Roberto Fabbri, il Giornale 18/2/2013, 18 febbraio 2013
KOSOVO, 5 ANNI DI INDIPENDENZA MA NON C’È NULLA DA FESTEGGIARE
[Miseria e mafie la fanno da padrone E i giovani non possono neppure emigrare] –
Kosovo, chi era costui? A cinque anni dalla contestata indipendenza, arrivata dopo un lungo braccio di ferro con Belgrado che non l’ha mai riconosciuta, quasi nessuno parla più del Paese più povero d’Europa, il cui salvataggio dalla «normalizzazione etnica » decisa da Slobodan Milosevic fu la causa scatenante dell’attacco Nato contro la Jugoslavia nell’ormai lontano 1999.
Altri tempi, davvero. Milosevic, accusato di crimini di guerra, è morto in un carcere olandese nel 2006; la sua Jugoslavia, che già nel 1999 non era che un moncone di quella di Tito avendo perso per secessione Croazia, Slovenia, Bosnia e Macedonia, è a sua volta scomparsa trasformandosi ufficialmente in Serbia dopo aver lasciato per strada anche il Montenegro, che ha scelto l’indipendenza nel 2006 attraverso un referendum; Belgrado, sostenuta dallo storico alleato russo, ha tentato in ogni modo di opporsi alla secessione anche del Kosovo, ma non ha potuto impedirla e il 17 febbraio 2008 anche la provincia serba di lingua albanese si è dichiarata libera.
Il Kosovo indipendente fa oggi gran sfoggio di orgoglio nazionale, con parate militari e una solenne seduta del Parlamento di Pristina, ma c’è ben poco da festeggiare. L’icona del defunto leader carismatico dell’indipendenza Ibrahim Rugova è ormai stinta e la realtà odierna parla di un Paese riconosciuto dagli Stati Uniti (principale alleato dei kosovari) e dall’Europa dei Ventisette oltre che da 70 altri Paesi in tutto il mondo, ma non dalla Russia e dalla Cina, schierate al fianco della Serbia che continua a considerarlo nient’altro che una propria provincia ribelle, salvo accettare negoziati sul suo futuro e a dare la crescente impressione di voler usare il Kosovo come pedina per ottenere la sospirata adesione all’Unione Europea.
L’amara verità è che il Kosovo, a parte una bandiera da sventolare con orgoglio e il decisivo sostegno di Washington, non ha conseguito quasi nulla di ciò che sperava. La sua economia è inconsistente, la disoccupazione ha raggiunto il 40 per cento della forza lavoro, la povertà è diffusa quasi quanto la corruzione. Ma soprattutto il Kosovo è diventato un covo di criminalità e di traffici inconfessabili, cosa non difficile da comprendere se si ricorda che secondo dati della Banca mondiale un terzo dei due milioni scarsi di kosovari vive ufficialmente con meno di un dollaro al giorno. Così i giovani vorrebbero emigrare verso l’Europa come fanno tanti loro coetanei di altri Paesi balcanici, ma non possono farlo legalmente.
Per cercare di alleviare una situazione sociale miserabile, i negoziati con la Serbia che si tengono a Bruxelles con la mediazione dell’Ue non si limitano alla questione del riconoscimento di Pristina da parte di Belgrado o alla concessione di una qualche forma di autonomia ai 120mila serbi rimasti entro i confini del Kosovo (la cui autorità respingono), ma affrontano anche temi pratici quali il riconoscimento reciproco delle lauree o la riduzione dei controlli di frontiera. Controlli che attualmente rappresentano plasticamente un concentrato delle difficoltà dei rapporti tra Kosovo e Serbia.
Eppure una fioca luce in fondo al tunnel s’intravede. La scorsa settimana, a quasi 14 anni dalla guerra conclusa con il ritiro dei serbi dal Kosovo, i presidenti dei due Paesi hanno avuto uno storico incontro. In ballo, di fatto, c’è la chance serba di entrare nell’Ue, che potrebbe scambiarla con un sofferto sì all’indipendenza kosovara.