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 2013  febbraio 17 Domenica calendario

PERCHÉ IL PAPA LASCIA


La rinuncia di Benedetto XVI è una notizia choc. Ci vorranno settimane, mesi per capire i motivi di una scelta che rimarrà indelebile nella storia della Chiesa riflettendosi sui suoi momenti cruciali, a iniziare dal prossimo conclave. Nell’ultimo anno sono accaduti due fatti impensabili a due persone unite dallo stesso destino. Il maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele, ha deciso di rendere note le spine della Curia Romana, consegnandomi decine di documenti che ho pubblicato nel libro “Sua Santità”. Ha deciso questo «per il bene della Chiesa», considerando la scelta come unica via «per aiutare il Papa», violando contraddittoriamente la sua fiducia. Gabriele, cattolico, devotissimo al pontefice tanto da vederlo come proprio padre, per aiutare la Chiesa ha compiuto un gesto estremo affinché tutti conoscano quanto accade e ciò permetta di superare quei problemi che lasciano in stallo la Curia. Pochi mesi dopo un’altra scelta, anche questa che stupisce il mondo ancor più, lasciando disorientata non solo la comunità cattolica matutti noi, credenti e non credenti. Un passo indietro «per il bene della Chiesa». Quando frequentavo Gabriele, per settimane, mesi, ho sempre percepito la sua inquietudine, il suo senso profondo di smarrimento e impotenza per vicende della Curia Romana che viveva con dolore come profonde ingiustizie. «Hai paura, Paolo?» gli ho chiesto un giorno. «Sì -mi rispose - temo che il Papa non abbia la forza per superare queste avversità, per cacciare i mercanti dal tempio ». Leggevamo insieme le carte con gli occhi lucidi, Gabriele temeva che questo magma nero potesse come togliere luce al suo pontefice. Studiando le carte ho percepito e condiviso questo suo stato d’animo, ritenendo la scelta di Gabriele figlia del suo amore. Mai avrei pensato che lo arrestassero, mai avrei pensato che Benedetto XVI facesse un passo indietro.
Però oggi va riconsiderato tutto quanto accaduto. Cerco di rileggerlo. E un episodio che tenevo nell’anticamera della memoria assume rilievo. Risale ai primi di giugno, pochi giorni dopo la visita di Benedetto XVI a Milano, nella città in cui vivo, per l’incontro mondiale delle Famiglie. Volli parlarne con il sindaco della città, Giuliano Pisapia, un avvocato ateo di sinistra, un professionista perbene, il primo cittadino che aveva avuto un colloquio privato con il pontefice. Incontrai Pisapia il giorno dopo il colloquio con Ratzinger. Il sindaco era scosso, turbato. Mi disse che aveva letto amore negli occhi del Papa, ma aggiunse: «Sono colpito da quello sguardo. Benedetto XVI ha paura». Gli chiesi: di cosa? «Ho avuto un profondo disagio, Ratzinger mi parlava ma era come impaurito. E poi sai, sul sagrato del Duomo avevamo previsto una sedia per lui, una per il cardinale Scola e un’altra per me. Solo poco prima della cerimonia ci hanno avvisato dal Vaticano che sarebbe stato presente anche il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone e che bisognava aggiungere un’altra poltrona. Il cerimoniale ha avuto poco tempo per adeguarsi a questo cambiamento ». Ho pensato all’inizio che forse Pisapia, il sindaco, si era emozionato, suggestionato, ma scartai subito questa ipotesi: è una persona razionale, pragmatica, che sa bene cos’è la paura avendola conosciuta per decenni negli occhi dei suoi clienti, nei tribunali, ovunque. È uno dei più conosciuti avvocati italiani, dopo decenni di tribunali capisci chi dice la verità, chi mente, chi teme. Ma di cosa ha paura il Papa? Forse della forza di quegli «individualismi», quelle «divisioni» che mostrano «una Chiesa deturpata dalle rivalità», come ha affermato il Santo Padre all’indomani dell’incredibile annuncio di fare un passo indietro. Ancora, la memoria si affolla di ricordi, frasi, di questi due protagonisti. Ripercorro gli incontri con Gabriele: «Benedetto XVI non sempre viene tenuto informato di quanto accade in curia - mi diceva Gabriele - talvolta critica Bertone ma non ha alcuna intenzione di cambiare il proprio segretario di Stato. Anche perché questo getterebbe ombra sul pontificato, e poi dovrebbe trovare un sostituto. Secondo me non ne ha la forza». «Mandare a casa l’ami - co Bertone - mi confidava il cardinale De Paolis - è impensabile, certe figure non possono essere sostituite ». La soluzione del problema ne creerebbe uno maggiore: «Sarebbe come mettere un sigillo di verità a tutte le accuse che gli vengono rivolte».
Ecco quindi una prima ipotesi per spiegare la paura. Una paura rispetto alla gestione di una Curia finita in stallo: da una parte il cambiamento, le riforme, dall’altra gli interessi opachi, una visione poco ratzingheriana del potere. La consapevolezza che fare un passo indietro avrebbe azzerato cariche e poteri, e che dal nuovo conclave deve uscire una maggioranza solida del 2/3 dei porporati. Una maggioranza che deve aritmeticamente superare i conflitti. Una paura più profonda, sicuramente in Gabriele, visto che questo «è uno Stato, piccolo certo, ma dove puoi fare una strage e uscire impunito», così mi confidò una volta facendo riferimento alla strage delle guardie svizzere del 1998.
Criteri gestionali
E oggi? Sulla scrivania del Papa, nell’appartamento pontificio al terzo piano del palazzo Apostolico, rimangono gli ultimi dossier che dal 28 febbraio Benedetto XVI lascerà al camerlengo, il cardinale Tarcisio Bertone. Sarà proprio quest’ultimo a seguire l’ordi - naria amministrazione di tutto il Vaticano fino alla conclusione del conclave. Per capire la scelta di Benedetto XVI bisogna partire quindi proprio da qui, dalla sua scrivania, dall’ufficio arredato con cura e semplicità. Se quelle quattro mura potessero parlare, oggi avremmo un quadro più nitido, preciso di quanto accaduto; parlano però i documenti, le carte che in questa vicenda complessa e dalle molteplici letture rimangono i pochi saldi punti di certezza.
Su quella scrivania fino a qualche giorno fa c’erano le carte della questione della nomina del presidente dello Ior - carica rimasta per mesi vacante dopo l’estromissione di Ettore Gotti Tedeschi. Ratzinger ha indicato poche ore dopo l’annuncio delle dimissioni che non intendeva procrastinare l’attesa. Ha deciso subito la nomina del banchiere tedesco Ernst von Freyberg. Non poteva lasciare la decisione al pontefice che avremo tra un mese, dopo aver atteso tanto? Sulla scrivania c’è un altro fascicolo delicato: la questione della riforma delle contabilità di alcuni enti benéfici. Questione costola della più complessa decisione non più rinviabile di trovare due soluzioni. La prima riguarda la risposta al calo delle offerte, che riducono i margini di azione. La seconda tocca i diversi criteri gestionali che si riscontrano nei bilanci dei singoli istituti, enti che compongono la Chiesa nel mondo. Da tempo si ritiene necessario omologare le scritture contabili, per evitare non solo usi impropri ma soprattutto dispersioni di ricchezza. Si teme tuttavia una reazione dalle realtà territoriali, che potrebbero vivere questa scelta come un’ingerenza centrale. Il Papa segue quindi le vicende più rilevanti. Non è dunque vero che è solo un fine teologo. Partecipa per quanto lo informano e, spesso, si trova di fronte a quegli scontri, quei blocchi di potere che, entrando in collisione tra loro, rallentano, anestetizzano l’opera riformatrice portata avanti.
È accaduto con la storia di monsignor Viganò, il numero due del governatorato, l’ente che segue spese, appalti, forniture e servizi prestati nel piccolo Stato. Viganò denunciò casi di corruzione, spese gonfiate, appalti poco chiari, e poi si ritenne vittima di una congiura ai suoi danni ordita addirittura dal segretario di Stato Bertone. Viganò scrisse tutto al Papa, lettere pesantissime che segnalavano vicende oscure. Ci furono dei colloqui privati tra Viganò e Ratzinger. Colloqui che turbarono il Santo Padre tanto che,una volta salutato il monsignore, Ratzinger si confortava nella cappella privata a pregare, rinviando gli impegni in agenda. Certo non per paura, ma per trovare conforto, indicazioni e guida nella preghiera.
Prelati compiacenti
Così lo Ior, la banca nevralgica per gli investimenti e per il lato più delicato che tocca questa teocrazia, ovvero il rapporto con il denaro. Eravamo nel 2009 quando proprio Ratzinger e Bertone scelsero Gotti Tedeschi, con l’incarico di mettere l’istituto al passo con le norme anti riciclaggio. Sono passati quattro anni e ancora oggi quella banca è come un grande profondo armadio pieno di scheletri. Ogni tanto emergono dagli angoli del pianeta vicende che vedono dei conti intestati a sacerdoti, suore, prestanomi, snodi essenziali di storie di corruzione, malversazione, truffe e di criminalità finanziaria. Per questo dei blocchi hanno cercato di porre un argine all’indispensabile richiesta di trasparenza che veniva dagli organi di controllo internazionali chiamati a valutare la bontà della banca. Perché non si svuotano invece i cassetti, rispondendo alle richieste di assistenza giudiziaria dei magistrati impegnati in inchieste che toccano la banca? E soprattutto quanti, quali sono i conti scomodi di civili che hanno trovato sacerdoti compiacenti per far custodire nel caveau della banca del Papa i loro denari imbarazzanti?
Sono due questioni - Ior e Viganò- che hanno pesato nella Curia Romana, e che sono arrivate sino alla scrivania del Papa. Non è un caso che una delle ultime riunioni prima dell’annuncio delle dimissioni avesse avuto al centro questioni economiche e finanziarie. Fino ai colloqui con esperti di queste vicende, come il cardinale Attilio Nicora - uno dei riformatori, ha portato avanti anche in solitudine la battaglia per la trasparenza - e Jean-Louis Tauran. Vicende che hanno contribuito - a mio avviso - alla sua umile scelta di fare un passo indietro.
Ci sono stati poi altri elementi che hanno determinato un’accelerazione: la fatica fisica, certo, magari persino una malattia data per certa da diverse fonti,e la conclusione dei cardinali della commissione sulla vicenda dei documenti riportati nel mio libro. Sui primi due non mi dilungo perché se n’è ampiamente scritto sui giornali nel mondo. Sulla relazione invece,
in mano solo al Papa e ai cardinali che l’hanno scritta, può essere utile una riflessione. Quella relazione descrive un mondo diverso nella Curia romana dai colori pastello che leggiamo. E che necessita di un intervento forte, di riforma. Ma «il Santo Padre è stanco di quanto vede- mi confidava Paolo Gabriele, l’ex maggiordomo del Papa già oltre un anno fa - ma non ha la forza di portare avanti certi cambiamenti. Deve essere così, perché altrimenti resta incomprensibile come mai non reagisce di fronte a quanto accade».
Per amore della Chiesa
Per una singolare coincidenza proprio in questi giorni Gabriele ha ripreso a lavorare, dopo la detenzione per avermi passato fotocopie di documenti e un periodo con la sua famiglia. Non più nell’apparta - mento pontificio, ovviamente, ma all’ospedale Bambin Gesù di Roma, di proprietà del Vaticano. Non ho più sentito Paolo da quando è iniziata questa vicenda. Mi dicono però che dipinge molto, recuperando l’esperienza del liceo artistico. Nature morte, arte figurativa. A volte ho avuto la tentazione di telefonargli, di incontrarlo. Ma non è il momento. Tutto quanto è accaduto nell’ultimo anno vuole ancora tempo per essere compreso in ogni sua luce e ombra. È ancora aperta su Gabriele l’inchiesta vaticana, non voglio metterlo in imbarazzo. Mi è dispiaciuto solo che non si sia mai raccontato bene chi fosse Paolo Gabriele, uomo semplice ma genuino. Ha un fratello più grande, una sorella più piccola. Un passato come tanti: da adolescente aveva un rapporto un po’ tempestoso con il padre, dirigente nella pubblica amministrazione. Portava i capelli lunghi e il padre non voleva, tanto che qualche volta Paolo se ne andava da casa. Chiedeva ospitalità a casa di amici, come il figlio di un importante regista. Al liceo ha conosciuto la moglie Manuela. Si amano da sempre, un matrimonio che prosegue da 18 anni, felice. Poi la prima occasione di lavorare nel grande mondo, la famiglia della Chiesa. È la chiesa dei polacchi a Roma vicino al Tevere, tanto cara a Wojtyla, dove va ad aiutare il parroco. Le leggende dicono che nello stesso periodo Gabriele puliva i bagni in Vaticano. Un giorno un alto prelato li trovò tanto puliti da voler conoscere chi li teneva così in ordine. Fu il passo che lo portò oltre le mura, nel cuore del Vaticano. A metà degli anni ’90, quando andò in pensione un membro della famiglia pontificia, Gabriele dopo la valutazione - un colloquio con l’attuale cardinale di Cracovia Stanislaw Dziwisz - vi entrò a far parte. Ho letto di tutto su di lui: faceva comodo farlo passare per un ladruncolo, come se la gente possa credere che si affida la cura del Santo Padre al primo che capita. In realtà Paoletto era amato da tutti.Wojtyla gli era affezionato, lo chiamava Paulus e gli voleva bene, al punto che gli diceva che era stato il cuore misericordioso di Maria Faustina Kowalska a mandarlo lì, la santa polacca canonizzata proprio da Giovanni Paolo II nel 2000. Gabriele era un servitore devoto di Wojtyla, amico del maggiordomo che lo precedette nell’incarico che coprì poi con Ratziger. Negli ultimi anni in tanti si rivolgevano a lui per segnalare un disservizio, un problema, qualcosa che non funzionava. Chiunque ha camminato con lui in Vaticano mi ripete che spesso qualcuno lo fermava per svelargli storie, retroscena, nella speranza che li condividesse poi con Benedetto XVI. Gabriele non era un maggiordomo che apriva la porta e reggeva l’ombrello. Aveva una sua scrivania elegante, uno scrittoio dove evadeva anche qualche piccola pratica di corrispondenza o di consegna di somme allo Ior secondo le indicazioni di monsignor Georg, il fedele indispensabile segretario di Ratzinger. Diversi anni fa, quando lui confessò che non era molto bravo a usare il computer e che temeva di non essere all’altezza, il Papa gli disse: «Noi ti scegliamo non per quello che sai fare, ma per quello che sei».
Essere vicini al Santo Padre deve dar luce. E ogni volta che ho incontrato Paolo, ho percepito la luce nei suoi occhi. Mille volte i giornalisti mi hanno chiesto perché mi ha consegnato alcuni dei documenti che ho pubblicato poi nel mio saggio. Ho sempre risposto con l’unica parola che ritengo giusta: per amore della Chiesa e del Santo Padre, sollevando superficiale stupore.Ma come, chi ama il Papa fotocopia i documenti e li porta a un giornalista, violando la sua fiducia? Pare impossibile. Ma sono giorni, settimane, mesi che spesso accadono fatti imprevedibili nella Chiesa, fatti di difficile interpretazione. E che rimarranno scolpiti per sempre. Anche oggi Ratzinger per il bene della Chiesa fa con umiltà un passo indietro, provocando immenso stupore. E ieri pareva e pare impossibile che Gabriele fotocopiasse documenti dal 2006 senza che per anni nessuno se ne fosse mai accorto. E quando uscì il libro venni attaccato per aver fatto il mio mestiere.
Voci di trame e complotti
Oggi la scelta viene riletta, il libro riesaminato cercando le dirompenti verità che possono aver spinto Benedetto XVI a una scelta inattesa. Ieri pur di non leggere quei documenti si è dato spazio a una campagna mediatica per trovare le fonti di Nuzzi, come se fosse più importante non esaminare le cose che non vanno, ma scoprire chi si permette di farle conoscere. Oggi si ritiene che quelle carte possano essere chiavi per capire cosa accade. Dentro e fuori le mura che proteggono il piccolo e potente Stato nel cuore di Roma. Per capire questo un giorno feci a Gabriele una intervista coperta per il mio programma su La7. C’eravamo visti per un saluto, tra due persone che stanno facendo una scelta senza ritorno. Mangiavamo una pizza nella cucina della mia casa romana, non lo avvisai in anticipo per non preoccuparlo e gli dissi all’ultimo minuto che in soggiorno c’era una mia troupe. «Paolo, dobbiamo spiegare quello che succede». Lui accettò per motivare un gesto. Era emozionato. Io quanto lui. Credevo che le sue risposte avrebbero fatto capire che di fronte al peso delle denunce, delle storie, dei documenti, si imponeva il desiderio primario di far conoscere tutto, perché solo l’emersione dei fatti aiuta nella trasparenza. Era accaduto già nel 2009 quando con il mio libro “Vaticano SpA”, con la storia della più grande tangente mai scoperta in Italia, pulita nella banca del Papa, venne mandato a casa dopo vent’anni l’allora presidente dello Ior Angelo Caloia. E proprio quel libro convinse Gabriele a contattarmi. Mi sbagliavo. L’intervista mandata in onda con il volto coperto e la voce modificata alimentò ancora la caccia alle mie fonti informative. Se si fosse saputo che era nata quasi per caso, che non c’era dietro alcuna cospirazione, forse la storia sarebbe andata diversamente. Forse. Come quando mesi dopo cacciarono il presidente dello Ior Gotti Tedeschi. Se in Vaticano non avessero sparso la voce velenosa dell’ennesimo complotto e trama contro la Chiesa e il Papa, ovvero che quel banchiere vicino all’Opus Dei voleva far commissariare lo Ior dalla banca centrale italiana, la storia sarebbe andata diversamente. Ma ormai siamo a poche settimane dal conclave, l’unica speranza che resta per ritrovare chiarezza è che la scelta dei cardinali abbia la stessa forza, lo stesso coraggio di quella fatta daBenedetto XVI. Che ora vuole «rimanere nascosto al mondo». Per il bene della Chiesa. Senza più paura.
gianluigi.nuzzi@la7.it