Sergio Rizzo, CorrierEconomia 18/02/2013, 18 febbraio 2013
INCHIESTE. I DANNI COLLATERALI DEGLI ILLECITI
Se Silvio Berlusconi è riuscito ancora una volta a scioccare tutti giudicando le tangenti «una necessità» per chi vende nel terzo mondo (ma l’India, che presto ci supererà per ricchezza prodotta, è terzo mondo?), il suo ex ministro Giancarlo Galan è stato ancora più esplicito, addirittura applaudendo chi ha eventualmente pagato la success fee, così l’ha chiamata. Formulando poi una funerea previsione per Agusta Westland. «Voglio vedere adesso chi comprerà gli elicotteri di Finmeccanica», ha sibilato.
Un salto indietro
Peccato che la «nuova Tangentopoli», com’è stata definita da Mario Monti, che ha fatto irruzione in questa surreale campagna elettorale, proponga scenari leggermente diversi dalle success fee. Con il sospetto che una bella fetta di quelli che una legge voluta dal governo di Bettino Craxi a metà dei rutilanti anni Ottanta qualificava «compensi di mediazione» sia in realtà tornata alla base per alimentare la corruzione e magari finire nelle casse dei partiti. Come ai bei tempi di Tangentopoli, appunto.
Certamente la giustizia farà il suo corso, accertando le eventuali responsabilità di chi continua a protestarsi innocente, sostenendo di aver agito nell’esclusivo interesse dell’azienda. E dobbiamo augurarci che sia andata effettivamente così.
Ma per la Finmeccanica il problema adesso non è certo quello dei suoi rapporti con il cosiddetto «terzo mondo».
Rete internazionale
Il fatto è che la prima industria manifatturiera italiana, che occupa più di 70 mila persone ed è anche la nostra principale azienda tecnologica, fa parte di una complessa rete di accordi internazionali che coinvolge Paesi come Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti. Dopo averla acquistata pagandola a carissimo prezzo e contro l’opinione dell’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, la Finmeccanica possiede negli Usa il gruppo Drs, committente dei servizi di sicurezza statunitensi.
Ben più serio del pericolo di non riuscire a vendere qualche elicottero è dunque il rischio reputazionale cui la Finmeccanica va incontro dopo questa faccenda. Ed è gravissimo che i politici non se ne siano resi conto prima che la bomba scoppiasse: sia quelli che si trovavano al governo in precedenza e per i quali le tangenti sono «una necessità», sia coloro che arrivati dopo di loro gridano ora a una «nuova Tangentopoli». Anche perché in ballo non c’è soltanto l’immagine internazionale della Finmeccanica, ma quella dell’intero Paese. Per ragioni decisamente non marginali.
Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, altra grande impresa pubblica che è sempre stata considerata una specie di «estensione» della diplomazia italiana in alcune aree geopolitiche sensibilissime, dal Medio Oriente alla Russia, è sotto inchiesta per un presunto giro di tangenti algerine. Anch’egli si protesta del tutto estraneo, ma la notizia ha inevitabilmente fatto il giro del mondo, insieme alle tensioni che hanno riguardato la Saipem.
Il Monte e gli altri
Il tutto mentre già una formidabile tempesta si era abbattuta su ex dirigenti del Monte dei Paschi di Siena e sul suo ex presidente Giuseppe Mussari. Non un banchiere qualsiasi, ma il presidente dell’Associazione bancaria: a capo della quale era stato collocato con il pieno sostegno di tutte le grandi banche, per conto delle quali aveva trattato gli accordi di Basilea. I magistrati sospettano che durante la sua gestione operasse al Monte una «banda del 5 per cento» capace di riscuotere mazzette anche su operazioni in perdita per la banca. E hanno formulato accuse pesantissime, come quella di aver ostacolato la Vigilanza, nascondendo alla Banca d’Italia allora guidata dall’attuale presidente della Bce Mario Draghi, dettagli fondamentali per comprendere come stavano realmente le cose. Non esattamente un buon viatico, nel momento in cui la vigilanza sulle grandi banche sta per passare a Francoforte, dove abbiamo sempre raccontato che il nostro sistema bancario è uscito dalla crisi finanziaria molto meglio di altri.
Né il contesto in cui queste clamorose indagini della magistratura si vanno sviluppando offre agli osservatori internazionali e ai nostri partner esteri uno spettacolo più confortante.
Rischi sistemici
Pochi giorni dopo che il presidente della Corte dei conti aveva utilizzato l’aggettivo «sistemica» accanto alla parola «corruzione», un cancro che si mangia secondo le stime dei magistrati contabili 60 miliardi l’anno, pari a metà di quanto il fenomeno costi all’intera Unione europea, nuove gravi imputazioni si sono abbattute su uno dei personaggi politici più potenti del Paese: Roberto Formigoni, che ha governato per diciassette anni (secondo in Europa per durata al solo presidente della Bielorussia Aleksandr Lukashenko) la Lombardia, regione più ricca e popolosa d’Italia. Mentre un altro ex governatore ed ex ministro, Raffaele Fitto, subiva in primo grado una condanna a quattro anni di carcere.
Da Fonsai a Seat
Vicende giudiziarie che si sommano ad altri casi i quali mettono in evidenza la scadentissima qualità non soltanto della classe politica, ma anche di un certo nostro capitalismo. E qui la corruzione non c’entra nulla. Piuttosto, la fragilità di quei principi morali che dovrebbero essere ben presenti in ogni nazione democratica dove i risparmiatori si confrontano con il libero mercato. Basterebbe ricordare la vicenda della Seat Pagine gialle, un tempo la gallina dalle uova d’oro della Borsa italiana, scivolata in un penoso concordato dopo essere stata spolpata scientificamente dagli azionisti di turno, che la oberavano di debiti dopo averla acquistata con i soldi delle banche. Oppure la storia recente di Fonsai, la seconda compagnia assicuratrice italiana azionista di Mediobanca: esempio classico di quello che succede quando un’azienda quotata in Borsa, quindi patrimonio dei risparmiatori, viene utilizzata senza scrupoli per servire interessi familistici. Perciò non facciamoci illusioni. Dopo aver guadagnato nel 2012 il settantaduesimo posto nella poco edificante graduatoria della corruzione percepita, stilata dalla prestigiosa organizzazione Transparency International, prepariamoci a perdere ancora terreno. E anche se di fronte a queste notizie noi siamo abituati a fare spallucce, ogni posizione perduta in queste classifiche è un altro pezzo della nostra faccia che se ne va. Dal 2001 a oggi, per inciso, ne abbiamo perse quarantatre.
Sergio Rizzo