Fabrizio Galimberti, Il Sole 24 Ore 17/2/2013, 17 febbraio 2013
LA PARTITA INTERNAZIONALE DEL BUSINESS AGRICOLO
Riprendiamo il discorso sull’agricoltura, avviato la settimana scorsa. Il settore agricolo, come abbiamo visto, è tutto sommato piccolo. In America copre meno dell’1% dell’attività economica, in Italia il 2% solamente. Eppure, è un settore che fa rumore.
Periodicamente sui giornali appaiono manifestazioni di agricoltori irati che invadono Bruxelles con trattori e mandrie, o nel Nord Italia bloccano strade e ferrovie per protestare contro le "quote latte". Nel bilancio dell’Unione europea il supporto all’agricoltura fa la parte del leone. Nei negoziati che periodicamente si svolgono fra tutti i Paesi del mondo per togliere gli ostacoli alla circolazione delle merci, le diatribe relative all’agricoltura sono fra le più accese. Insomma, perché questa sproporzione fra l’importanza economica del settore e le passioni che scatena?
La ragione fondamentale sta nel fatto che l’agricoltura, come si diceva domenica scorsa, se pure occupa una parte piccola dell’economia, occupa una parte grande nella memoria collettiva di un popolo; in fondo, discendiamo tutti da agricoltori. E dalle città soffocanti sciamiamo volontieri nelle campagne. Sentiamo una solidarietà segreta con la terra, e gli agricoltori lo sanno. Poi, il cibo occupa una parte importante nel comune sentire del popolo. Se è locale è meglio: l’aglio che viene dalla Cina o gli asparagi fuori stagione dal Perù sono delle curiosità, e magari li compriamo perché ne abbiamo bisogno, ma forse ci sentiamo un po’ colpevoli. E naturalmente, il cibo è strategico. Istintivamente, tutti vorremmo essere autosufficienti, ma in una moderna economia non è possibile né desiderabile: è meglio andare a comprare le cose dove costano di meno o dove le sanno far meglio, dai giocattoli cinesi alle videocamere giapponesi. E in ogni Paese si è riluttanti, per esempio a cedere agli stranieri la proprietà di alcuni settori strategici, come le telecomunicazioni o l’energia. C’è sempre il sospetto: ma cosa succede se quelli spengono l’interruttore? E questo vale ancora di più per il cibo. Un Paese che importi tutto il proprio fabbisogno alimentare si sentirebbe magari come quei veneziani che dovettero cedere all’assedio in uno degli eroici episodi del Risorgimento: «Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca...», come nell’ode di Arnaldo Fusinato.
Insomma, produrre cereali, verdure, barbabietole e allevare il bestiame per la carne, il latte e il burro, è cosa buona e giusta, equa e salutare. Ma come la mettiamo se il burro che viene dalla Nuova Zelanda, malgrado il costo del trasporto, è più economico del nostro? Cosa facciamo? Compriamo il burro neozelandese e mandiamo a casa gli agricoltori nostrani, che allevano mucche e da innumeri generazioni le mungono e producono il burro agitando la zangola? Non sia mai! Non si possono spopolare le campagne e abbandonare alle erbacce i campi ubertosi dove pascolano le mucche...
Difendere l’agricoltura, quindi, vuol dire anche difendere l’ambiente, preservare quel felice matrimonio fra uomo e natura che sono le terre coltivate. Questa è la ragione per cui il protezionismo - cioè gli ostacoli alle importazioni volti a difendere i produttori locali - è specialmente forte in campo agricolo. Allora, come si risolve il problema del burro? Di solito si risolve così: il burro ha un prezzo locale, che dipende dai costi degli agricoltori; e un prezzo internazionale, che è tarato sulla domanda e offerta a livello mondiale e che risente dei costi dei produttori più efficienti. Se si vuole difendere la produzione locale bisogna imporre un dazio - una tassa sull’import - pari alla differenza fra il prezzo locale e il prezzo internazionale. Oppure si può versare questa differenza direttamente ai produttori nazionali: in questo caso questi ultimi venderanno al prezzo più basso ma ricevendo questo sussidio copriranno i loro costi.
Ma poi si pone un altro problema: quello della sovraproduzione. Se gli agricoltori hanno un prezzo "garantito" per quel che producono, allora saranno invogliati a produrre il più possibile, senza preoccuparsi di quello che il mercato può effettivamente assorbire. In passato, nella Comunità europea, si sono date molte situazioni di questo genere. La produzione in eccesso, almeno nei casi in cui era possibile immagazzinarla, veniva appunto stoccata da qualche parte: si crearono così le famose "montagne di burro" o i "laghi di vino"... Si creava così uno spreco costoso, perché era il bilancio della Comunità europea - e quindi di tutti i Paesi che la compongono - che doveva finanziare questi sussidi.
Per ovviare alla sovraproduzione in molti casi le autorità europee introdussero il sistema delle quote: agli allevatori, per esempio, veniva dato un obiettivo in termini di quantità di latte da produrre, e venivano previste multe per chi eccedeva nella produzione. Il sistema poteva funzionare, se non fosse per il fatto che molti produttori, per ignoranza o per mancati controlli, finivano col produrre oltre la quota consentita. La questione delle "quote latte", e delle relative multe che dovevano essere pagate da chi aveva violato le quote, portò a colorite proteste, specie nel Nord Italia.
Il protezionismo agricolo non è caratteristico solamente dell’Europa. Ne sono colpevoli quasi tutti i Paesi, a parte i produttori più efficienti (come nel caso della Nuova Zelanda) che hanno già il costo più basso di tutti.
La tabella qui sotto riporta la misura di questo protezionismo per un certo numero di Paesi. I più colpevoli sono i Paesi ad alti costi, come la Norvegia e la Svizzera. Il caso della Corea e del Giappone è anche emblematico: la maggior parte dei costo dipende dal supporto ai risicoltori. Dato il posto del riso nelle tavole e nell’inconscio degli asiatici, difendere i produttori locali di riso è una priorità: mai si potebbe immaginare un Paese asiatico che rinuncia a produrre riso!
La buona notizia, comunque, è che questi sussidi vanno, sia pur lentamente, diminuendo. È una buona notizia perché queste elargizioni, se pur fanno contenti i produttori, vanno a detrimento dei consumatori, che devono pagare i prodotti alimentari più di quel che pagherebbero se potessero acquistarli là dove costano di meno.
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