Cesare Peruzzi, Il Sole 24 Ore 15/2/2013, 15 febbraio 2013
QUANDO LA FONDAZIONE SI INDEBITÒ PER RESTARE AL 51% DEL MONTE
Più che la dimensione del prezzo, certamente elevata (9,3 miliardi pagati in contanti), l’origine del problema che ha scatenato il caso Antonveneta è il fatto che l’acquirente, Banca Monte dei Paschi, e il suo azionista di maggioranza, la Fondazione Mps, nel 2008 non avevano abbastanza denaro per concludere l’operazione. O, almeno, per farla nell’unico modo ritenuto accettabile dalla politica senese, cioè garantendo che l’Ente non scendesse sotto il 51% nel capitale della banca.
Lo squilibrio era di un miliardo per il gruppo di Rocca Salimbeni e di 490 milioni per la Fondazione. In quel momento carenze rimaste sotto traccia, o addirittura nascoste all’Autorità di vigilanza, come sembra sia accaduto secondo l’ipotesi accusatoria con il prestito obbligazionario convertibile "fresh" di Banca Mps, dell’importo di un miliardo, curato da Jp Morgan e impropriamente fatto passare per equity nei conti societari, quando in realtà si trattava di un debito dal momento che Siena ne era il garante di ultima istanza.
Il 17 marzo 2008, Banca d’Italia autorizza il Montepaschi all’acquisto di Antonveneta dal Banco di Santander, subordinando però il via libera alla «preventiva realizzazione delle misure di rafforzamento patrimoniale programmate, con specifico riguardo agli interventi di aumento di capitale e di emissione di strumenti ibridi e subordinati, in osservanza delle vigenti disposizioni normative in materia di patrimonio di vigilanza».
E, successivamente, il 23 settembre, la banca centrale italiana contesta formalmente la «computabilità del prestito "fresh" nel Core Tier 1 del gruppo di Rocca Salimbeni, mettendo l’accento sui contratti di swap tra la banca e Jp Morgan. Segue una fitta corrispondenza Siena-Roma, al termine della quale, il 27 ottobre 2008, Bankitalia ritiene che ci siano tutti i crismi per attribuire valore di patrimonio al "fresh". Ma - questa è l’accusa - nessuno sapeva delle lettere di garanzia rilasciate dal Monte dei Paschi per incassare i soldi del prestito.
La Fondazione, da parte sua, avendo già sottoscritto 3 miliardi di aumento di capitale di Banca Mps (sui 5 complessivi) e non disponendo di altri 490 milioni necessari a coprire pro quota anche il prestito "fresh", per non rischiare una diluizione futura (quando le obbligazione sarebbero state convertite in azioni ordinarie), decise di farsi finanziare l’operazione da Credit Suisse e Mediobanca, con la stipula degli ormai famosi contratti Tror, che di fatto erano un debito. Per il quale, secondo quanto conferma la Fondazione, fu chiesta l’autorizzazione al ministero dell’Economia. È il principio della fine.
I nodi vengono al pettine nel 2011: la banca deve varare un nuovo aumento di capitale, questa volta da 2,1 miliardi, per adeguare i parametri patrimoniali alle indicazioni dell’Autorità bancaria europea, a causa dello spread negativo e della quantità di Btp posseduti (circa 25 miliardi). Ancora una volta, la Fondazione partecipa per la sua parte e s’indebita ulteriormente per 600 milioni, non volendo andare sotto il 50,1% che, secondo le parole del presidente Gabriello Mancini, considerava le «proprie Colonne d’Ercole». Il ministero guidato da Giulio Tremonti dà l’ok e l’esposizione complessiva dell’Ente schizza a più di un miliardo (oggi ridotta a 350 milioni), innescando un gioco di garanzie con titoli Mps che nei primi mesi del 2012 si rivela una tagliola quasi mortale.
Oggi la partita non è chiusa. Le inchieste attribuiranno eventuali responsabilità. Ma il nodo resta lo stesso: a Siena mancano i soldi. La banca, i cui nuovi vertici sono impegnati a realizzare un ambizioso piano industriale (il titolo ieri ha chiuso a 0,2359 euro in calo dell’1%), dovrà tornare a fare utili e distribuire dividendo. L’Ente, a secco di ricavi, per chiudere il suo debito sarà costretto a vendere azioni Montepaschi. E nulla sarà più come prima.