabile tra i ricchi e i poveri che vivono in condizioni di miseria e di stenti. Il Paese che negli Anni Novanta aveva rappresentato la speranza di giustizia e di riscatto degli oppressi del mondo intero si è sempre più africanizzato negli ultimi vent’anni, e non ha saputo implementare i valori della civiltà europea».

È questo il «tradimento» di cui racconta il suo romanzo? Chi ha tradito e chi è stato tradito?

«Traditori sono stati i governanti che non hanno saputo estendere i benefici della libertà e della democrazia a tutta la popolazione. Tre secoli di dominazione europea pesano tantissimo sulla formazione politica di un Paese che, finalmente libero, si ritrova incapace di governarsi. Traditi sono i sudafricani che hanno smesso di essere i paria del mondo ma non hanno visto cambiare nulla del loro sistema di vita».

E qual è l’aspettativa tradita dal nuovo Sudafrica arcobaleno?

«È stato tradito il sogno di un Sudafrica liberato che puntava al modello delle più evolute città europee. Oggi a C a p e To w n e Johannesburg ci sono immensi stadi e ricchi uomini d’affari neri al volante di auto di lusso. I poveri nelle campagne sono però dimenticati e i potenti governano nel segno dell’iniquità e della corruzione. La denominazione di “Rainbow Nation” corrisponde a una effettiva realtà sociale, dove tra i bianchi e i neri c’è tutta una gamma di etnie – zulu, xhosa, sotho, tswana… – che tendono a costituirsi in gruppi distinti ma disuniti. C’è poi la minoranza dei cosiddetti Cape Coloured, i brown, figli meticci degli schiavi e dei coloni bianchi. Sono circa 4-5 milioni di persone, parlano afrikaans ma non riescono a trovare né espressione né riconoscimento nella democrazia sudafricana. “Non siamo abbastanza neri”, sostengono, di fatto sono politicamente e emozionalmente inesistenti».

E la politica dell’African National Congress?

«Dopo le sue conquiste l’Anc, che era un movimento rivoluzionario di liberazione, non aveva più ragione di essere: un conto era rovesciare il regime del National Party e scardinare il sistema di apartheid, un conto era governare un Paese distrutto. Oggi il partito di maggioranza in Sudafrica è quello dei non votanti».

Nelson Mandela resta però un emblema inossidabile.

«Mandela ha rappresentato la speranza. Si è fatto amare dai neri e ha saputo non farsi odiare dai bianchi cui diceva: “Abbiamo bisogno di voi”. È stato un uomo saggio, in grado di usare le parole come un poeta toccando la sensibilità della gente e di sostenere una squadra di rugby per far fronte a un’incipiente guerra civile. Dopo Mandela le cose hanno iniziato ad andare storte. L’attuale presidente Zuma è un nazionalista zulu, e un illetterato».

Vogliamo dire una parola sulla condizione femminile? La modella Reeva Steenkamp è stata uccisa nella giornata contro la violenza sulle donne in un Paese in cui ne muoiono di morte violenta circa 2500 l’anno.

«Anche la condizione femminile è un’eredità dell’apartheid. Per generazioni gli uomini in Sudafrica non hanno vissuto con le loro famiglie. La loro vita non era altro che lavoro, alcol e prostitute. Le mogli e i figli erano lontani dalle grandi città, relegati nei bantustan istituzionalizzati negli Anni Settanta. L’abitudine invalsa di spendere il denaro del sudato lavoro bevendo e andando a puttane si è conservata. E la condizione delle donne è rimasta penosa».