Ferruccio Sansa, Thomas Mackinson, Stefano Caselli, Elisabetta Reguitti, Filippo Barone, Nello Trocchia, Roberto Morini, il Fatto Quotidiano 18/2/2013, 18 febbraio 2013
CI RUBANO ANCHE L’ARIA
Gol”. Matteo e i suoi compagni di squadra alzano le braccia al cielo. Non fanno più caso alla ciminiera alta duecento metri sopra la loro testa, con quel filo di fumo che esce giorno e notte. “Qui bisognerebbe metterci un cartello, vietato respirare”, sorride amaro Attilio Parodi che a Vado Ligure, ai piedi della centrale a carbone Tirreno Power, ci abita da una vita. Poi si tocca la bocca, con la mano scende fino ai polmoni, “Quella roba mi è entrata dappertutto”, conclude. E ti mostra lo studio dell’Agenzia Europea dell’Ambiente. Vado è quel punto giallo sulla carta, una delle emergenze del Paese. Per l’Ue, non per le autorità italiane che hanno autorizzato l’ammodernamento e il potenziamento dell’impianto.
Eccoci a pochi chilometri da Savona, un bel vento di tramontana fa limpida l’aria e ti pare impossibile che a ogni respiro ti butti dentro veleno. Eppure è così, in Liguria ci sono tre centrali a carbone: Vado, Genova e La Spezia. Quasi tutta la regione è “coperta”, stando agli studi americani: gli effetti del carbone arrivano a 48 chilometri. Siamo in Liguria, ma potremmo essere ovunque in Italia. Secondo il dossier “Ecosistema rischio industrie” di Legambiente (legambiente.it/sites/default/files/docs/ecositemarischio_industriale013.pdf) sono 1.152 gli impianti industriali che trattano sostanze pericolose in quantità tali da rientrare nelle leggi nate dopo il disastro di Seveso. Ben 739 comuni (quasi uno su dieci) hanno nei loro confini una bomba che potrebbe esplodere. Nessuna regione è risparmiata, ma alcune stanno peggio: la Lombardia ha il record di 289 insediamenti, seguita da Veneto (116) Piemonte (101) ed Emilia Romagna (100).
ECCOLI, I NEMICI INVISIBILI della nostra salute. A rivelarne la pericolosità sono solo i numeri, le statistiche. “In Italia mancano indagini epidemiologiche serie”, spiega l’epidemiologo Valerio Gennaro, uno dei maggiori esperti. Spesso ci si deve affidare a studi non ufficiali, magari commissionati dalle società proprietarie degli impianti. “Ho visto ricerche con tanto di timbri e firme di esperti secondo le quali in prossimità di acciaierie e industrie chimiche c’era un’aria come sulle Dolomiti”, butta lì Gennaro. Basta misurare cento metri più in qua o più in là, scegliere giorni di vento… e tutto cambia. Già, ci ballano centinaia di milioni, e chi ha i mezzi commissiona ricerche, può diffondere dati sui giornali. Poi magari scopri che sugli stessi quotidiani abbonda la pubblicità delle industrie sotto accusa. Che in alcuni casi sponsorizzano politici e amministrazioni locali.
Uno dei pochi studi epidemiologici ufficiali, il dossier Sentieri (Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio da Inquinamento, realizzato anche dal ministero della Salute e consultabile su www.epiprev.it ) parla di 9.969 persone uccise dall’inquinamento in sette anni, oltre 1.200 decessi all’anno in più per tumori al sistema respiratorio, leucemie, malattie cardiovascolari. E la stima si riferisce solo a 44 dei 57 siti nazionali oggi sottoposti a bonifica. Mancano decine di zone altamente inquinate non sottoposte a bonifica. Insomma, le vittime potrebbero essere molte di più. Quello che va a finire in fondo ai polmoni, che ostruisce le arterie, che fa impazzire le cellule non lo vedi. Quasi mai. Da Savona, però, provate a prendere l’autostrada dei Giovi. In questi giorni di febbraio, sbucati nella Pianura Padana, può capitare di trovarvi davanti le Alpi. Sono lì, pare di toccarle, dal Monviso al Resegone. Ma per 350 giorni all’anno non si vedono. Cancellate da una cappa grigia. Nebbia, dirà qualcuno. No, soprattutto inquinamento. Ecco quello che vi entra nei polmoni.
Siamo a due passi dalla raffineria di Sannazzaro de’ Burgondi (Pavia) che, secondo Legambiente, è al primo posto in Italia per le emissioni di arsenico nell’aria, al secondo per benzene e Nmvoc, ma si piazza bene anche per nichel. Ma nel raggio di pochi chilometri l’Agenzia Europea dell’Ambiente segnala gli stabilimenti Italcementi di Calusco d’Adda (Bergamo), e le centrali termoelettriche di Tavazzano e Montanaso Lombardo (Lodi), Ostiglia (Mantova), Cassano d’Adda (Bergamo), Turbigo (Milano) e Piacenza. Già, le centrali.
C’è chi oggi parla di “carbone pulito”, ma secondo i dati scientifici (contenuti anche nei dossier Wwf consultabili online), “la migliore tecnologia a carbone presenta livelli di anidride solforosa superiori 140 volte rispetto a quelli emessi da un ciclo combinato a gas”. Eppure in Italia sono attive 13 centrali a carbone e mentre per alcune si prevede la riconversione, spuntano nuovi progetti (Saline Joniche in Calabria). Spiccano appunto Liguria e Lombardia, poi il colosso di Civitavecchia, quindi Fiume Santo e Sulcis in Sardegna. E ancora Bastardo in Umbria, Marghera e Fusina in Veneto, Monfalcone in Friuli. Infine Brindisi nord e sud, perché in Puglia non c’è soltanto Taranto.
Ogni regione ha i suoi monumenti: non solo cattedrali, ma, per esempio, rigassificatori. Dovevano essere 4 o 5 secondo Berlusconi, ma rischiano di diventare 11: Augusta, Brindisi, Gioia Turo, Livorno offshore, Porto Empedocle, Porto Recanati, Portovesme, Rosignano, Taranto, Trieste offshore, Trieste Zaule.
Meriterebbe davvero un viaggio a parte. Anche così si capisce l’Italia. Dai centri storici, ma anche dai petrolchimici. Si parte dalla Sicilia (Gela e Priolo), poi Manfredonia, Brindisi, Monfalcone, Falconara.
INFINE LA CHIMICA, un nome per tutti: Rosignano Solvay, in Toscana. Arrivi e ti pare quasi di essere ai Caraibi, spiagge bianche che fanno sembrare l’acqua più azzurra.
Un elenco interminabile. E sorprendente: “Ben 19 impianti continuano a funzionare senza l’Aia, cioè l’Autorizzazione Integrata Ambientale nazionale. Oltre ai danni alla salute, rischiamo di dover sborsare soldi pubblici per pagare le sanzioni inflitte dall’Europa”, assicura Stefano Ciafani, vice-presidente di Legambiente.
Le bonifiche avviate si contano sulle dita di una mano, ricorda il Wwf Italia. Bisogna “ringraziare” una legge: “Una norma del 2006 consente alle industrie di non bonificare. Allo Stato l’onere della prova sul legame produzione-inquinamento. Una probatio diabolica, quasi impossibile, con interminabili contenziosi”. Eppure, spiega Stefano Lenzi del Wwf, “le Finanziarie prevedono lo stesso risorse per la bonifica delle aree private”. Valerio Gennaro conclude: “Bonifica e monitoraggio potrebbero dare tanto lavoro”. Senza contare le spese, immense (quasi tutte a carico dello Stato), per i danni da inquinamento (a cominciare dalla salute): l’Ue li stima in 13 miliardi soltanto per l’Italia.
Attilio Parodi alza di nuovo gli occhi verso la ciminiera di Vado: “Sono pochi gli italiani che possono ritenersi al sicuro. Eppure nei programmi dei partiti la voce ambiente non è la più corposa. Forse anche gli elettori pensano ad altro”.
L’ALLARME DI GUARINIELLO : LA SITUAZIONE È TRAGICA SERVE UNA SUPER-PROCURA –
Mancano 24 ore al processo d’appello Eternit che lo ha visto vincere e ridare speranza a un’Italia malata che cerca giustizia. Il procuratore di Torino, Raffaele Guariniello, alla vigilia della prima udienza si dice sereno, certo che la storica sentenza di un anno fa sarà confermata. A preoccuparlo è quello che c’è fuori dall’aula: il Paese dei “tumori perduti” e dell’ambiente ferito che ha scoperto allargando lo sguardo verso altre regioni. Dove poco o nulla si muove, “anche per l’inerzia della stessa autorità giudiziaria”, ammette. Una soluzione praticabile l’ha pure proposta, la politica però non la coglie. “Perché c’è il rischio che funzioni davvero”.
Procuratore, preoccupato per domani?
No per quello sono sereno e fiducioso. Mi preoccupa semmai il problema più generale di una giustizia che sull’ambiente e la salute si riveli sommaria. E questo non è degno di una nazione moderna e civile.
Saprebbe dove indagare ancora a colpo sicuro?
Guardi tra le mani ho l’ultimo rapporto del Renam, il registro dei mesoteliomi che raccoglie tutti i casi di tumori tipici d’amianto in Italia. Le statistiche sono state riprodotte su mappe e si vede a occhio nudo dove ci sono concentrazioni anomale e picchi epidemiologici.
E allora, il problema qual è?
Che quasi nessuno indaga. Dopo il processo Eternit ho girato molto per l’Italia e mi sono reso conto dell’incidenza preoccupante dei “tumori perduti”. In poche parole abbiamo diverse aree del Paese investite da anomale presenze di mesoteliomi. Poi vai li, chiedi alle procure della Repubblica se hanno avviato indagini e scopri che non è così. Altre le fanno, ma con tale lentezza e fatica che si arriva presto al binario morto della prescrizione
Bisogna sperare di ammalarsi vicino a una procura piuttosto che un’altra?
Purtroppo è così. In questo campo non si improvvisa nulla. Non le dico dove, ma in una regione che ho appena visitato un pm ha disposto diversi rinvii a giudizio per una serie di tumori, ma la maggior parte dei casi non sono riferibili all’esposizione nell’ambiente e sarà molto molto difficile venirne a capo.
Come può accadere?
Questo tipo di processi devono nascere da un terreno coltivato di esperienze, non possono essere improvvisati perché rischiano di suscitare grandi aspettative nelle popolazioni locali che verranno poi deluse, diffondendo un senso di ingiustizia non riparabile.
E l’effetto generale qual è?
Devastante. Da una parte, come dicevo, si afflige la richiesta di giustizia dei cittadini e dall’altra si finisce per rafforzare negli operatori l’idea che le regole ci sono ma possono essere violate impunemente. Se sta bene questo, allora andiamo avanti così.
Qualcuno sostiene che servano leggi più severe
Non servono nuove norme, le nostre sono tra le più avanzate. Il problema semmai è la loro piena ed effettiva applicazione. Certo, non ci sono gli organici per le funzioni di vigilanza ma tocca anche ammettere che gli interventi della magistratura a tutela dell’ambiente lasciano molto a desiderare. Anche per questo ci sono intere zone del Paese in cui processi penali su questa materia non se ne fanno proprio. Secondo me il problema è un altro.
Ovvero?
In Italia abbiamo un numero elevatissimo di procure sparse per il Paese, molte sono piccole, con 3-4 magistrati e questi non hanno modo di specializzarsi in una materia tanto complessa. Non è un problema di qualità dei magistrati ma di organizzazione. Serve un’organizzazione giudiziaria che metta a frutto le esperienze elaborate altrove sviluppando competenze specialistiche, letteratura, mezzi. Non si può andare avanti con grandi processi che si celebrano una volta ogni tanto e poi più nulla.
Ha un’idea precisa?
L’unica possibilità di fare un passo avanti è quella di istituire una procura nazionale per i reati ambientali. Lo propongo da tempo ma serve una volontà della politica e delle forze sociali che finora non è stata così forte.
Insomma, una super-procura. Ne propose una anche per gli infortuni sul lavoro…
Sì, l’ho fatto l’anno scorso a un seminario organizzato dal Senato alla presenza del Presidente della Repubblica. Napolitano si dimostrò molto interessato, poi purtroppo l’idea non è stata più raccolta e sviluppata. Forse un domani, con la ragionevolezza della storia…
E perché la politica non vuole procure specializzate?
Perché c’è il rischio che funzionino davvero.
IL CIELO MALATO SOPRA TORINO –
Torino
È un puntino rosso, più spesso una macchia sfumata sdraiata sulla direttrice sud-ovest verso nord-est. Laggiù, nel cuore del Piemonte, esattamente nel corridoio della prima pianura Padana tra le Alpi Cozie e le colline del Po. Non manca mai. É Torino - occhio rubino in un mare di verde-blu, così come appare sulle mappe del sito lamiaaria.it , sito di “previsioni di inquinamento atmosferico in Italia”.
CHE SOTTO la Mole si respiri aria non delle migliori è cosa nota, ma essere catalogati dal prestigioso Economist (è accaduto a gennaio) tra le venti città più inquinate del mondo (prima in Europa) in compagnia di megalopoli come Lanzhou (Cina centrosettentrionale, quasi 4 milioni di abitanti) e Città del Messico (9 milioni da decenni avvolti in una nuvola grigio fumo) è sembrato davvero troppo. E in effetti lo era: i dati ufficiali dell’Oms sulle venti città più inquinate del mondo non contemplano il capoluogo piemontese, l’Economist ha corretto il tiro, ma il problema rimane. Eccome.
Secondo il rapporto Mal’Aria 2013 di Legambiente, Torino è la più inquinata tra le grandi città italiane. Nel corso del 2012 il livello dei Pm10 (particelle microscopiche dal diametro uguale o inferiore a 10 millesimi di millimetro) ha sfondato la soglia di legge dei 50 microgrammi per metro cubo d’aria 128 volte, con un valore medio della concentrazione nell’aria durante tutto l’anno di 61 microgrammi, con punte monstre di 233 microgrammi (esattamente un anno fa, il 18 febbraio 2012). Peggio hanno fatto solo Alessandria (123 sforamenti a 100 km di distanza dalla Mole) e Frosinone (120). Ma i dati torinesi sono verosimilmente alterati al ribasso, poiché il funzionamento di alcune centrali-ne di rilevamento della qualità dell’aria non sempre funzionano. Tre delle cinque postazioni sparse per la città hanno infatti una percentuale di dati validi che oscilla tra il 63 e il 92%. E anche sul versante delle ben più temibili e microscopiche Pm2,5 (per le quali esistono ancora pochi dati), l’area torinese è nettamente tra le peggiori d’Italia . E così per i biossidi di zolfo e azoto. Stupisce poi che il comune con l’aria più inquinata(almeno dal punto di vista delle polveri sottili) sia la piccola Carmagnola, 30 km a sud del capoluogo, con ben 137 sforamenti del livello Pm10.
La situazione è leggermente migliorata rispetto all’annus horribilis 2011, ma la tendenza sostanzialmente positiva dell’ultimo decennio sembra segnare il passo. Cosa accade nel cielo di Torino? Come può essere la più inquinata la città dove da tempo non sbuffano più le ciminiere delle cento e cento fabbriche della company town novecentesca? “Torino non è più inquinata di altre grandi città come Milano o Roma - racconta Claudio Cassardo, decente di Fisica dell’atmosfera all’Università di Torino - ma ci sono particolarità orografiche e climatiche che favoriscono al stagnazione dell’aria durante l’inverno. Per dirla molto semplicemente, a Torino d’inverno c’è poco vento, perché il bacino della provincia è chiuso da montagne e colline per tre quarti. In più, nei mesi freddi, è frequente l’inversione termica, ossia il fenomeno per cui in pianura la temperatura è più bassa che in altura. L’aria fredda è più pesante e dunque schiaccia a terra gli inquinanti”.
DUNQUE, bisogna rassegnarsi? “No di certo - risponde Cassardo - la situazione è molto seria, ma è chiaro che le cose, rispetto agli anni 70-80 del Novecento non sono certo peggiorate. La differenza sta nella quantità e qualità delle misurazioni, ieri praticamente assenti oggi, anche se non sempre, accurate. Negli anni 70, per esempio, la maggior parte delle abitazioni riscaldavano bruciando nafta, le cui emissioni di particolato non sono certo assimilabili a quelle del metano. E anche il parco automobili si è decisamente rinnovato”.
I possibili rimedi, anche dialogando con un esperto di fisica dell’atmosfera, alla fine sono sempre i più intuitivi: “L’inquinamento atmosferico è equamente distribuito tra emissioni delle automobili, riscaldamento e emissioni industriali, queste ultime - per la verità - sempre più rare in città. Il problema è immediato e politico: scoraggiare il traffico privato e incentivare il trasporto pubblico. Semplice”.
Semplice e rivoluzionario, in una città che ha toccato all’inizio degli Anni 70 il milione e 200 mila abitanti e che ha dovuto aspettare il 2006 (sette anni fa) per avere la prima linea della metropolitana. Bella e lucente ma purtroppo destinata a rimanere l’unica ancora per un bel po’. Il progetto della seconda linea è pronto. Sono i soldi ad essere un miraggio.
BRESCIA SENZA BUSSOLA: VELENI DA OGNI PARTE –
I punti cardinali di Brescia non lasciano scampo. A sud i bambini si ammalano di malattie respiratorie più che in altri quartieri; a nord da circa 10 anni, viene vietato a 25 mila persone di coltivare orti e gli alunni della “Grazia Deledda” non possono giocare nel giardino della loro scuola. A est sono sempre in agguato discariche di amianto mentre a ovest incombe un nuovo progetto per l’inceneritore.
SONO QUESTE le coordinate ambientali di una città candidata ad essere la prossima “bomba ecologica” che, come Ilva insegna, non è nata oggi e neppure ieri. Per tutelarsi l’attuale amministrazione comunale Pdl si limita a distribuire volantini e facendo spalluce, come sottolinea Stefania Baiguera mamma del comitato scolastico, persino alla richiesta inoltrata al sindaco Adriano Paroli di bonificare almeno il giardinetto della scuola “che non richiederebbe una cifra astronomica”. Le precedenti amministrazioni di centro-sinistra invece hanno semplicemente fatto come le tre scimmiette; chiudendo gli occhi, tappando orecchie e bocca. Il “nuovo” nemico centenario si chiama Caffaro: stabilimento del settore chimico fallito e defunto ma che continua a produrre inquinamento ancor più della stessa Taranto considerando che se in Puglia la quantità di diossine arriva a 351 nanogrammi per ogni chilo di terra, sotto il colosso bresciano le stesse sostanze tossiche raggiungono quota 325 mila nanogrammi. Secondo uno studio Asl del 2008, attorno al sito di Brescia, su un’area di 4 milioni di metri quadrati di terreno nel cuore della città, il tasso di inquinamento raggiunto è tale per cui le sostanze tossiche nel sangue degli abitanti, hanno concentrazioni di diossine quasi dieci volte superiori a quelle degli abitanti nei pressi dell’Ilva. Livelli altissimi di veleni cancerogeni quali Pcb (policlorobifenili ) prodotti nella totale inerzia delle istituzioni che in 12 anni dalla scoperta non hanno fatto nulla per la bonifica. Nel 2009 la Conferenza dei servizi ha stabilito una serie di interventi sulla falda acquifera a carico dell’azienda (oggi Snia) che a sua volta ha deciso la messa in liquidazione della stessa azienda Caffaro che un tempo regalava latte ai suoi dipendenti per depurarli da ciò che respiravano durante le lavorazioni.
BRESCIA è anche la città del termoutilizzatore e un piccolo comitato di cittadini si sta opponendo alla realizzazione di un impianto trattamento delle “ceneri leggere”. Per Fabrizio Tedoldi “è paradigmatico perché si tratta di una filiazione dell’inceneritore”. Brescia, tra le città più inquinate d’Italia e d’Europa aggiungerebbe così all’attuale sito con inceneritore e caldaia policombustibile “un ulteriore elemento di disagio e di pericolosità”. In questo quadro una notizia buona c’è e si chiama “Comitato spontaneo contro le nocività” che, pur mantenendosi autonomo da qualsiasi apparato politico/sindacale, è riuscito a bloccare la costruzione di una cava per amianto: da quattro anni sono in presidio permanente, vigili come sentinelle. “Dalla nostra esperienza si è costituita la rete antinocività bresciana” spiega Giovanna Giacopini. Per orientarsi nelle loro battaglie di civiltà:
www.antinocivitàbs.org , pagina facebook “Comitato Lamarmora per l’ambiente” www.ambientebrescia.it/Caffaro www.achab.info/acqua
MOLISE IGNORATO [Una regione regalata ai re dell’energia] –
Della centrale Sorgenia di Termoli si sa poco. La seconda città del Molise sembra derivare il nome da “interamnia”, ossia tra i fiumi: Biferno e Sinarca. Il primo è già esondato, nel 2003 e c’è chi da queste parti pronostica un secondo Vajont, sotto la minaccia della diga Liscione.
L’ultimo posto, secondo i critici, dove avrebbe senso mettere una centrale elettrica. Così ha pensato la procura di Campobasso che ha aperto un fascicolo sulla concessione dei permessi ipotizzando l’abuso d’ufficio a partire da Michele Iorio, presidente della Regione dal 2001. Accuse anche ad assessori e dirigenti dell’impresa. Del resto associazioni e comitati locali da anni puntano il dito contro un’amministrazione molto disponibile con i produttori di energia di ogni genere. Ma lo scorso maggio è arrivata la sentenza che mette la parola fine sulla valanga di polemiche: tutti assolti. L’eterno governatore si candida anche questa volta. Contro di lui Massimo Romano della lista Costruire Democrazia (Arancioni e Oscar Giannino). Programma semplice: sapere quanta gente muore di tumore in queste valli. La richiesta, dice Romano, è di “una mappa dell’inquinamento da incrociare con il registro tumori che pure manca: per capire quante “Ilva” ci sono in Molise”.
UN FAZZOLETTO di terra di rara bellezza, 4.500 chilometri quadrati di valli che finiscono con borghi e rocche: un grande orto botanico con orsi, daini, cervi, lupi e camosci. In Molise quello che non fa parte del Parco nazionale è oasi di Wwf e Lipu. Eppure, gli appena trecentomila residenti (poco più di un quartiere di Roma) sembrano aver bisogno di due industrie chimiche e otto centrali elettriche per lo più alimentate a spazzatura (presumibilmente di altre regioni, visto che quella dei molisani non basta a fare un falò). Alle quattro esistenti (Termoli e Isernia), se ne aggiungono altrettante nell’area matese fino a oggi polo archeologico e speleologico e presto anche polo dell’immondizia. La zona è quella confinante con il casertano dove il business del riciclaggio dei rifiuti e quello dei voti vanno spesso a braccetto. “Qui distinguere destra e sinistra non è facile”, spiega Romano. Il candidato del Pd si chiama Paolo Di Laura Frattura, un passato in Forza Italia per Iorio e ora sostenuto da Mario Pietracupa cognato del suo ipotetico rivale Pdl, Aldo Patriciello: “Molto forte in provincia di Caserta e a Casal di Principe”, sottolinea Romano. Nel curriculum di Particiello spicca una condanna definitiva per illecito finanziamento. Tra le note caratteristiche di Frattura, invece, la Proter srl che farà la nuova centrale matese a Campochiaro. Il candidato Pd rassicura: “Ho ceduto le mie quote dell’impianto al marito della mia segretaria a titolo gratuito”. Conflitto d’interesse scongiurato, sostiene lui.
Agli abitanti di questa regione, più che altrove, girano vorticosamente le pale. Eoliche. Oltre tremila: l’effetto non è quello dei romantici campi olandesi, piuttosto quello di un enorme astronave. Sull’Adriatico non va meglio: pronto il progetto Powered per pale eoliche al largo delle coste per fare compagnia all’impianto petrolifero off shore di Edison. È dello scorso 25 gennaio l’ultima denuncia del Wwf: sversamento testimoniato dai gabbiani sporchi. L’azienda smentisce, la procura apre un fascicolo a carico di ignoti.
TRA CHIMICA e centrali, quanto si sono arricchiti i molisani è presto detto: nulla. Secondo l’Istat, il reddito medio è sceso negli ultimi anni: meno 0,2% dal 2008 contro un più 0,4% del resto della nazione. Penultimo posto in Italia, 15mila euro a famiglia.
Diversa sorte per Edison (pale eoliche e petrolio) con ricavi 2012 di 12,8 miliardi. Sorgenia di De Benedetti (pale e centrale) a settembre segnava ricavi per 1,76 miliardi, più 13,2%. Insieme fanno due volte e mezzo il pil molisano.
ROMA E DINTORNI [Malagrotta, un “Capitale” d’immondizia] –
Malagrotta, nomen omen. Nel nome il destino di un’area, a nord di Roma, che ospita la discarica tra le più grandi d’Europa. Quando percorri la strada, tra camion e cave di tufo, per trovare l’invaso basta seguire i gabbiani. Le colonie di uccelli svolazzano e cercano cibo tra quei rifiuti che ogni giorno vengono smaltiti senza subire alcun trattamento: e parliamo di 1.200 tonnellate.
PER QUESTO c’è una procedura di infrazione della commissione europea contro l’Italia: il rischio è una multa da mezzo milione di euro al giorno. In una superficie di 160 ettari di terreno, la montagna di pattume è venuta su raccogliendo i rifiuti dei romani, oltre 50 milioni di tonnellate, oltre un milione all’anno. La discarica ha visto transitare in Campidoglio giunte di ogni colore, democristiani, socialisti, post-comunisti fino a quella, a tratto nero, di Gianni Alemanno. Ma è sempre lì. I sindaci passano, come le promesse di chiusura del sito. Il Pdl romano, nell’estate 2011, aveva coperto la città di manifesti: “Dopo 35 anni chiude Malagrotta, grazie ad Alemanno e Polverini”. L’ennesima ecoballa. “Non ha idea di quante ne ho sentite di queste promesse – racconta Sergio Apollonio, presidente del comitato Malagrotta – alla fine sono rimaste solo parole”. Malagrotta supplisce alle carenze degli amministratori. Roma è poco sotto il 30 per cento di differenziata, la legge prevedeva il 65 entro il dicembre dello scorso anno. A fine dicembre il commissario Goffredo Sottile ha prorogato la vita di Malagrotta per altri 6 mesi. Roma è in stato emergenza, nella gestione rifiuti, dal luglio 2011. Uno stato di emergenza, bocciato, nei giorni scorsi, dalla commissione petizioni del Parlamento europeo. Malagrotta non è solo pattume. Oltre la discarica c’è anche un gassificatore, al momento spento, e i Tmb, impianti di trattamento meccanico biologico, nella cittadella “ambientale” di Manlio Cerroni. Poco distante altri insediamenti come una raffineria e l’inceneritore di rifiuti ospedalieri. L’istituto di ricerca Eurispes, in un suo rapporto, l’ha definita: “una delle aree più a rischio d’Italia per la complessa situazione ambientale” evidenziando l’urgenza di un risanamento. A fine 2011, la Procura della Repubblica di Roma ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo, per capire se la morte fulminea per tumore di quattro persone, tra il 2008 e il 2010, sia stata provocata dalle esalazioni della discarica.
L’ISPRA, NELL’ULTIMO studio del settembre 2011 sull’area, aveva denunciato: “Una contaminazione diffusa delle acque sotterranee, esterne e interne al sito, da parte di metalli e inquinanti”. Cerroni, dal canto suo, ha sempre ribadito che la discarica non inquina perché isolata dal terreno con un polder di protezione e non rilascia alcuna esalazione nociva. Ora gli esperti del Politecnico di Torino stanno realizzando uno studio sullo stato delle acque di Malagrotta.
Per uscire dall’emergenza il governo Monti ha confermato commissario Goffredo Sottile per altri sei mesi. Nel decreto di nomina veniva anche disposto, per un parte dei rifiuti di Roma, il trattamento in impianti fuori provincia. Il decreto è stata bocciato dal Tar. “ Al momento – racconta Sottile al Fatto – sono un commissario sospeso, un libero cittadino”. Tra gli ultimi atti di Sottile c’è l’individuazione di Monti dell’Ortaccio come discarica provvisoria, un sito a poche centinaia di metri dall’invaso di Malagrotta e con lo stesso proprietario. I cittadini sono pronti alle barricate, la Procura di Roma, intanto, indaga proprio su Cerroni e sul suo sistema di gestione dei rifiuti. “Ci opporremo in ogni modo ad una nuova discarica. Vogliamo tornare a vivere. Spero ci salvi l’Europa – conclude Sergio Apollonio – dall’incapacità e dall’indolenza di questa politica”.
LA COLLINA DEI VELENI DAVANTI AL MARE TROPICALE [Un milione di metri cubi di terra da ripulire a Minciaredda, nell’ex polo petrolchimico di Porto Torres. Intanto gli indici tumorali schizzano verso l’alto] –
La collina dei veleni è ancora lì, intatta. Un milione di metri cubi di terreno da ripulire. Il luogo si chiama Minciaredda e sta dentro il recinto di 1200 ettari dell’ex petrolchimico di Porto Torres. Dal 1968 al 1995 è stata usata, prima dalla Sir di Rovelli, poi da Montedison e Eni, come discarica di tutti i veleni prodotti come scarto o come risultato della pulizia degli impianti dall’interno dell’area del petrolchimico. È un po’ lontana dagli impianti, sul lato che guarda verso Fiume Santo e la centrale ex Enel, ora dei tedeschi di E.On. E, oltre, verso Stintino e l’Asinara. Esattamente dieci anni fa un blitz degli indipendentisti dell’Irs guidati da Gavino Sale trasformò un primo sondaggio del terreno nella rivelazione del bubbone, della collina dei veleni appunto.
TUTTI LO SAPEVANO. Migliaia di operai transitati in trent’anni dentro il petrolchimico sapevano che lì c’era una discarica regolarmente autorizzata ma che nessuno controllava. Come sapevano, e recentemente qualcuno di loro lo ha raccontato, che molte sostanze nocive venivano scaricate a terra e impregnavano il terreno nelle zone degli impianti di produzione, che le condutture, allora tutte interrate, perdevano sostanze chimiche senza nessun intervento. Tutto finito nella falda d’acqua sotterranea: per liberarsi dei veleni non servivano tubi, bastava lo scarico a perdere o, come sembra accadesse, lo scarico pompato a pressione sotto terra per farlo arrivare rapidamente alla falda e da lì in mare. E non solo in mare.
Ora qualcosa si muove: Syndial, la società che l’Eni ha riconvertito per lanciarla nel business mondiale delle bonifiche, è all’opera da mesi per definire le strategie per fare pulizia. Eni, attraverso Versalis, la sua nuova creatura che si occupa della cosiddetta chimica verde, in joint venture con Novamont, che porta brevetti e know how, ha creato Matrica, la società che farà ricerca e produzione di chimica verde a Porto Torres, anche realizzando una nuova centrale elettrica a biomasse che ha sollevato molte perplessità. Per salvare la faccia verde sembra quindi che Eni abbia deciso di fare quel che deve: ripulire, essendo l’ultimo proprietario, tutto ciò che è stato pesantemente inquinato dai suoi predecessori e dalle sue aziende. Ottocento milioni di euro di investimento, cento per la collina di Minciaredda e settecento per succhiare i veleni finiti nella falda, con metodi ancora da decidere. Per ora siamo allo smantellamento degli impianti abbandonati, alla pulizia dai ferri vecchi e alla progettazione delle bonifiche vere. Qualcosa di concreto, dicono i vertici di Syndial, si dovrebbe cominciare a vedere dal prossimo mese di marzo. Ma dopo mille promesse e rinvii nessuno è certo di niente. Intanto, tenute per decenni sottotraccia dalla paura di perdere migliaia di posti di lavoro, ora che la chimica ha smantellato escono allo scoperto le denunce sul disastro non solo ambientale, ma soprattutto umano. I dati raccolti dalla Asl di Sassari e studiati a livello nazionale e regionale lanciano un drammatico allarme per tumori e altre malattie che colpiscono chi lavora nell’area del petrolchimico e chi ci vive vicino.
CINQUE MESI fa l’Istituto superiore di sanità, con il progetto Sentieri, confermava all’interno di un quadro nazionale l’allarme per i dati epidemiologici relativi alla zona industriale di Porto Torres e a quella mineraria e industriale del Sulcis e di Sarroch. Lo studio confermava anche i drammatici numeri resi noti da un dossier molto più dettagliato della Regione che individuava ben 18 aree a rischio, tra industriali, militari, minerarie e urbane, con il coinvolgimento di 71 comuni e di 850mila abitanti. Le aree urbane sarde, si leggeva nel rapporto, non hanno più nessun vantaggio ambientale rispetto alle altre aree metropolitane italiane. Ma intanto ci sono dati epidemiologici molto più alti della media nazionale nelle zone militari o ex militari di Salto di Quirra e della Maddalena, come nelle zone minerarie di Iglesias e Arbus. Tra le aree industriali dati devastanti a Portoscuso, Sarroch, San Gavino.
E, NATURALMENTE, a Porto Torres, dove il dossier parlava di “mortalità in eccesso per tutte le cause del 4% per gli uomini e del 9% per le donne”. In particolare “per le malattie respiratorie (+8% e +28%), per le malattie dell’apparato digerente (+13% e più 21%)”. Dati molto superiori alla media soprattutto per la mortalità da tumori nel fegato: +18% per gli uomini e +21% per le donne. “A Porto Torres – concludeva il rapporto – è stato osservato l’eccesso più consistente di morti per tumori del sistema linfoemopoietico sia negli uomini (99 casi osservati rispetto agli 84 attesi: +18%) sia nelle donne (73 rispetto a 68 attesi: +7%)”. Numeri spaventosi. Per ridurre i quali siamo ancora nella fase delle buone intenzioni.